Note
  1. Per termini iniziali del dibattito si veda, per tutti, Pontarollo, Struttura dei costi del lavoro e contrattazione, Milano, Vita e pensiero, 1978, pp. 85-99. Sulla posizione sindacale, più specificamente, Trentin, Da sfruttati a produttori, Bari, De Donato, 1977, p. CXXVI ss., CL ss.; più in generale si v. i fascicoli dedicati a «La riforma del salario», supplemento a Rassegna stampa, Roma, 1978.
  2. Treu, Problemi giuridici della retribuzione, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1980, p. 6; ma già dello stesso a., Commento sub art. 36, in «Commentario della costituzione» (a cura di Branca), Bologna, Zanichelli, 1979, p. 96.
  3. Quest’aspetto del problema è quello che più ha suscitato l’attenzione dei giuristi del lavoro, motivando proposte, peraltro avanzate di sfuggita e senza alcuna elaborazione, di introduzione nell’ordinamento di una normativa sui minimi: cfr. Mortillaro, La problematica della retribuzione nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in I1 lavoro nella giurisprudenza costituzionale, Milano, Franco Angeli, 1978, p. 224; Bianchi D’Urso, Riforma del salario e impresa minore, in «Dir. e giur.», 1978, p. 266; Ghera, Retribuzione, professionalità e costo del lavoro, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1981, p. 423; Antignani, Riflessioni su retribuzione, parità di trattamento, automatismi e art. 36, 1 ° comma, Cost., in «Riv. giur. lav.», 1981, I, p. 294. La riflessione più approfondita resta quella di Treu, Commento, cit. pp. 94-100. Più recentemente un certo dibattito s’è svolto sulle colonne della rivista «Politica ed economia» intorno a un progetto di introduzione nel nostro paese di un sistema di salario minimo. La proposta, formulata da Bulgarelli, Cantaloni e Giovine (Smig anche in Italia: la prima proposta concreta, in «Pol. ed Econ.», 1983, 12, p. 23) appare, peraltro, esplicitamente circoscritta al «tema del sostegno del reddito agli individui in condizione di inoccupazione». Per accenni alla problematica trattata in queste pagine si v., comunque, gli interventi di Celata, Giù dalla scala, saliamo sullo smig, ivi, 1984, 5, p. 9 e Bolaffi, C’è smig e smig, ivi, 1984, 6, p. 11.
    Fra i contributi di economisti favorevoli all’introduzione di un salario minimo nel senso proprio del termine vanno invece segnalati quelli di Franciosi, Il salario minimo: esperienze e problemi, in «Econ. e lav.», 1983, 2, p. 3 ss; Dal Co, I problemi della politica contrattuale oggi, in «Ires Materiali», supplemento al n. 2/1984, p. 61 ss. Sul punto si v. anche infra, cap. III, parag. 5 2.
  4. Cfr. Rieser, Sindacato e composizione di classe, in «Lab. pol.», 1981, 4, p. 62 ss, e anche Santi, All’origine della crisi del sindacato, in «Quad. piacentini» 1982, 4, p. 50 s.
  5. Serpellon (a cura di), La povertà in Italia, Milano, Franco Angeli, 1982. In proposito d’obbligo è adesso il riferimento alle risultanze contenute nel rapporto redatto da un’apposita commissione governativa. Per un primo commento cfr. Gorrieri, Così si vince la povertà, in «la Repubblica», 29 settembre 1985.
  6. Indovina, La pellagra è scomparsa. I poveri no, ne «Il manifesto», 6 maggio 1982.
  7. ILO, Minimum wage fixing and economie development, Ginevra, 1968, p. 148: «Concepito come uno strumento per alleviare o vincere la povertà di lavoratori a basso reddito, l’effettività del salario minimo legale è limitata in tutti i paesi, giacché i bassi salari sono solo una delle molte cause di povertà...»; ma sottolineando quest’aspetto non si vuole «…suggerire che il salario minimo legale non sia importante, bensì mettere in rilievo l’importanza di vederlo in prospettiva come uno di un ampio numero di strumenti di politica sociale ed economica ...» (sul punto p. 9 s.). Spunti in quest’ottica anche in Courthéoux, Principes, fonctions complémentaires et dépassement du salaire minimum, in «Droit social», 1978, p. 286.
  8. È il caso, ad es., del Giappone dove una legge sui salari minimi è stata introdotta nel 1959 ed ampiamente rimaneggiata all’inizio degli anni ’70: si v. Starr, Minimum wage fixing, Ginevra, edizioni dell’ILO, 1981, p. 6. Sul sistema giapponese, in generale, Hanami, Japan, in International encyclopaedia for labour law and industrial relations, (a cura di Blanpain), Kluwer, The Netherlands, 1978, p. 74.
  9. Come in Olanda, dove il salario minimo legale è stato reintrodotto nel 1969, e in Belgio (1975): cfr. Starr, op. cit., p. 6. L’influenza della crisi economica sulla diffusione delle normative sui minimi salariali è sottolineata da Reynaud. Problemi e prospettive della contrattazione collettiva nei paesi membri della Comunità, (a cura della Commissione delle comunità europee), Bruxelles, 1979, p. 22. Di fatto ormai in tutti i paesi della CEE esiste una qualche forma di normativa sui minimi, anche se la legge tedesca in materia è virtualmente inoperante.
  10. Cella e Negrelli, Non è facile per i poveri farsi notare dal sindacato, ne «Il manifesto», 6 maggio 1982.
  11. Ghezzi e Romagnoli, Il diritto sindacale, Bologna, Zanichelli, 1982, p. 40.
  12. Ricardo, Principi dell’economia politica, Torino, UTET, 1856 (ma 1817), p. 421.
  13. La discussione circa gli effetti della contrattazione collettiva e dell’intervento dello Stato, tramite la fissazione di un salario minimo legale, sul livello dei salari non può considerarsi esaurita, del resto, neppure ai giorni nostri: sul punto cfr. sin d’ora Dobb, I salari, Torino, Einaudi, 1965 (trad, dalla IIa ediz. del 1959), p. 125 ss.
  14. Giugni, Introduzione a Perlman, Per una teoria dell’azione sindacale, Roma, Ediz. Lavoro, 1980 (ma 1956), p. 3.
  15. Dobb, Storia del pensiero economico, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 27. Nello stesso senso si v. Roll, Storia del pensiero economico, Torino, Boringhieri, 1967, p. 352 ss., con particolare riferimento a Nassau Senior, «sulle cui convinzioni fondamentali nulla getta una luce maggiore che la sua violenta opposizione al sindacalismo operaio» (ivi p. 355).
  16. Cfr. Dobb, I salari, cit., p. 98 ss., 125 ss. Assolutamente esplicite al riguardo le tesi di Mountifort Longfield: nelle sue «Lectures on political economy» tenute a Dublino nel 1833 egli afferma l’impossibilità di «regolare complessivamente i salari, sia con l’organizzazione dei lavoratori, sia con misure legislative» giacché «l’ammontare dei profitti e dei salari è chiuso entro confini che nessun corpo legislativo, con l’esercizio diretto della propria autorità, può estendere. Le leggi e l’organizzazione dei lavoratori possono solo provocare danni, mai vantaggi»: citazioni da Dobb, Storia, cit., p. 27, 105 ss. È appena il caso di ricordare che quando Longfield tiene le sue «Lectures» il parlamento inglese aveva da non molto tempo cessato di legiferare in materia salariale: nel 1813, infatti, erano state abrogate le ultime leggi che regolamentavano il livello massimo dei salari. L’abrogazione, peraltro, sopravveniva quando la funzione sociale dell’istituto era già da tempo esaurita: con essa si giungeva a suggellare, con ritardo, la realtà di un capitalismo «divenuto abbastanza forte da render tanto inattuabile quanto superflua una regolamentazione legale del salario»: così Marx, Il capitale, I t. 2, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 803 (ivi ampi ragguagli sugli interventi legislativi sui massimi salariali dal XIV secolo in poi).
    Per una valutazione più completa delle teorie tradizionali dei salari si deve tener conto che non tutte presentano un pari grado di rigidità: l’interpretazione marshalliana, ad esempio (che peraltro è espressa in forma compiuta sul finire del secolo: i «Principles» sono pubblicati nel 1890), è sicuramente meno schematica e più aperta ad ammettere l’influenza dell’azione sindacale. Non a caso di Marshall è stato detto che si trattava di «un riformista liberale: sebbene non intendesse rinunciare ad alcun argomento che la moderna scienza economica potesse offrire in difesa del capitalismo, egli era anche restio a sbarrare la strada a tutte le proposte di riforme»: Roll, Storia, cit., p. 408.
  17. D’obbligo il riferimento all’opera dei coniugi Webb: «Quando qualsiasi uomo di Stato europeo si determinerà a prendere seriamente di fronte il problema dei sweated trades, egli dovrà svolgere ed ampliare le leggi sulle fabbriche del suo paese in un codice del lavoro sistematico e comprensivo, che prescriva il minimum delle condizioni sotto la cui osservanza soltanto la comunità può permettere che l’industria venga esercitata, e comprendente non solo determinate misure precauzionali di igiene e di sicurezza ed un maximum di ore di fatica, ma anche un minimum di guadagni settimanali»: Industrial democracy (1897), trad. it. La democrazia industriale, Torino, UTET, 1912, p. 704. Tutta l’introduzione alla seconda edizione di Industrial democracy, scritta nel dicembre del 1901, è ispirata ad una vigorosa difesa dell’idea di salario minimo legale.
  18. Cfr. Ricardo, Principi, cit., p. 412 ss. Com’è noto Ricardo distingue fra prezzo naturale del lavoro, inteso come «quello che sia indispensabile perché tutti in genere i lavoranti possano sussistere e perpetuare la loro specie senza accrescimento o diminuzione» e prezzo corrente che è «quello che realmente se ne paga, come naturale effetto del rapporto tra la domanda e l’offerta; giacché il lavoro è più caro quando scarseggian le braccia, men caro quando abbondano» (p. 412): da questa distinzione parte anche l’analisi marxiana per dare fondamento, attraverso la sottolineatura dell’elemento storico-sociale del valore della forza-lavoro (le abitudini e i costumi di Ricardo), alla necessità ed utilità dell’azione salariale del sindacato. Non a caso gli economisti di scuola marginalista, à la Jevons, polemizzeranno aspramente con la teoria di Ricardo, imputandole, nella sostanza, il grave torto di aver spalancato la porta al sistema marxiano: cfr. Dobb, Storia, cit., p. 171.
  19. In effetti Ricardo, sulle orme di Malthus, sembra ritenere che l’operare della legge della popolazione sia atto a controbilanciare gli effetti di abitudini e costumi nella determinazione dei livelli salariali: cfr. Dobb, I salari, cit., p. 102.
  20. Marx, Salario, prezzo e profitto, Roma, Editori Riuniti, 1977 (ma 1865), p. 106. Marx, naturalmente, si allontana da Ricardo anche per l’esplicito rifiuto della teoria malthusiana della popolazione. Che lo spessore scientifico di tale teoria fosse inconsistente sarà dimostrato definitivamente alla fine del secolo XIX, quando si scoprirà che il tasso di natalità fra le persone con livello di vita più elevato tende ad essere non più elevato, ma più basso. Anche per contrastare il diffondersi di concezioni riduttive dell’azione sindacale all’interno dei nascenti movimenti operai Marx scrisse Salario, prezzo e profitto: l’occasione immediata fu data dalla necessità di replicare alle tesi dell’operaio inglese John Weston, che aveva sostenuto, in pratica, l’inutilità dell’azione salariale del sindacato. Ma già precedentemente, com’è noto, Lassalle aveva contribuito a propagare nel movimento operaio tedesco la c.d. «legge bronzea del salario»: cfr. Abendroth, La socialdemocrazia in Germania, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 20 ss., ed anche Lenin, Sui sindacati, gli scioperi, l’economismo, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 5.
    Sulla natura sociale, e perciò relativa, dei bisogni Marx aveva già insistito in Lavoro salariato e capitale, Roma, Editori Riuniti, 1977 (ma 1849), p. 54.
  21. Marx, in realtà, condivideva con Ricardo la convinzione non solo che il prezzo di mercato della forza-lavoro oscillasse attorno al suo valore ma anche che non se ne potesse tenere troppo a lungo discosto. Per questo l’azione salariale del sindacato trova fondamento, più che nell’esigenza di contrastare le fluttuazioni verso il basso del prezzo di mercato, soprattutto nell’esistenza di quello ch’egli chiama elemento storico-sociale del valore della forza lavoro.
  22. Vitello, Introduzione a Marx, Salario, cit., p. 16.
  23. Cfr. Morton e Tate, Storia del movimento operaio inglese (1770-1920), Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 192 s. La rivendicazione di un salario minimo legale figura anche altrove fra gli obbiettivi dell’azione politica socialista: in Francia, ad esempio, il partito socialista la inserì nel proprio programma, alla cui stesura parteciparono anche Marx ed Engels, sin dal congresso di Parigi del 1880: si V. Raynaud, Vers le salarire minimum. Étude d’économie et de législation industrielles, Parigi, Sirey, 1913, p. 367. Sull’azione dei socialisti italiani si veda più avanti nel testo.
  24. Giugni, introduzione, cit., p. 22.
  25. Cfr. Webb, La democrazia industriale, cit., p. 710.
  26. Ibidem, p. 42.
  27. Ibidem, p. 735: «…il metodo del contratto collettivo ha anch’esso la sua legittima sfera d’azione. Nella nostra analisi delle caratteristiche economiche della norma comune abbiamo fatto osservare quanto sia essenziale, nell’interesse di ogni industria in particolare, ed anche della comunità in complesso, che nessuna categoria di operai rimanga paga del minimum nazionale garantito dalla legge...». E più avanti: «... Insomma, per tutto ciò che eccede il minimum nazionale... i salariati debbono fare assegnamento sul metodo del contratto collettivo» (p. 737). Sul rapporto fra legge e contratto negli Webb si v. Sciarra, La democrazia industriale in Gran Bretagna dagli Webb al rapporto Bullock, in Aa. Vv., Democrazia politica e democrazia industriale, Bari, De Donato, 1978, p. 11 s; Pedrazzoli, «Industrial democracy» di Sidney e Beatrice Webb: ottant’anni dopo, in «Pol. dir.», 1983, p. 685 ss.
    Non va trascurato che nello stesso torno di tempo l’idea di salario minimo, sub specie di «giusto» salario, trova un’eco anche nel pensiero sociale cattolico, a seguito della pubblicazione nel 1891 dell’enciclica Rerum novarum. Ma mentre nelle correnti di pensiero socialista si compie il tentativo di fondare la rivendicazione del salario minimo su basi scientifico-razionali, l’enciclica si limita ad operare un répêchage dell’idea cristiano-medioevale di giusto salario, elaborata dai canonisti come applicazione specifica della teoria del giusto prezzo nei contratti. Restando indeterminata quanto agli strumenti di attuazione del salario minimo, l’enciclica, inoltre, si poneva su un terreno più arretrato anche rispetto al dibattito in corso negli ambienti cattolici, dove proposte di intervento dello Stato in materia erano già state esplicitamente avanzate, per es. dal cardinale Manning in Inghilterra e da padre Liberatore in Italia (sulla «Civiltà cattolica» del 1889). Anche per questo riguardo, dunque, si può convenire con chi ha scritto che «la politica sociale di Leone XIII ha i tratti essenziali di tutti gli altri aspetti della sua politica: genialità d’intuizioni, una certa nebulosità dei programmi, indeterminatezza dei punti d’arrivo»: Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1963, p. 316. Questa sostanziale ambiguità della posizione dei cattolici troverà riflesso nel dibattito che in tema di salario sufficiente si avrà all’Assemblea Costituente; ma per una valutazione critica di posizioni emerse nel periodo immediatamente precedente v. sin d’ora Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 23 s.
  28. La legge della domanda e dell’offerta, spiegano gli Webb, si era già da tempo rivelata inadeguata per la determinazione di un minimo di condizioni igieniche nelle fabbriche, di misure antinfortunistiche, come pure della durata massima della giornata di lavoro (p. 551). Ma per arrivare a contestarla apertamente anche sul piano delle condizioni salariali bisognerà aspettare le prime grandi sollevazioni di operai non qualificati (e fino ad allora non organizzati). Quando poi la depressione economica dei primi anni ’90 metterà in pericolo i livelli salariali anche degli operai qualificati, organizzati nei sindacati tradizionali, il ripudio della dottrina della domanda e dell’offerta nelle trade unions diverrà definitivo (p. 555 s; cfr. anche Morton e Tate, op. cit., p. 193 ss.).
  29. Webb, op. cit., p. 710.
  30. Si ricordi l’esempio della Miners’ Federation, citato in nota 28, durante la depressione industriale del 1892-1893.
  31. Val la pena di notare come vi sia un nesso evidente fra il riconoscimento delle libertà sindacali e della legittimità di rivendicazioni salariali: in Inghilterra, ad esempio, allo Statute of Labourers del 1349 aveva fatto seguito, nello stesso secolo XIV, la considerazione della coalizione fra operai come delitto grave. La legittimità di essa, per contro, segue l’abolizione dell’ultima legge sui massimi salariali, avvenuta 11 anni prima: in proposito si v. Marx, Il capitale, cit., p. 802; Kahn-Freund, Labour and the law, Londra, Stevens & Sons, 1972, p. 170.
  32. Cfr. Pic, Traité élémentaire de legislation industrielle, Parigi, Rousseau, 1930, p. 648. Il primo Truck Act fu approvato in Inghilterra nel 1831: sulle ragioni dell’opposizione sindacale a tale forma di pagamento si v. Webb, op. cit., p. 316 s., Marx, op. ult. cit., libro it. 1°, p. 208. Sui Truck Acts cfr. da ultimo, da noi, Liebman, Contributo allo studio delle fonti di regolamentazione giuridica del rapporto di lavoro subordinato in Gran Bretagna, in «Riv. dir. lav.», 1979, I, p. 590.
  33. Le parole del deputato Aynard furono pronunciate durante la discussione che porterà all’approvazione dei decreti Millerand: la citazione è in Raynaud, op. cit., p. 69. Lo spettro del socialismo, del resto, sarà fatto balenare ovunque con estrema facilità dagli oppositori del salario minimo legale: opinioni analoghe a quelle del deputato Aynard sosterrà, ad esempio, l’ala estrema del partito conservatore durante il dibattito parlamentare precedente l’emanazione del Trade Boards Act. Sulla posizione assunta, da noi, da L. Barassi v. infra nel testo; per quanto riguarda, infine, il riaffiorare di simili concezioni durante il new deal roosveltiano si v. il paragrafo n. 4.
  34. Anche se, nella sua esagerazione, percepiva lucidamente che il salario minimo legale costituisce un fattore di turbativa degli spontanei equilibri di mercato di efficacia, potenzialmente, più intensa della stessa contrattazione collettiva: in condizioni di mercato del compratore, coniugate, come spesso succede, a debolezza sindacale, la contrattazione, di per sé, può non essere in grado di assicurare salari sufficienti e il salario minimo legale può reagire anche sui livelli da essa determinati.
  35. Rivendicazioni in materia, infatti, si diffondono, più o meno ovunque, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso: per un efficace panorama comparativo si V. Raynaud, op. cit., p. 367 ss.
  36. E infatti disposizioni in materia di salari minimi saranno inseriti nei «codici di concorrenza leale» approvati, nel quadro del National Industriai Recovery Act, durante la prima fase dell’amministrazione Roosevelt: si v. infra il paragrafo seguente.
  37. Webb, op. cit., p. 713 ss.
  38. Sulle resistenze degli imprenditori inglesi si v. Grandi, Studi sul diritto del lavoro inglese e nordamericano, Milano, Giuffrè, 1970, p. 20; quelle degli imprenditori francesi sono ampiamente documentate da Raynaud, op. cit., p. 399 ss.
  39. Carnelutti, Sul contratto di lavoro relativo ai pubblici servizi assunti da imprese private, in «Riv. dir. comm.», 1909, p. 421 s.
  40. L’intera vicenda è ben ricostruita da Raynaud, op. cit., pp. 58-71; sui decreti Millerand si v. anche Lyon-Caen, Les Salaires, 1a ediz., Parigi, Dalloz, 1967, p. 15.
  41. V. Kahn-Freund, op. cit., p. 163; in generale sull’evoluzione delle Fair wages resolutions si v. dello stesso autore Legislation throught adjudication. The legal aspects of fair wages clauses and recognised conditions, in «Modern Law rev.», 1948, p. 269 ss. La più recente «rivisitazione» della tematica delle clausole a favore dei lavoratori, da noi, è in Balandi, Le clausole a favore dei lavoratori e l’estensione dell’applicazione del contratto collettivo, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1973, p. 698 ss.
  42. Ruini, Il valore della clausola del salario minimo nei pubblici appalti, in «Contr. lav.», 1906, p. 307. Si aggiunga che a giustificare l’intervento statale nella materia degli appalti si allegava anche l’esistenza di uno specifico interesse pubblico: attraverso l’elevamento dei salari si sarebbe evitato che operai mal pagati fornissero prestazioni di qualità scadente, che avrebbero costretto, trascorso un breve periodo, ad intraprendere lavori di manutenzione, con evidente aggravio di costi per l’amministrazione. Il rilievo è comune: cfr. Pie, op. cit., p. 665; Ruini, op. cit., p. 307; Carnelutti, op. cit., p. 416.
  43. Ruini, op. cit., p. 305.
  44. Sul progetto Gianturco si v. Ruini, op. cit.; sui due progetti Cocco-Ortu del 1907 e 1909 Carnelutti, op. cit.; sul progetto Sacchi (1910) ancora Carnelutti, Clausole a favore dei lavoratori nei capitolati di appalto di opere pubbliche, in «Riv. dir. comm.», 1910, I, p. 725 ss. In generale Balandi, op. cit., p. 714 ss.
  45. Romagnoli, Le origini del pensiero giuridico-sindacale in Italia, in Materiali per una storia della cultura giuridica (a cura di Tarello), III, 2, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 76. Disposizioni in tema di «equo trattamento» saranno previste dalla legge 14 luglio 1912, n. 835 anche a favore del personale addetto ai pubblici servizi di trasporto. Pure in questo caso si trattava di un provvedimento di carattere compensativo di una situazione creata dalla magistratura, che, con giurisprudenza costante, aveva equiparato i tramvieri ai ferrovieri, privando così, «attraverso un’estensione analogica in malam partem, anche questa categoria del diritto di sciopero»: Neppi Modona, Sciopero, potere politico, magistratura, I, Bari, Laterza, 1979, p. 146.
  46. Cfr. Morton e Tate, op. cit., pp. 192, 198, 216.
  47. Sul processo formativo del partito laburista cfr. ancora Morton e Tate, op. cit., pp. 218-228. Nel «Labour Representation Committee» confluirono sia numerose unioni sindacali, sia le tre organizzazioni politiche di ispirazione socialista: l’Indipendent Labour Party, la società fabiana e la federazione socialdemocratica di orientamento marxista (quest’ultima se ne staccherà ben presto).
  48. Sul caso Taff Vale si v. per tutti Kahn-Freund, Labour and the law, cit., p. 232. Niente, comunque, vale ad illustrare il clima dell’epoca, quanto una pagina esemplare di Industrial democracy. A proposito degli orientamenti repressivi dell’azione sindacale emersi nelle decisioni della Camera dei Lords, gli Webb non dubitano dell’onestà ed imparzialità dei giudici; si dicono, al contrario, del tutto convinti che quei giudici esprimano, in assoluta buona fede, un’ideologia schiettamente antioperaia. E infatti «accade questo, che, nell’incertezza presente, il diritto che si applica al caso speciale deve necessariamente dipendere dal modo di considerare l’azione generale dell’unionismo…». «Ma la gran maggioranza dei nostri giudici ritiene evidentemente, nella massima buona fede, che l’unionismo — significando l’adozione di norme comuni in tutta un’industria — è anomalo, condannabile, nocivo all’industria inglese, e che costituisce persino un’illecita violazione della libertà individuale, che il parlamento si è indotto con soverchia leggerezza a far esulare dalla categoria dei reati» (op. cit. p. 25).
  49. Dobb, I salari, cit., p. 176.
  50. Cfr. Kahn-Freund, op. ult. cit., p. 232.
  51. Il Factories and Shops Act fu approvato nello Stato di Victoria nel 1896. Inizialmente la legge prevedeva la costituzione di wage boards a composizione tripartita soltanto in sei settori, caratterizzati da condizioni di particolare sfruttamento del lavoro; successivamente se ne estese il raggio di applicazione, sino a renderla di portata potenzialmente generale, dandosi al parlamento la facoltà di istituire un consiglio salariale in qualsiasi settore ne ravvisasse l’opportunità: cfr. Reeves, The minimum wage law in Victoria and South Australia, in «Econ. Jour.», 1901, p. 334 ss. Ispirazione differente aveva la legge neozelandese del 1894 che, pur permettendo di determinare condizioni salariali ad efficacia legale obbligatoria, era stata pensata nel quadro di una procedura di prevenzione dei conflitti collettivi. Sulle differenze fra le due leggi si v. Webb, op. cit., p. 30-41.
  52. La pubblicistica sul Trade Boards Act del 1909 è vastissima: per tutti si v. Sells, Les effets économiques des conseils d’industrie britanniques, in «Rev. internat. travail», 1923, vol. VIII, p. 201 ss. I settori inizialmente colpiti dalla legge furono quelli dell’abbigliamento, della fabbricazione di scatole di cartone, della fabbricazione di merletti a macchina e di catene.
  53. L’opinione di Roy Lewis (Kahn-Ereund e il diritto del lavoro: un profilo critico, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1980, p. 97), secondo cui quella legge avrebbe dato risultati scarsi, appare per un verso unilaterale, per altro verso «anglocentrica». È vero, infatti, che essa deludeva le attese delle trade unions di un provvedimento di portata più generale; è anche vero, però, che si trattò di un punto di partenza che permetterà i successivi sviluppi della legislazione inglese in materia e servirà di modello alla convenzione OIL del 1928 (si v. infra nel testo). Il Trade Boards Act, inoltre, si poneva su un piano nettamente più avanzato rispetto alle coeve esperienze europee.
  54. Su tutte queste leggi si v. l’articolo, non firmato, La réglementation légale des salaires dans les métiers mal rémunérés en Europe, in «Rev. Internat. travail», 1921, vol. IV, p. 351 ss. Si trattava di provvedimenti estremamente riduttivi, in genere limitati all’industria dell’abbigliamento che ovunque (anche da noi) costituiva un tipico esempio di sweating system.
  55. Cfr. La réglementation légale, cit., p. 357. Il lavoro a domicilio aveva un peso prevalente nell’industria della fabbricazione di catene e di merletti, mentre era di rilievo secondario nell’industria dell’abbigliamento e della fabbricazione di scatole.
  56. Anche sulle leggi statali americane la pubblicistica è assai ampia: per tutti si v. Brandeis, Labor legislation, in History of labor in the United States (1896-1932), vol. III, (a cura di Commons), New York, MacMillan, 1935, pp. 501-539; Commons ed Andrews, Principles of labor legislation, New York, Kelley, 1967 (ma 1936), p. 54 ss. Delle leggi americane quelle approvate in Arizona, Porto Rico e Utah prevedevano direttamente la fissazione del salario minimo; negli altri Stati operava un meccanismo di determinazione attraverso consigli salariali tripartiti, di tipo diverso da quello inglese. Infatti in ciascuno Stato si prevedeva l’istituzione di una sola commissione salariale, la quale, attraverso apposite inchieste, avrebbe stabilito i settori cui applicare il salario minimo. La commissione centrale, però, aveva facoltà di avvalersi del parere di comitati consultivi d’industria, anch’essi a composizione tripartita, cosicché, nella pratica, le differenze rispetto al sistema inglese tendevano a sfumare. Le commissioni potevano stabilire salari minimi diversi per industria (ma non necessariamente: il salario minimo poteva anche essere uniforme) e a seconda del costo locale della vita (ma questo elemento veniva preso in considerazione più raramente).
  57. Si v. ad esempio l’articolo di Schiavi, Lavoro a domicilio e minimo di salario, in «Critica sociale», 1908, p. 58 ss.
  58. Sui due progetti cfr. Balella, Lezioni di legislazione del lavoro, Roma, Società anonima editrice, 1927, p. 329; Riva-Sanseverino, Salario minimo e salario corporativo, Roma, A.R.E., 1931, p. 65. La pochezza dei due progetti di legge in questione è attestata anche dal rilievo ad essi accordato nelle più recenti ed accurate ricostruzioni della disciplina giuridica del lavoro a domicilio: neppure un cenno in Mariucci, Il lavoro decentrato, Milano, Franco Angeli, 1979, qualche fugace riferimento in M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, Padova, Cedam, 1978, p. 5 nota 8, p. 11 nota 18.
  59. Per tutti si v. Vannutelli, Occupazione e salari dal 1861 al 1961, in L’economia italiana dal 1861 al 1961, Milano, Giuffré, 1961, p. 560 ss; Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 7-28; Cova, L’occupazione e i salari, Milano, Franco Angeli, 1977, p. 7 ss.
  60. Cfr. in generale Morandi, Storia della grande industria in Italia, Torino, Einaudi, 1966, (ma 1931), p. 135 ss.
  61. Procacci, op. cit., p. 25.
  62. Nitti, La legislazione sociale in Italia e le sue difficoltà, in «Rass. agraria, ind., comm., pol.», 1892, ora in Scritti sulla questione meridionale, I, Bari, Laterza, 1958, p. 173. Si tratta, peraltro, di una valutazione incontestabile: cfr. Procacci, op. cit., p. 15; Morandi, op. cit., p. 157 ss.
  63. Il dato sulla disapplicazione proviene dagli stessi industriali: in un memoriale redatto nel 1896 dall’associazione cotoniera, parlando della legge di dieci anni prima, «si notava esserne l’infrazione talmente frequente, da renderla quasi irrisoria per ciò che riguarda la sua vera sostanza»: così Morandi, op. cit., p. 170.
  64. Morandi, op. cit., p. 169. Sulla legge del 1902 si vedano, da ultime, le ricostruzioni di Balestrero, Dalla tutela alla parità, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 19 ss; M.L. De Cristofaro, Tutela e/o parità, Bari, Cacucci, 1979, p. 43 ss.
  65. Arduino, Il sistema del salario minimo nelle sue recenti applicazioni, in «La Riforma sociale», 1897, p. 96. Per una testimonianza dell’epoca sull’anti- statualismo della classe operaia italiana si v. Schiavi, op. cit., p. 60; da ultimi Ghezzi e Romagnoli, op. cit., p. 2 s.
  66. Cfr. Ruini, op. cit., p. 305, che, scrivendo nel 1906, testimonia come ormai restassero «a trattare l’argomento soltanto i convegni cattolici». L’affermazione di Vannutelli, (op. cit., p. 566) secondo cui «il problema del salario non era tra quelli più pressanti» può essere accettabile soltanto se riferita al quadro generale dei rapporti di forza fra capitale e lavoro nell’Italia liberale. Lo stesso autore, del resto, prosegue affermando che «urgevano maggiormente, e davano luogo a movimenti di rivendicazione, il problema degli orari di lavoro, il problema dell’igiene e della sicurezza del lavoro, e correlativamente quello del lavoro notturno e del lavoro femminile e minorile». In termini assoluti, invece, è sicuramente contestabile, giacché, ancora alla fine del secolo, «nonostante qualche aumento verificatosi in certi rami della produzione, i salari di fame, che l’assoluta maggioranza delle nostre maestranze operaie già percepiva, restavano salari di fame»: Morandi, op. cit., p. 149.
  67. Rilievo comune: per tutti cfr. Vannutelli, op. cit., p. 569; Cova, op. cit., p. 26.
  68. Foa, Sindacati e lotte sociali, in Storia d’Italia, vol. V, Torino, Einaudi, 1973, ora in Per una storia del movimento operaio, Torino, Einaudi, 1980, p. III: ivi anche un più articolato discorso sulla politica salariale della Cgdl.
  69. Barassi, Giusto salario e salari anormali. Contributo al concetto di equivalenza nei contratti onerosi di scambio, in «Riv. dir. comm.», 1917, I, p. 1 ss. Ma l’autore aveva già esposto la sostanza del suo pensiero nell’opera maggiore, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, II, Milano, S.E.L., 1915, p. 360 ss., 388 ss.
  70. Giusto salario, cit., p. 10.
  71. Ivi, p. 1.
  72. Ivi, p. 2.
  73. Ivi, p. 5.
  74. La critica barassiana alla dottrina cattolica del giusto salario, condotta sulla base della concezione soggettiva del rapporto di equivalenza fra retribuzione e lavoro, è in sé inattaccabile. Dove l’autore equivoca grossolanamente (citando, peraltro, Marx di seconda mano: Giusto salario, p. 8, nota 1) è nell’accostamento fra la dottrina cattolica e la teoria marxista del salario. L’estraneità di quest’ultima alle suggestioni dell’idea di «giusto salario» è del tutto evidente: basti pensare alla assoluta incompatibilità con la teoria del plusvalore. Sul punto si v. Marx, Salario, prezzo e profitto, cit., p. 72.
  75. «Anche la mercede normale (“valore oggettivo”) può dar l’illusione di quel criterio oggettivo, mentre in realtà essa, se non è esattamente la media statistica delle mercedi usualmente pattuite, certo presuppone sempre una pluralità di casi determinati tutti da apprezzamenti soggettivi» Giusto salario, cit., p. 5, e già Il contratto, cit., p. 389.
  76. Giusto salario, cit., p. 7.
  77. ivi, p. 10.
  78. Citazioni tutte da Giusto salario, cit., p. 12.
  79. Ivi, p. 18. In altri termini «qui non vi è che un riflesso del naturale squilibrio tra classi sociali, cioè il riconoscimento di una situazione naturale di cose, non già l’abnorme sovrapposizione a una situazione naturale... In questa ipotesi non vi ha dunque un’anomalia, cioè la singolarità di un caso eccezionale; ma, purtroppo, l’applicazione di una ipotesi molto comune. Altri operai si trovano in questa condizione; cosicché la mercede concessa rappresenterà il più delle volte una mercede comune a una determinata classe di lavoratori non qualificati» (p. 18).
  80. Ivi, p. 27. Il dubbio circa l’irrisorietà del rimedio proposto si affaccia alla mente dello stesso autore, che si vede costretto ad ammettere, qualche pagina più avanti, «si dirà che è troppo poco», affrettandosi però subito ad aggiungere la sua convinzione che «dal diritto non si possa oggi pretendere di più: non può pretendere il diritto di riformare i costumi, né di contrastare l’autonomia contrattuale, se non in una misura molto limitata» (p. 31).
  81. Barassi fa riferimento al § 138 del BGB che in Germania era stato utilizzato, con interpretazione estensiva, per annullare contratti di lavoro caratterizzati da salari infimi. L’applicazione del rimedio della rescissione per lesione al contratto di lavoro era prevista anche dall’art. 21 del codice svizzero delle obbligazioni: sul punto si v. Raynaud, op. cit., p. 124 ss. Proprio a proposito dell’interpretazione del § 138 del BGB Barassi coglie l’occasione per polemizzare con Lotmar, che nel suo Der Arbeitsvertrag nach dem Privatrecht des deutschen Reiches, I, Lipsia, Duncker und Humblot, 1902, p. 172, aveva sostenuto l’applicabilità di quella norma anche nel caso di salari bassissimi conformi all’uso corrente: «...affermazioni come questa del Lotmar, che pure è giurista molto fine, benché non sempre spassionato, fanno assai più male che bene al principio di una reazione giuridica contro salari infimi o usurati»: Giusto salario, cit., p. 30, nota 2. Analoga critica è riservata a un progetto di legge francese: «Il progetto di legge del governo francese (1907), all’art. 11, ammetteva la reazione del diritto anche contro la sproporzione conforme agli usi professionali. Ma allora dove sta l’anomalia, dove la sproporzione?»: ivi, p. 29, nota 2.
  82. Ivi, p. 30.
  83. Il contratto di lavoro, II, cit., p. 386.
  84. Giusto salario, cit., p. 29.
  85. La réglementation legale, cit., p. 381 s. Il BIT, che del problema dei bassi salari era chiamato ad occuparsi anche da una norma del trattato di Versailles, manterrà sempre una costante (e meritoria) attenzione alla prospettiva del salario minimo legale, dai primi articoli comparsi sull’annata 1921 della «Revue internationale du travail» sino ai giorni nostri.
  86. La riforma legislativa del ‘18 fu attuata per prevenire l’abbassamento dei livelli salariali che si temeva sarebbe succeduto alla fine della guerra. Per questo motivo il criterio dei salari «eccezionalmente bassi» fu sostituito dal diverso criterio dell’assenza di un meccanismo negoziale adeguato al compito della determinazione dei salari, come condizione legittimante l’istituzione di un trade board. In tal modo l’autorità governativa poté «intervenire in un più ampio spazio di categorie e di settori industriali, perché il principio della insufficienza dei meccanismi contrattuali di disciplina dei salari era suscettibile di una applicazione molto più lata che non il criterio, per sé restrittivo e nella pratica applicato sempre restrittivamente, del salario eccezionalmente basso»: Grandi, op. cit., p. 23. Di fatto sotto l’imperio della nuova legge il numero dei consigli industriali in funzione crebbe rapidamente arrivando, in breve volger di tempo, a toccare il tetto delle sessantatre unità.
  87. Prima di giungere all’esame della Corte Suprema, parecchie leggi statali avevano positivamente passato il vaglio dei tribunali di Stato: si v. al riguardo Commons ed Andrews, Principles, cit., p. 76 s. L’attaccamento tenace alla concezione liberista dei rapporti economici muove invece i giudici della Cone Suprema nella decisione del caso Adkins v. Children v. hospital, con cui venne dichiarata incostituzionale, nel 1923, la legge sui minimi salariali del Distretto di Columbia. Se essa si fosse limitata a stabilire il modo di pagamento del salario — si legge nella motivazione — non vi sarebbe stato alcun problema di costituzionalità. Viceversa quella legge «è semplicemente ed esclusivamente una legge di fissazione dei prezzi, limitata alle donne adulte..., che sono giuridicamente capaci quanto gli uomini di concludere un contratto che le riguarda. Essa impedisce a due parti aventi entrambe la capacità giuridica... la libertà di concludere a piacimento un contratto relativo al prezzo per il quale l’una s’impegna a prestare i suoi servizi all’altra in un impiego puramente privato...». Inoltre essa implica palesemente un attacco al diritto di proprietà, poiché «nella misura in cui la somma fissata superi il giusto valore dei servizi resi, si è in presenza di una esazione operata contro l’imprenditore, che viene obbligato a sostenere una persona bisognosa pur non essendo particolarmente responsabile della situazione di questa persona»: citazioni in Rice, La constitutionnalité de la législation du travail aux États-Unis, in «Rev. Internat. travail», 1926, vol. XIV, p. 822. Lo spessore puramente ideologico della sentenza della Corte Suprema (e delle altre che seguirono negli anni successivi) può essere colto meglio se si considera che, nella situazione di particolare prosperità economica dell’America degli anni ’20, provvedimenti limitativi dei livelli salariali non trovavano alcuna giustificazione ed anzi apparivano come un non-senso: sul punto si v. Broda, La législation sur les salaires minima aux États-Unis, in «Rev. Internat. travail», 1928, vol. XVII, p. 55.
  88. Cfr. Pribram, La réglementation des salaires minima du point de vue international, in «Rev. internat, travail», 1928, vol. XVII, p. 339.
  89. Per l’Inghilterra si veda Sells, op. cit., p. 219 ss.; quanto agli Stati Uniti Commons ed Andrews, op. cit., p. 73, attestano che, nonostante i timori sindacali, «la formazione di consigli salariali ha spesso agito come uno stimolo all’organizzazione di sindacati, attraverso i quali i lavoratori hanno in alcuni casi potuto ottenere ulteriori aumenti al di sopra del tasso minimo legale».
  90. In queto senso può leggersi l’opposizione sempre manifestata negli Stati Uniti dall’AFL a qualsiasi legislazione sui minimi salariali. Negli anni ’10 e negli anni ’20 quell’atteggiamento poteva anche spiegarsi con «la struttura d’allora dello Stato americano che non permetteva alcun successo permanente dell’azione politica o legislativa» (così Perlman, Il movimento sindacale negli anni del New Deed, appendice a Per una teoria dell’azione sindacale, cit., p. 288). Non così negli anni ’30, quando, in un quadro politico-istituzionale mutato, l’AFL, a differenza del CIO, continuerà ad opporsi al Pair Labor Standards Act rooseveltiano: si v. Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal, Bari, Laterza, 1968, p. 242. La radice dell’opposizione AFL, in realtà, era sempre la stessa: l’AFL era un sindacato di mestiere di operai qualificati, i cui aderenti non avrebbero tratto alcun vantaggio diretto dalle leggi sui minimi. Per altro verso quelle leggi venivano considerate quasi come un’indebita interferenza da parte dello Stato in una sfera, la regolamentazione dei rapporti di lavoro, ritenuta di esclusiva competenza sindacale. Sui caratteri del sindacalismo AFL si v. da ultimo Valenzuela, Uno schema teorico per l’analisi della formazione del movimento operaio, in «Stato e Mercato», 1981, p. 463 e 469.
  91. Il testo della convenzione n. 26 e della raccomandazione n. 30 dell’OIL possono leggersi in appendice a Starr, op. cit., p. 195 ss. L’art. 1 della convenzione prevede che «ogni membro dell’OIL che ratifica la presente convenzione s’impegna a istituire o a conservare metodi che permettano di fissare tassi minimi di salari per i lavoratori occupati in industrie o parti d’industrie (e in particolare nelle industrie a domicilio) dove non esiste un regime efficace per la fissazione dei salari attraverso il contratto collettivo o altrimenti e dove i salari sono eccezionalmente bassi. La parola «industrie», ai fini della presente convenzione, comprende le industrie di trasformazione e il commercio».
  92. L’obbligo di regolare mediante contratti collettivi i rapporti di lavoro era imposto alle associazioni professionali dalla dichiarazione XI della Carta del Lavoro. Se ci si limitasse alla lettera della norma, prescindendo dall’uso pratico del contratto collettivo in regime fascista (su cui v. infra nel testo), si sarebbe tentati di leggere nella Carta del lavoro « una funzione promozionale della contrattazione collettiva »: così Romagnoli, Il diritto sindacale corporativo e i suoi interpreti, in « Storia contemporanea », 1970, ora in Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, Bologna, Il Mulino, 1974, p. 202.
  93. Bottai, I salari minimi, discorso pronunciato alla camera dei deputati il 1° giugno 1927, in Esperienza corporativa, Roma, Ediz. del diritto del lavoro, 1929, p. 327; gli stessi concetti si ritrovano nella dottrina giuridica: si v. Balella, Lezioni di legislazione del lavoro, cit., p. 327, Costamagna, La determinazione delle mercedi e la questione dei salari minimi, Roma, Ediz. del diritto del lavoro, 1927, p. 16, Pergolesi, I metodi di fissazione dei salari minimi, in «Dir. Lav.», 1927, p. 1261.
  94. Oltre gli scritti citati a nota 93, che appartengono al periodo precedente l’approvazione della convenzione, si v. Sabatini, I salari minimi nel sistema corporativo, Roma, Ediz. del diritto del lavoro, 1928, che, pubblicato a convenzione approvata, si esprime nello stesso ordine di idee.
  95. Il regime, infatti, fu sempre assai sensibile all’esigenza di mantenersi aperti spazi nelle sedi di confronto internazionali. Anche per questo motivo la legge sindacale non dichiarava formalmente illegali le associazioni sindacali non fasciste: in questo modo si poteva sostenere che la libertà sindacale in Italia continuava a sussistere: cfr. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965, p. 127. Sui rapporti fra OIL e fascismo si v. in generale Allio, L’organizzazione interazionale del lavoro e il sindacalismo fascista, Bologna, Il Mulino, 1973.
  96. L’aspetto propagandistico è esplicitamente affermato nella relazione con cui Alberto Asquini accompagnava il d.d.l. 28 novembre 1929, relativo alla proposta di ratifica della convenzione n. 26: la relazione può leggersi in «Le leggi», 1930, p. 476 ss. In generale è noto come il fascismo tendesse ad alimentare, specie fra i giovani, il mito dell’Italia all’avanguardia in ogni campo dell’umano operare: cfr. Vannutelli, Le condizioni di vita dei lavoratori italiani nel decennio 1929/39, in «Rass. stat. lavoro», 1958, p. 107. Nel campo, più specifico, delle politiche del lavoro è meno noto, ma altrettanto vero che «la cultura giuridico-sindacale fascista impiegò largamente il metodo comparato. Anche se la comparazione fu generalmente usata all’esclusivo scopo di dimostrare la superiorità del sistema italiano»: così Vardaro, Le origini dell’art. 2077 cod. civ. e l’ideologia giudico-sindacale del fascismo, in «Mat. st. cult. giur.», 1980, p. 450 n. 53.
  97. Citazioni da Asquini, op. cit., rispettivamente a p. 477 e 478.
  98. Quest’ultima è una tesi comunemente affermata. Per tutti si v. Sabatini, op. cit., p. 9.
  99. Si veda infatti l’ammissione contenuta nella stessa relazione Asquini (p. 478): «11 solo problema che può esistere per noi è quello di completare l’attuazione di fatto dell’ordinamento corporativo, promuovendo la stipulazione dei contratti collettivi per quelle categorie di lavoro, che ancora non l’hanno».
  100. Sul punto l’affermazione, anche se di passata, è in Barassi, Diritto corporativo e diritto del lavoro, II, Milano, Giuffrè, 1942, p. 115.
  101. Sulle violazioni dei contratti collettivi si v. innanzi tutto la classica opera di Rosenstock-Franck, L’économie corporative fasciste en doctrine et en fait, Parigi, J. Gamber, 1934, p. 124 ss; cfr. anche Aquarone, op. cit., p. 134, Jocteau, La magistratura e i conflitti di lavoro durante il fascismo (1926/34), Milano, Feltrinelli, 1978, p. 43 (quest’ultimo, peraltro, largamente ispirato dallo studio del Rosenstock-Franck).
  102. In effetti la stessa esistenza di un organismo per la risoluzione dei conflitti di lavoro finiva per apparire come un elemento incongruo in un contesto ideologico che negava la sussistenza di qualsiasi contrapposizione di classe: anche per questo la Magistratura del lavoro fu considerata con crescente disfavore e progressivamente emarginata dalle istituzioni reali del regime: sul punto si v. Jocteau, op. cit., p. 53 ss.
  103. Delle 41 controversie collettive trattate dalla Magistratura del lavoro nel decennio 1927-1937, 22 furono conciliate in udienza e 3 abbandonate dalle parti. Delle 16 decise con sentenza 9 riguardavano la definizione di nuove condizioni di lavoro, 7 l’interpretazione di disposizioni esistenti. I dati sono riportati in una pubblicazione ufficiale dei sindacati: Solmi, La Magistratura del lavoro, in Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, I 10 anni della Carta del lavoro, s.l., 1937, p. 169. Le vertenze collettive più significative risolte in sede giudiziaria sono descritte in Rosenstock-Franck, op. cit., p. 186 ss, Jocteau, op. cit., p. 70 ss.
  104. Carnelutti, Lezioni di diritto industriale. Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, Cedam, 1928, p. 178. Carnelutti negava la sussistenza di vere e proprie controversie collettive giuridiche: l’azione del sindacato, alla stregua dei principi della sostituzione processuale, poteva essere ammessa soltanto quando, nel caso concreto, si fosse già «accesa una lite almeno tra un imprenditore e un lavoratore» (ivi). Conseguentemente ne derivava l’inammissibilità di azioni collettive in senso stretto per l’interpretazione dei contratti. L’interpretazione «liberale» era sostenuta, fra gli altri, da Pergolesi, La Magistratura del lavoro, Roma, Ediz. del diritto del lavoro, 1928, p. 45 ss.: ivi anche una secca polemica con le tesi di Carnelutti (p. 57 ss.). Ma era una polemica costruita sulla sabbia, giacché anche per Pergolesi la sentenza collettiva di accertamento non comportava alcuna pronuncia di condanna.
  105. Si prescinde, in questa sede, dall’entrare nel merito della valutazione, fonte di ampi dibattiti durante il fascismo, della rilevanza giuridica dei principi contenuti nella Carta del lavoro: in tema si v. Romagnoli, op. ult. cit., p. 197 ss. Limitandoci alla norma che più riguarda il nostro tema, basti qui ricordare come Dario Guidi, all’indomani dell’emanazione della Carta, sostenesse l’opportunità di una traduzione legislativa del principio contenuto nella dichiarazione XII (L’insufficienza dello stipendio e la dichiarazione XII della Carta del lavoro, in «Dir. lav.», 1927, p. 424), ma già qualche mese dopo avesse cambiato parere, affermando che se la Carta del lavoro non era ancora legge, era già qualcosa di più: essa infatti conteneva i principi generali del diritto del lavoro e i principi equitativi da applicare nella soluzione dei conflitti di lavoro: Prime applicazioni giudiziali della Carta del lavoro, in «Dir. lav.», 1927, p. 591 ss.
  106. La dichiarazione XII così recitava: «L’azione del sindacato, l’opera conciliativa degli organi corporativi e la sentenza della magistratura del lavoro garantiscono la corrispondenza del salario alle esigenze normali di vita, alle possibilità della produzione e al rendimento del lavoro. La determinazione del salario è sottratta a qualsiasi norma generale e affidata all’accordo delle parti nei contratti collettivi».
  107. Cfr. sul punto Rosenstock-Franck, op. cit., p. 74; Aquarone, op. cit., p. 143.
  108. Non a caso un acuto osservatore straniero come il Rosenstock-Franck non poteva trattenersi dal commentare: «Questa definizione (del salario) è considerata, con nostro grande stupore, dalla dottrina attuale come una delle più audaci dell’economia fascista. Per pane nostra noi la consideriamo come priva di valore scientifico»: op. cit., p. 68.
  109. Per la dottrina giuridica si v. per tutti il noto, e apologetico, scritto di Riva Sanseverino, Salario minimo, cit., spec. p. 82 ss; le tesi dell’autrice, peraltro, riprendono esplicitamente idee già sostenute da Gino Arias, uno dei massimi ideologhi del regime, in numerosi saggi: si v. soprattutto Il salario corporativo, Modena, Pubblicazioni dell’università, 1929, p.8 ss, Economia nazionale corporativa. Commento alla Carta del lavoro, Roma, Libreria del Littorio, 1929. Quest’ultima opera è aspramente criticata dal Rosenstock-Franck, op. cit., p. 116 ss.
  110. «Il salario corporativo non viene dunque meramente a coincidere col salario minimo, ma lo realizza superandolo, per l’intervento di altri elementi insopprimibili i quali non possono che portarlo ad un livello più alto di quello corrispondente al puro indispensabile all’esistenza, cui in genere si limita nella legislazione estera»: RivaSanseverino, op. cit., p. 91.
  111. Ivi, pp. 87-88.
  112. Rocco, Crisi dello stato e sindacati, in «Politica», dicembre 1920, p. 1 ss.
  113. Sulla dottrina salariale di Rocco si veda Aquarone, op. cit., p. 133, Resenstock-Franck, op. cit., p. 20 (che sottolinea la probabile influenza del cristianesimo sociale sul nazionalismo rocchiano e, poi, sui contenuti della Carta del lavoro), Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia, Morcelliana, 1963, p. 94. La polemica col liberismo economico, sulla scorta del pensiero di Rocco, è comune nei giuscorporativisti: si v. ad es. Costamagna, op. cit.,p. 4, Riva-Sanseverino, op. cit., p. 40 ss. All’idea di «salario equo» fa appello anche la relazione Asquini, cit., p. 477.
  114. Si vedano in proposito le pregevoli pagine di Vardaro, op. cit., p. 437 ss; e anche Ungari, op. cit., p. 28.
  115. Com’è noto la prolusione padovana era stata per Rocco l’occasione per una risposta polemica alle tesi di Ranchetti (I sindacati e lo Stato, in «Politica», luglio 1920), che esprimevano l’esigenza di una risposta puramente e semplicemente repressiva a fronte dei fermenti di disgregazione indotti dall’azione sindacale. Giustamente Ungari commenta come «tra Napoli e Padova, dall’alto di due eminenti cattedre giuridiche, (si svolga) un dialogo sulla politica costituzionale che riassume con plastica evidenza il trapasso dalla vecchia alla nuova strategia istituzionale dell’autoritarismo» (op. cit., p. 50)
  116. Secondo Ungari (op. cit., p. 93) l’abbandono del ministero da parte di Rocco, nel 1932, è da ascrivere anche alla smentita, ormai incontrovertibile, che la realtà della politica economica fascista aveva arrecato alla sua ideologia degli «alti salari».
  117. Foa, op. cit., p. 121.
  118. Sui caratteri della politica economica deflattiva del fascismo si v. per tutti Castronovo, La storia economica, in Storia d’Italia, vol. IV, tomo I, Torino, Einaudi, 1975, p. 267 ss.
  119. La prima espressione è di Sabatini, op. cit., p. 13; la seconda di Cesarini-Sforza, Corso di diritto corporativo, Padova, Cedam, 1931, p. 337.
  120. Bottai, I limiti dell’azione economica delle associazioni professionali, in Esperienza corporativa, cit., p. 67.
  121. Costamagna, op. cit., p. 19.
  122. Così Jocteau, op. cit., p. 61.
  123. Rosenstock-Franck, op. cit., p. 160 (ivi anche una critica alle statistiche ufficiali, sulla base delle contestazioni mosse dagli stessi sindacalisti fascisti). La pubblicistica sulle riduzioni salariali è amplissima: per tutti si v. Vannutelli, op. ult. at., p. 102; Zamagni, La dinamica dei salari nel settore industriale (1921-1939), in «Quad. stor.», 1975, p. 537 ss. Fra coloro che ne scrissero già negli anni ’30 è d’obbligo citare Salvemini, Under the axe of fascism, New York, The Viking Press, 1936 (trad. it. Sotto la scure del fascismo, Torino, De Silva, 1948, p. 200 ss.).
  124. Magistr. lavoro Roma, 18 giugno 1931, in «Dir. lav.», 1932, II, p. 101; Magistr. lavoro Venezia, 24 dicembre 1931, ivi, p. 105 con nota adesiva di Chiarelli, Il salario operaio e la Carta del lavoro, ivi, p. 106. Aquarone, op. cit., p. 135, ricorda i toni esaltati con cui Gino Arias commentò, sulle colonne del «Popolo d’Italia», la sentenza della magistratura romana.
  125. La tepidezza crescente con cui la giurisprudenza mostrava di accogliere i principi della Carta, fu del resto constatata, e stigmatizzata, già in periodo fascista: si v. Mossa, La Carta del lavoro e la giurisprudenza, in «Arch. studi corp.», 1937, p. 7 ss.
  126. Così nella motivazione, in «Dir. lav.», cit., p. 104.
  127. Longhi, nel suo discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, in «Riv. pen.», 1932, p. 16. In altri termini i contratti collettivi corporativi erano sottoposti all’operatività della clausola rebus sic stantibus, espressamente normativizzata dall’art. 71 r.d. 1 luglio 1926, n. 1130, ai sensi del quale la revisione dei contratti prima della scadenza era ammessa in caso di «mutamento notevole dello stato di fatto esistente al momento della stipulazione». Ciò consentiva di rimettere in discussione in qualsiasi momento i livelli salariali contrattualmente definiti, offrendo al padronato uno strumento, puntualmente sfruttato, per ottenere ulteriori decurtazioni salariali e privando i contratti di qualsiasi garanzia di stabilità nel tempo. Vardaro (op. cit., p. 443) sembra interpretare la norma citata in senso opposto, come una «pesante compressione del diritto di revisione da parte dei sindacati contraenti», ma, ci pare, senza portare argomenti convincenti. Per l’interpretazione da noi accolta si v. invece Rosenstock-Franck, op. cit., p. 128, che considera la questione «di capitale importanza», anche se non sempre correttamente sottolineata dagli studiosi del fascismo; e già, prima di lui, Ferrari, Le regime fasciste italien, Parigi, Spes, 1928, p. 267.
  128. Ci si riferisce alle tesi espresse da Sermonti, Il diritto sindacale italiano, II, Roma, Libreria del Littorio, 1929, p. 181 ss. e in scritti successivi. Sermenti estremizza la portata livellatrice della norma collettiva in funzione di tutela dell’«interesse superiore della produzione». Secondo l’a. ammettere indiscriminatamente la legittimità di deroghe migliorative nei contratti individuali di lavoro potrebbe «non consentire (che) si raggiunga appieno uno dei fini del contratto collettivo: di creare per la produzione condizioni di tranquillità e di sicurezza» (p. 186). Inoltre, «se le norme collettive non sostituissero le clausole più favorevoli agli operai, dovrebbe trarsene che il contratto collettivo non può mai stabilire un peggioramento nelle condizioni di lavoro. Il che è certamente contro la volontà della legge, perché l’interesse superiore della produzione può evidentemente esigere che, in periodi di crisi... anche dall’operaio si debba poter esigere il sacrificio» (p. 187). Abbandonata quindi l’idea che dal contratto di lavoro sorgano diritti quesiti, l’art. 54 r.d. 1130/1926 andrà interpretato nel senso di ammettere comunque l’efficacia sostitutiva della norma collettiva rispetto a quella (anche migliorativa) contenuta nel contratto individuale, «salva al datore di lavoro la facoltà di rinunziare alla sostituzione in favore del lavoratore».
  129. La costruzione sermontiana, accolta dalla giurisprudenza, è ben ricostruita da Vardaro, op. cit., p. 464 ss, che ne mette in luce la funzionalità alle politiche sindacali di decurtazione salariale, non supponendo essa «nessun principio di acquisizione individuale di diritti collettivamente posti o di immodificabilità in pejus del salario collettivo». Sul tema un cenno ora anche in Grandi, Rapporti fra contratti collettivi di diverso livello, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1981, p. 364 e nota 13.
    Dove l’analisi di Vardaro — se non si è frainteso il pensiero dell’autore — lascia perplessi è nell’ipotesi che il tardivo adeguamento della dottrina, dopo la metà degli anni ’30, alle posizioni di Sermonti, sia dipeso, più che da considerazioni strettamente tecnico-giuridiche, da ragioni d’opportunità politica, ispirate dalla necessità di «giustificare giuridicamente uno dei fondamentali strumenti di politica economica impiegati dal regime nell’economia di guerra: la manovra deflazionistica realizzata alla fine degli anni ‘30 attraverso massicce riduzioni salariali» (p. 467). La politica economica deflattiva e le connesse riduzioni salariali, in realtà, si verificarono non alla fine degli anni ‘30, ma fra il ’27 e il ’34. Con l’ingresso del paese nell’economia di guerra, viceversa, la scelta deflattiva fu invertita e ripresero a crescere anche i salari contrattuali, sia pure in misura insufficiente a coprire gli aumenti del costo della vita. Crediamo quindi di dover tenere ferma l’interpretazione, offerta nel testo, delle diverse parabole seguite da dottrina e giurisprudenza: mentre quest’ultima operò sempre con grande pragmatismo, la dottrina, negli anni centrali del regime, modulò i suoi atteggiamenti, prevalentemente, secondo ragioni d’ordine propagandistico, dettate dall’esigenza di accreditare un volto progressivo dell’ordinamento corporativo agli occhi degli osservatori stranieri. Sul piano specifico della politica salariale ciò comportò il sostegno alla dottrina rocchiana degli «alti salari» (sub specie di giusto salario). Dopo il ’35, anche in considerazione dell’ormai consumato isolamento internazionale dell’Italia, quelle ragioni vennero meno: ciò può servire a meglio comprendere i mutati umori dottrinali (su cui v. infra nel testo e note corrispondenti).
    Val la pena di ricordare come il carattere classista della politica salariale fascista emerga anche dall’andamento delle retribuzioni nel pubblico impiego. In generale i pubblici impiegati non videro peggiorare le proprie condizioni di vita, in termini reali, durante il ventennio. Al loro interno, però, si operò in maniera selettiva: mentre gli stipendi dei funzionari medio-alti furono migliorati, quelli delle categorie più basse rimasero stazionari, quando non subirono qualche lieve riduzione: cfr. Salvemini, op. cit., p. 342, Cova, op. cit., p. 68 ss.
  130. Cfr., per tutti, Vannutelli, op. ult. cit., p. 99; Zamagni, op. cit., p. 540 ss.
  131. Cfr. ancora Zamagni, p. 542 ed anche Vaudagna, Corporativismo e New Deal, Torino, Rosenberg & Sellier, 1981, p. 207.
  132. Cesarini-Sforza, Corso, cit., III ediz. (1934). Ivi, non a caso, un accenno critico alla pur timida sentenza della Magistr. lavoro di Venezia ricordata nel testo (p. 242).
  133. Zanobini, Corso di diritto corporativo, Milano, Giuffré, 1935, p. 293 ss.
  134. Il giudizio è di Giugni, La validità erga omnes dei contratti collettivi, in «Nord e Sud», 1960, n. 2.
  135. Jaeger, Principi di diritto corporativo, Padova, Cedam, 1939, p. 312.
  136. Ivi, p. 313.
  137. Il riferimento è al bel libro di Vaudagna, cit. Ma un accostamento fra la esperienza del fascismo e quella del new deal, sia pure di sfuggita, può leggersi già in Mancini, Introduzione a Il pensiero politico nell’età di Roosevelt, Bologna, Il Mulino, 1962, p. 10 e anche in Giugni, op. ult. cit., p. 96. Vaudagna opportunamente ricorda che l’interpretazione del new deal come esperienza di tipo socialdemocratico era già stata avanzata negli anni ’50 da Richard Hofstadter (di cui si v. L’età delle riforme, Bologna, Il Mulino, 1962). Contra, ma con argomentazioni troppo rigide, Ferrari-Bravo, Il new deal e il nuovo assetto delle istituzioni capitalistiche, in Aa.Vv., Operai e stato, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 113.
  138. Cfr. Vaudagna, New deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, in Italia e America dalla grande guerra a oggi (a cura di Spini, Migone, Teodori), Padova, Marsilio, 1976, sp. p. 117 ss.
  139. Bottai, Corporate State and NRA, in «Foreign Affairs », 4, 1935, p. 105 (trad. it. Il corporativismo italiano sul piano intemazionale, in «Dir. lav.», 1935, p. 89 ss.).
  140. Ivi, p. 98.
  141. Ivi, p. 94.
  142. Ivi, p. 102.
  143. Roosevelt stesso enunciò sin dall’inizio con estrema chiarezza gli obiettivi dell’amministrazione. In un discorso radiodiffuso nel maggio del ‘33 egli sostenne che «...le leggi contro i trusts erano destinate a impedire la creazione di monopoli e a proibire, se del caso, la realizzazione da pane loro di benefici irragionevoli. Si dovrà continuare a perseguire lo scopo cui tendevano quelle leggi, ma ricordandosi che esse non hanno mai avuto per oggetto di incoraggiare la forma di concorrenza sleale che approda a una durata prolungata del lavoro, a salari di fame e alla sovrapproduzione» (cit. da Butler, L’oeuvre de redressement économique aux États-Unis, in «Rev. internat, travail», 1934, vol. XXIX, p. 5-6). Qualche mese dopo, parlando della portata e della funzione del salario minimo legale, avrebbe dichiarato all’American Federationist: «...per salario vitale noi intendiamo più che i semplici mezzi di sussistenza, noi intendiamo un salario che assicuri una vita decente. Assicurare una vita decente alla maggioranza dei nostri 125 milioni di abitanti significherebbe aprire all’industria il più ricco mercato che il mondo abbia mai conosciuto. È il solo modo di utilizzare ciò che si chiama il surplus di capacità dei nostri stabilimenti industriali» (si v. «Rev. internat. travail», 1933, vol. XXVIII, p. 803).
  144. Cfr. Leuchtenburg, op. cit., p. 100 ss.; Dobb, Problemi di storia del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 1980 (ma 1946), pp. 381-5. Acutamente è stato osservato che «...insieme, i padroni avevano voluto il NIRA, ma, presi uno a uno, ciascuno ne rifiutava le conseguenze per la propria fabbrica»: Ferrari- Bravo, op. cit., p. 119.
  145. Uno spunto in questo senso in Tronti, Poscritto di problemi, in Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1971, p. 287. Fra l’una e l’altra legge era stato approvato anche il Walsh-Healey Act (1936) che, sul modello delle normative inglesi e francesi, mirava a tutelare le condizioni salariali dei lavoratori impegnati nella esecuzione di pubblici appalti: su questa legge si v. per tutti Le salaire minimum (a cura del BIT), Ginevra, 1940, p. 76.
  146. Infatti ad esso si opposero strenuamente gli imprenditori del sud, che ne sarebbero stati maggiormente colpiti: cfr. Leuchtenburg, op. cit., p. 241. Sulle ragioni dell’opposizione AFL v. retro nota 90.
  147. Ferrari-Bravo, op. cit., p. 134.
  148. Cfr. Leuchtenburg, op. cit., p. 243, Le salaire minimum, cit., p. 119.
  149. Mancini, Introduzione, cit., p. 16. L’obiettivo della stabilizzazione sociale fu sempre indiscusso per i new dealers. Giustamente ricorda Mancini (op. cit., p. 20) come «Roosevelt non capirà mai le ragioni dell’odio che gli portano gli uomini d’affari e le accuse di tradimento che gli vengono dai membri della sua classe». Nello stesso senso Ferrari-Bravo, op. cit., p. 110. Naturalmente non mancarono anche per il new deal accuse di voler instaurare una società socialista: ad esempio all’indomani dell’approvazione del Guffey Act (1935), che tentò di reintrodurre le disposizioni, dichiarate incostituzionali, del NIRA, limitatamente all’industria del carbone, taluno si spinse a sostenere: «Comunismo puro e semplice, ecco cosa si nasconde dietro a questa legge! Nei suoi sogni più folli il socialismo non è mai giunto fino a questo» (citaz. in Schlesinger, L’età di Roosevelt, III, Bologna, Il Mulino, 1965, p. 344).
    Sulle politiche del lavoro del new deal possono leggersi opere ormai classiche: Bernstein, The new deal collective bargaining policy, Berkeley & Los Angeles, University of California Press, 1950, sp. p. 29 ss, 84 ss; Derber & Young (a cura di), Labor and the new deal, Madison, University of Wisconsin Press, 1957.
  150. In questo senso Vaudagna, Corporativismo, cit., p. 207; Zamagni, op. cit., p. 535.
  151. Cfr. Dobb, op. ult. cit., p. 362 ed anche Hetherington, Le fonctionnement du système des conseils d’industrie en Grande Bretagne, in «Rev. internat. travail», 1938, vol. XXXVIII, p. 517.
  152. Secondo lo schema lucidamente delineato dagli Webb già all’inizio del secolo (v. retro par. 2). La pratica del fascismo, in altri termini, era aliena a qualsiasi suggestione keynesiana di «rigidità verso il basso dei salari». Lo stesso Keynes, del resto, escludeva l’applicabilità della propria ricetta a paesi con struttura politica autoritaria come l’Italia, la Germania, l’Unione Sovietica: si v. sul punto Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, Torino, UTET, 1947, p. 237.
  153. Gli assegni familiari furono introdotti contrattualmente nel ’34 e poi generalizzati, e aumentati nel loro importo, da successivi provvedimenti legislativi. Essi, comunque, servirono ad attenuare soltanto le conseguenze del diminuito potere d’acquisto dei salari.
  154. Foa, op. cit., p. 122. La tesi del riformismo capovolto si ritrova anche nel più volte citato saggio di Vardaro.
  155. In seno alla III sottocommissione (seduta di giovedì 12 settembre 1946, in La costituzione della repubblica, vol. Vili, Camera dei deputati, Segretariato generale, Roma, 1971, p. 2099 ss.) Di Vittorio si oppose a una proposta di Fanfani in tema di fissazione del salario minimo: ma il contrasto fra i due era più apparente che reale, giacché Fanfani non intendeva affatto affidare tale compito alla legge, ma puntava piuttosto a una normativa sul contenuto inderogabile dei contratti collettivi. Per una ricostruzione del dibattito in proposito si v. Pera, La giusta retribuzione dell’art. 36 della costituzione, in «Dir. lav.», 1953, I, p. 112; Simoncini, Studi sulla retribuzione, Roma, Edizioni U.I.L., 1959, p. 32 ss.
  156. Le citazioni sono tratte dall’intervento dell’on. Bibolotti, in Atti della Assemblea costituente, vol. IV, seduta antimeridiana di sabato 10 maggio 1947, p. 3803 s. Fallito l’obiettivo in sede costituente, è degno di nota che la corrente comunista lo riproponga, in qualche modo, al congresso di Firenze della CGIL (giugno 1947), prospettando fra gli obiettivi immediati della politica salariale del sindacato la fissazione del minimo nazionale inderogabile di salario, che serva da base alle maggiorazioni per le varie categorie, qualifiche e specializzazioni: anche se in questo caso lo strumento di realizzazione sarebbe la contrattazione, è evidente l’affinità di ispirazione con l’emendamento Bibolotti-Bitossi. Sul punto cfr. Tobagi, La fondazione della politica salariale della CGIL, in Problemi del movimento sindacale in Italia, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 437.
  157. Cfr. Atti, cit., p. 3809.
  158. Lo stesso Gronchi, infatti, dichiara: «Trovo che se si tratta di stabilire una linea di principio, il primo comma è sufficientemente largo... perché dice: “...una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso adeguata alle necessità di un’esistenza libera e dignitosa”» (in Atti, cit., p. 3809).
  159. Contraddizione, del resto, percepita dagli stessi democristiani che, proprio per questo, finiranno con l’astenersi nella votazione dell’emendamento delle sinistre: «Preferiamo astenerci, perché noi non possiamo votare contro un concetto che è anche nostro» (in Atti, cit., p. 3809).
  160. V. retro, nota 27.
  161. Mancini, Libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes» (1963), ora in Costituzione e movimento operaio, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 141.
  162. Così Ghidini, in Atti, cit., p. 3807.
  163. Pugliatti, La retribuzione sufficiente e le norme della costituzione, in «Riv. giur. lav», 1950, I, p. 189 ss.; Id., Ancora sulla minima retribuzione sufficiente ai lavoratori, in «Riv. giur. lav.», 1951, II, 174. Sulla stessa linea di Pugliatti si v. Nicolò, L’art. 36 della costituzione e i contratti individuali di lavoro, in «Riv. giur. lav.», 1951, II, p. 5, Smuraglia, La determinazione della retribuzione da parte del giudice, in «Riv. giur. lav.», 1951, I, p. 83. Nell’ambito della dottrina «precettivista» si lascia comunque preferire la ricostruzione di Scognamiglio (Sull’applicatibilità dell’art. 36 cost, in tema di retribuzione del lavoratore, in «Foro civ.», 1951, p. 352, e Ancora sull’applicatibilità dell’art. 36 cost, in tema di salario, in «Giur. compì. Cass. civ.», 1952, III, p. 450) che, respinte le suggestioni derivanti dalla qualificazione del diritto alla retribuzione sufficiente come diritto della personalità, tende, più correttamente, ad inquadrarlo fra i diritti di credito.
    Per l’opposta posizione, che valuta l’art. 36 come norma programmatica, si v., per tutti, Scorza, Il diritto al salario minimo e l’art. 36 cost., in «Dir. lav.», 1951, II, p. 450, Napoletano, Natura ed efficacia della norma di cui all’art. 36, 1 ° comma, cost., e sua rilevanza sui contratti individuali di lavoro, in «Mass. giur. lav.», 1951, p. 217, Sermonti, L’adeguatezza della retribuzione di fronte ai contratti collettivi di diritto comune ed al 1° comma dell›art. 36 della cost., in «Mass. giur. lav.», 1952, p. 128.
  164. Da Natoli, che configura la norma dell’art. 36 come limite all’esercizio dell’autonomia privata, individuale e collettiva, anche a fronte di contratti con efficacia erga omnes: si v. Ancora sull’art. 36 cost, e sulla sua pratica applicazione, in «Riv. giur. lav.», 1952, II, p. 9 e Retribuzione sufficiente e libertà sindacale, in «Riv. giur. lav.», 1952, I, p. 253. In senso sostanzialmente conforme Lega, Il salario minimo e l’art. 36 della cost., in «Dir. lav.», 1952, II, p. 281.
  165. Così, invece, Treu, Commento, cit., p. 76. La disattenzione verso la tematica istituzionale costituisce, in effetti, un tratto essenziale dell’operato delle sinistre nel dopoguerra. Essa però fu evidente soprattutto nel periodo immediatamente successivo alla caduta del fascismo e si sostanziò su piani più generali, nella sottovalutazione del problema della riforma delle strutture statuali e nel baratto che si ritenne di compiere «fra la trasformazione democratica dello Stato e l’attuazione della repubblica»: Foa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in «Riv. storia contemp.», 1973, p. 453. Più in generale si v. in argomento Pavone, Sulla continuità dello Stato, in «Riv. storia contemp.», 1974, p.183.
  166. Com’è noto si discute se la tesi favorevole alla precettività dell’art. 36 sia stata formulata inizialmente dalla dottrina o dalla giurisprudenza: secondo Giugni «è ragionevole ritenere che gli interventi della dottrina, anche in forma di nota a sentenza, abbiano influito sul consolidamento di questo orientamento (giurisprudenziale), che però non è nato dalla dottrina stessa» (Il diritto sindacale e i suoi interlocutori, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1970, poi in Il diritto sindacale, a cura di Mancini e Romagnoli, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 491).
  167. Due provvedimenti legislativi, del 1945 e 1948, avevano provveduto a rafforzare ulteriormente in Inghilterra il sistema di fissazione dei salari minimi. In Francia nel 1950, contestualmente al ritorno alla libera contrattazione dopo l’esperienza dirigistica post-bellica, venne introdotto il Salaire Minimum Interprofessionnel Garanti.
  168. Treu, op. ult. cit., p. 80.
  169. Giugni, op. ult. cit., p. 471 ricorda, sulla scorta dell’analisi compiuta da Kahn-Freund, l’operato della giurisprudenza weimariana, «avanzata in tema di trattamenti economici, dove esprime un ideale di pietà sociale».
  170. Si ricordi la posizione di Barassi (su cui v. retro, par. 3).
  171. L’affermazione più recisa in questo senso è di Romagnoli, L’equità net conflitti di lavoro: elementi per un bilancio consuntivo, in Lavoratori e sindacati, cit., p. 288, secondo cui «all’osservazione storica di lungo periodo non può sfuggire che l’una è legata all’altra da una logica di compensazione e in un certo senso di corrispettività». Ma rilievi analoghi, sia pure con accenti più sfumati, si trovano anche in Mancini, Intervento alla tavola rotonda Iniziativa sindacale e politica del diritto, in «Quad. rass. sind.», 46, 1974, p. 15 e Giugni, Azione sindacale e politica giudiziaria, ivi, p. 60. Sulla giurisprudenza in tema di sciopero si v. Treu, I governi centristi e la regolamentazione dell’attività sindacale, in Problemi del movimento sindacale, cit., p. 565 ss.
  172. Come scrive Treu, Commento, cit., p. 80.
  173. Ad es. Corte di appello di Bari n. 225/1955 (cit. da M.L. De Cristofaro, La giusta retribuzione, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 83), secondo cui «per annullare un contratto individuale ai sensi dell’art. 36 cost., occorre che il compenso fissato sia talmente basso e irrilevante da doversi ritenere accettato dal lavoratore, perché spintovi da estremo bisogno. Occorre che il datore di lavoro abbia imposto al lavoratore una paga di fame...».
  174. Così, esattamente, M.L. De Cristofaro, op. ult. cit., p. 99, con l’avvertenza, però, che l’accostamento regge soltanto con una legislazione di tipo inglese, che permette, in effetti, ai consigli salariali la fissazione di minimi distinti per qualifica (sul punto cfr. per tutti Dobb, I salari, cit., p. 190, dove si sottolinea la particolare avversione degli ambienti imprenditoriali per questo aspetto della legge britannica); o anche con l’esperienza francese post-bellica dei decreti Parodi, che, ai sensi della legge 23 dicembre 1946, permise al governo di fissare i livelli salariali, distinti per qualifica, per ogni settore industriale: cfr. Lyon-Caen, Les salaires, cit., p. 18.
  175. Nel medesimo senso della valorizzazione del criterio di proporzionalità si pone quell’indirizzo giurisprudenziale, emerso anch’esso sin dagli anni ’50, che ritiene utilizzabili, ai fini della determinazione del trattamento retributivo degli insegnanti e bidelli di scuole private, i parametri propri del personale statale di pari qualifica. Si v. ad es. Trib. Roma, 16 giugno 1958, in «Giur. it.», 1958, I, 2, c. 766; Trib. Roma, 24 gennaio 1957, in «Riv. giur. lav.», 1957, II, p. 60, e in dottrina Treu, op. ult. cit., p. 84.
  176. Cfr. le decisioni citate da M.L. De Cristofaro, op. ult. cit., p. 135 ss. e, più recentemente, Cass., 27 aprile 1978, n. 1986 in «Rep. Foro it.», 1978, voce Lavoro (rapporto di) n. 858, Cass., 5 novembre 1979, n. 5719, in «Giur. it.», 1980, I, 1, c. 847, Trib. Lodi, 27 giugno 1980, in «Orient. giur. lav.», 1980, p. 759.
  177. Esatti rilievi in proposito in Pera, La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice, in «Mass. giur. lav.», 1961, p. 421, Balzarini, Retribuzione sufficiente, retribuzione giusta e salano minimo legale, in «Riv. dir. internaz. e comp. lav.», 1974, p. 237.
  178. Un esempio di confusione fra i due principi stabiliti dall’art. 36 si può rinvenire, fra i tanti, in Cass., 21 febbraio 1952, n. 461 (in «Dir. lav.», 1952, II, p. 281), per altro verso una decisione pregevole, essendo stata fra le prime della Suprema Corte ad aver accolto la tesi della precettività dell’art. 36.
  179. Tutte le citazioni sono da Treu, op. ult. cit., p. 87.
  180. Al riguardo non va neppure trascurato che la norma collettiva, essendo la risultante di un rapporto di forza, non garantisce, di per sé, di rispondere, sempre e comunque, (almeno) alle esigenze fondamentali dell’esistenza. Quest’ultima implicazione, che sarà coerentemente ammessa dalla Corte di Cassazione nei primi anni ’60, si è prestata, com’è noto, ad usi pratici del tutto opposti. Essa è comune sia ad autori che se ne sono serviti per contestare, in funzione palesemente antisindacale, la legittimità del ricorso giudiziale alle tariffe collettive (si v. Cessari, L’invalidità del contratto di lavoro per violazione dell’art. 36 cost., in «Dir. lav.», 1951, II, p. 197 ss.), sia ad autori che vedono nell’art. 36 cost. uno strumento correttivo, al limite, anche della determinazione collettiva del salario, nei casi in cui questo si mostri palesemente insufficiente a soddisfare bisogni vitali (cfr. in questo senso gli scritti di Natoli, citati in nota 164 e, più recentemente, Garofalo, Brevi note sul tema della c.d. acquiescenza del lavoratore e brevissime sull’art. 36 cost., in «Riv. giur. lav.», 1973, II, p. 424). L’ambiguità di fondo del rilievo non vale comunque a privarlo di qualsiasi valore: resta vero, infatti, che (quanto meno) negli anni in cui l’orientamento giurisprudenziale s’andava formando, l’esiguità dei salari contrattuali, in molti settori e/o zone del paese, costituiva una realtà non trascurabile, e lamentata dagli stessi sindacalisti, della contrattazione collettiva. Si vedano, in proposito, le affermazioni contenute nella relazione al d.d.l. «Fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori», presentato alla camera dei deputati il 14 maggio 1954 ad iniziativa degli on. Noce, Di Vittorio, Santi, Foa ed altri (su cui amplius nel paragrafo seguente) in «Riv. dir. lav.», 1954, III, p. 219. Per le forti differenze intersettoriali nella dinamica retributiva cfr. Cova, Movimento economico, occupazione, retribuzioni in Italia dal 1943 al 1955, in Il sindacato nuovo (a cura di Zaninelli), Milano, Franco Angeli, 1981, p. 88.
    L’indirizzo della Suprema Corte, favorevole a un controllo giudiziale, ex art. 36, delle stesse tariffe collettive è stato inaugurato da Cass., 25 marzo 1960, n. 636, in «Mass. giur. lav.», I960, p. 147, con nota critica di Santoro-Passarelli, Nuove prospettive della giurisprudenza sulla retribuzione sufficiente. Tale orientamento è criticato anche da Riva-Sanseverino, Applicabilità dell’art. 36 alle retribuzioni fissate per contratto collettivo e libertà sindacale, nota a Corte d’appello di Firenze 28 novembre 1962, in «Mass. giur. lav.», 1964, p. 43 e, da ultimo, da Treu, Commento, cit., p. 88, con il rilievo comune che l’intervento giurisprudenziale si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale di libertà sindacale. Ma la fondatezza della riserva appare alquanto dubbia, essendo evidente che i principi costituzionali (nel nostro caso quelli di sufficienza retributiva e di libertà sindacale) vanno applicati in modo tale da renderli reciprocamente contemperabili. La scelta della Suprema Corte è invece condivisa da Pera, con argomentazioni, peraltro, che sono state largamente fraintese. Pera, infatti, (e noi con lui), non ritiene affatto che la norma di cui all’art. 36 implichi un’applicazione caso per caso; ritiene viceversa che, in assenza di parametri di riferimento normativamente obbligatori, tale conseguenza sia logicamente inevitabile nell’applicazione giurisprudenziale di essa. Proprio per superare gli esiti aberranti cui conduce tale giurisprudenza (peraltro storicamente apprezzata: «Dietro le cifre, spesso miserissime, attorno alle quali si è discusso, c’era una realtà umana tale da angustiare ogni persona di civile convincimento») l’autore auspica che al principio costituzionale si dia attuazione con un meccanismo basato sull’estensione erga omnes dei contratti collettivi e/o una legislazione sui minimi salariali: cfr. di Pera op. ult. cit., p. 421 e già La giusta retribuzione, cit., p. 113. L’impostazione di questo autore, in altre parole, si lascia apprezzare per aver guardato, sin dai primi anni ’50, al problema del salario minimo nella sua imprescindibile dimensione collettiva, rifuggendo dalla mera, e schematica, contrapposizione fra precettività e programmaticità dell’art. 36 cost. Più in generale sembra opportuno sottolineare come non sia possibile una contrapposizione manichea fra sostenitori della programmaticità e della precettività dell’art. 36, accreditando tout court a questi ultimi una posizione progressista. La lettura «precettivista» di Cessari, ad esempio, è tutta volta a risolvere il problema del salario minimo sul piano individuale e preoccupata di scongiurare il ricorso giudiziale alle tariffe collettive anche come semplice punto di riferimento. A parere di questo autore (di cui si v. lo scritto citato in nota 178) il riferimento nella norma costituzionale alla «quantità e qualità del lavoro» sarebbe tale da escludere non solo la possibilità di una legislazione sui minimi ma, al limite, la legittimità di una fissazione standardizzata dei salari qual è quella operata dai contratti collettivi. Affermazione questa nella quale è evidente «la completa teorizzazione di quell’assurdo che si vorrebbe leggere tra le righe della costituzione, attribuendo alla stessa una ben triste originalità» (così Pera, op. ult. cit., p. 111).
  181. Così Giugni, Prefazione a M.L. De Cristofaro, op. ult. cit., p. 11.
  182. Così, esattamente, Pera, opere cit.
  183. Le citaz. sono tratte dalla relazione al d.d.l. citato in nota 178, rispettivamente p. 221 e 237.
  184. Ivi p. 219.
  185. Nel testo l’espressione evasioni contrattuali è usata in senso atecnico, intendendosi riferire sia alla disapplicazione del contratto collettivo da pane degli imprenditori ad esso vincolati, sia all’esistenza di un’ampia fascia di imprese non tenute all’osservanza dei contratti perché non iscritte alle associazioni firmatarie. La consistenza del fenomeno venne documentata negli atti dell’Inchiesta sulle condizioni dei lavoratori in fabbrica (1955), ripubblicati ora da Einaudi, Torino, 1976 (a cura di Addario). In generale sul fenomeno si v. la bella inchiesta di Pavolini e Spriano, Il salario in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1957, p. 123 ss; Giugni, La validità erga omnes, cit., p. 74 ss; da ultimo Cova, op. ult. cit., p. 90. La pratica dell’evasione contrattuale e del sottosalario presentava in alcuni settori e in alcune zone, soprattutto del mezzogiorno, aspetti assolutamente patologici, quali, ad esempio, la corresponsione al lavoratore del solo importo degli assegni familiari. A fronte di consimili aberranti, e notorie, situazioni fa specie che un direttore generale del ministero del lavoro (Purpura, La regolamentazione interazionale dei salari, in «Prev. soc.», 1955, p. 47 ss.) potesse affermare che la stragrande maggioranza dei lavoratori era coperta da contratti collettivi generalmente rispettati (p. 52), dimostrando, se non altro, colpevole ignoranza della fenomenologia di rapporti sociali alla cui cura avrebbe dovuto essere istituzionalmente preposto.
  186. Introdotto nel 1950 lo smig era di applicazione tendenzialmente generale, escludendosene soltanto alcune categorie particolari di lavoratori, quali portieri e domestici, e gli operai agricoli, per i quali era prevista una normativa specifica (c.d. SM AG). La legge del ’50 non disponeva differenziazioni dello smig in base al sesso, ma soltanto per età (il salario minimo si percepiva integralmente soltanto a partire dai 18 anni) e per zone geografiche. Nel 1952 (e poi ancora nel ’57) la disciplina venne modificata, con l’introduzione di un sistema di scala mobile, per collegarla più strettamente all’aumento del costo della vita: sul sistema francese cfr. per tutti Lyon-Caen, op. cit., p. 22 ss; e, da noi, Comito, La retribuzione minima legale nei diritti stranieri e nel diritto interazionale, in «Dir. lav.», 1964, I, p. 152 ss.
  187. Il d.d.l. prevedeva l’esclusione dallo smig dei soli apprendisti, comminava sanzioni penali pecuniarie agli imprenditori inadempienti e disponeva la riassunzione al lavoro dei «lavoratori eventualmente licenziati dall’imprenditore per sottrarsi all’applicazione della legge».
  188. La relazione al d.d.l. escludeva esplicitamente che potesse operare nei confronti dello smig il funzionamento «in discesa» della scala mobile, giacché «infatti l’applicazione delle eventuali variazioni in meno intaccherebbe quel minimo salariale che la proposta di legge stessa garantisce indistintamente, e in ogni caso, a tutti i lavoratori» (p. 237).
  189. Neanche un rigo, ad esempio, le è dedicato nelle due monografie scritte proprio in quegli anni sul tema della retribuzione: Cassi, La retribuzione nel contratto di lavoro, Milano, Giuffré, 1954, e Guidotti, La retribuzione nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffré, 1956; solo un cenno in Barassi, Il diritto del lavoro, III, Milano, Giuffré, 1957, p. 114.
  190. Così, invece, Pinto, Il ruolo dello Stato nella regolamentazione del lavoro in Italia, in «Riv. dir. lav.», 1958, I, p. 156. L’unico autore che sembra avere dedicato al d.d.l. 895 un’analisi diffusa è Simoncini, Studi, cit., p. 27 ss, peraltro con argomentazioni critiche in pane infondate (il salario minimo legale sarebbe un provvedimento meramente congiunturale, tesi facilmente contestabile alla luce dell’esperienza inglese e americana), in parte di taglio tradizionale (l’adozione di un salario minimo legale scoraggerebbe l’azione sindacale).
  191. Cfr. Amato, Introduzione a Il governo dell’industria in Italia, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 16. Si v. anche a p. 25 ss. la tipologia degli strumenti utilizzati in funzione compensativa del sostegno senza condizioni accordato all’industria (cantieri IRI, piano-casa Fanfani ecc.).
  192. La spaccatura del mercato del lavoro in due settori, l’uno coperto dalla protezione legale e sindacale, tipico della grande impresa, l’altro, con tutele fortemente attenuate e salari mediamente assai più bassi, è fatta ben presto oggetto di tentativi di interpretazione: assai noto lo schema analitico di Vera Lutz, secondo cui sarebbe la capacità di pressione abnorme di cui danno prova i sindacati nelle imprese maggiori ad indurre la segmentazione del mercato del lavoro. In proposito si v., anche per un inquadramento critico della problematica, Graziani, L’economia italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 53 ss.
  193. Amato, op. cit., p. 23.
  194. Ad esempio da Esposito, Intervento, in La pianificazione economica e i diritti della persona umana, in «Quaderni di Justitia», Roma, 1955, p. 171.
  195. Il riferimento, ovviamente, è a Mancini, Il diritto al lavoro rivisitato, in «Pol. dir.», 1973, poi in Costituzione e movimento operaio, cit., p. 47 ss. In argomento cfr. ora Hepple, Esiste un diritto al lavoro?, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1982, p. 647 ss.
  196. Cfr. di Kalecki il famoso saggio Political aspects of full employment, in «Pol. quarterly», 1943, tr. it. Gli aspetti politici della piena occupazione, in Conflitto di classe e ciclo economico-politico (a cura di Mazzocchi e Scotti), Milano, Vita e Pensiero, 1980, p. 3 ss. Detto di passata, la diagnosi kaleckiana — trascorso il ventennio, fra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’70, di pieno impiego diffuso in molti paesi capitalistici avanzati — sembra trovare riscontro, nelle sue linee di fondo, al giorno d’oggi, a fronte dei tassi crescenti di disoccupazione da cui appaiono afflitte, in misura più o meno elevata, le economie occidentali. Per un efficace approfondimento critico dello schema di Kalecki si v. Salvati, Ciclo politico e onde lunghe. Note su Kalecki e Phelps Brown, in «Stato e Mercato», 1981, sp. p. 23, 41 ss.
  197. Salvati e Brosio, Politica e mercato nell’Europa della crisi, in «Il Mulino», 4, 1979, p. 492, che ricordano anche come le uniche eccezioni, in un panorama per il resto alquanto uniforme, fossero costituite da Svezia e Regno Unito.
  198. Si è già detto della Francia. Nel 1952 una legge sui minimi salariali venne introdotta anche nella RFT: essa, però, resterà sempre virtualmente inoperante, per cui nel seguito della trattazione se ne prescinde. Su questa legge, comunque, si v. Ramm, Federai Republic of Germany, in International Encyclopaedia, cit., p. 104 e, da noi, Comito, op. cit.
  199. È questa la chiave interpretativa del saggio, più volte citato, della Zamagni. Si v. anche Graziani, op. cit., p. 15.
  200. Per quanto riguarda la CGIL si v. L’art. 39 cost. e l’efficacia giuridica dei contratti di lavoro, in «Notiziario CGIL», 1954, p. 649. La posizione della CISL è illustrata dall’editoriale In margine all’art. 39, in «Boll. di studi e stat.», 1954, p. 469. Qualche mese prima, però, era comparso sul periodico cislino un articolo (Il minimo salariale garantito in Francia, in «Boll.», 1954, p. 244) dove lo smig francese veniva criticato perché troppo condizionante, nella pratica, la dinamica salariale contrattuale. L’articolo concludeva affermando che era necessario «...porsi concretamente la scelta tra il miglioramento contrattuale e le vie più facili, ma anche più demagogiche ed, a scadenza, controproducenti, dell’intervento governativo indifferenziato», e può forse considerarsi come un’espressione indiretta degli umori allora prevalenti nella confederazione. Per quanto riguarda il progetto Pastore sull’erga omnes si v. Treu, La CISL degli anni ’30 e le ideologie giuridiche dominanti, in Materiali per una storia della cultura giuridica, vol. III, t. 2, 1973, p. 360, e, più recentemente, Carinci, La CISL fra legge e contratto, in Analisi della CISL (a cura di Baglioni), Roma, Ediz. Lavoro, 1980, p. 351, Grandi, I problemi del lavoro negli orientamenti della dottrina giuridica: organizzazione sindacale, contratto collettivo e sciopero, in «Annali Fond. G. Pastore», vol. VIII, 1979, p. 211. Sulla proposta Di Vittorio, Ricciardi, Appunti per una ricerca sulla politica della CGIL: gli anni ’30, in Materiali, cit., p. 187 ss. In generale si v. la ricostruzione di Pera, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 299 ss, cui adde ora Craveri, op. cit., p. 328 ss.
  201. Il saggio fu pubblicato nel volume I sindacati in Italia (sul punto p. 54 ss.).
  202. Precedentemente erano stati approvati provvedimenti per categorie specifiche di lavoratori, quali apprendisti, lavoratori a domicilio, domestici e portieri; tranne che per questi ultimi, però, la legge evitava di fissare direttamente la misura della retribuzione, rinviando, con disposizioni di dubbio significato, ai parametri offerti dalla contrattazione collettiva (apprendisti, lavoratori a domicilio): cfr., in generale, Riva-Sanseverino, La partecipazione italiana all’OIL e l’adeguamento dell’ordinamento italiano alle convenzioni interazionali del lavoro, in «Riv. inf. e mal. prof.», 1960, p. 245 ss.
    Sulla legge Vigorelli si v. per tutti, Pera, op. ult. cit., p. 321 ss.; Giugni, La validità, cit.; id., La disciplina legislativa del trattamento minimo di categoria, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1959, p. 863 ss. Da notare che la relazione alla legge Vigorelli conteneva un esplicito riferimento all’obiettivo di attuazione dell’art. 36 cost., che sarà poi ritenuto inattendibile dalla Corte costituzionale nella sentenza con cui dichiarerà incostituzionale la legge di proroga della legge 741/1959, valutata esclusivamente alla stregua di un congegno anomalo di estensione della sfera di efficacia dei contratti collettivi.
  203. Da Santoro-Passarelli, op. cit
  204. Id., op. cit.
  205. Si v. ad es. Di Berardino, La determinazione giudiziale della retribuzione sufficiente e la legge 747/7939 sui minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori, in «Dir. e giur.», 1966, p. 803 ss., che cita a sostegno il precedente costituito dell’adeguamento delle tariffe contenute nei contratti collettivi corporativi, ma senza fondamento, giacché questi ultimi non acquistarono mai forza di legge, ma semplicemente ne fu disposta con legge la permanenza in vigore.
  206. Così Mortillaro, La problematica, cit., p. 192.
  207. Corte cost., 6 luglio 1971, n. 156, in «Mass. giur. lav.», 1971, p. 325, con nota di Lattanzi.
  208. Si v. il noto articolo di Grandi, Prospettive in Italia per una legislazione sui minimi, in «Pol. sind.», 1962, p. 102 ss. Ma il favore nei confronti di una legislazione sui minimi era cominciato a maturare all’interno della CISL già in occasione del dibattito precedente l’approvazione della legge Vigorelli: cfr. Il progetto Vigorelli sui contratti, in «Pol. sind.», 1958, p. 375, nonché, in generale, le riflessioni di Treu, La CISL degli anni ’50, cit., p. 362 ss.
  209. Per un cenno in questo senso v. però Mancini, Libertà, cit., p. 152 ss.
  210. Non a caso una proposta avanzata in quello stesso periodo all’interno della CGIL (da Tatò, Ordinare la struttura della retribuzione secondo la logica e i fini del sindacato, in «Pol. ed econ.», 1961, p. 59 ss.) di introduzione di un salario minimo di sistema, da realizzare tramite la contrattazione interconfederale, troverà pessima accoglienza nel dibattito sulla politica salariale allora in corso in seno alla confederazione e sarà stroncata da Trentin (Obiettivi delle rivendicazioni salariali e autonomia dell’azione del sindacato, in «Pol. ed econ.», 1962, ora in Da sfruttati a produttori, cit., p. 67 ss.), fra l’altro, con la significativa motivazione che «essa viene a collocarsi di fatto in una logica che paralizza e non suscita l’iniziativa sindacale... Fatalmente il salario minimo generale diventerà la rivendicazione delle categorie meno retribuite, mentre gli altri strati di lavoratori vedranno in esso soltanto un freno alla loro lotta di classe». L’indicazione di Tatò, in altri termini, veniva respinta perché si temeva che potesse rappresentare una remora allo sviluppo dell’articolazione contrattuale. Eppure in essa vi erano delle intuizioni, quali l’idea che il salario minimo di sistema dovesse essere indifferenziato, superando le articolazioni zonali allora esistenti, che qualche anno dopo il movimento sindacale dovrà fare proprie. Per le valutazioni critiche del meccanismo costituzionale di cui all’art. 39, diffuse in quel torno di tempo, si v. Pera, op. ult. cit.; Giugni, La validità, cit.; Mancini, op. ult. cit., e, più avanti, Treu, Teorie e ideologie nel diritto sindacale (a proposito di un recente libro), in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1968, p. 1640 ss.
  211. Anche questo problema si era riproposto dopo la caduta dell’ordinamento corporativo. Nel 1951 vennero emanate direttive ministeriali per l’inserimento nei capitolati d’appalto di opere pubbliche di clausole che impegnavano al rispetto dei contratti collettivi. L’anno seguente fu approvata la legge 2 agosto 1952, n. 1305, di ratifica della convenzione n. 94/1949 dell’OIL, recante disposizioni di segno analogo: cfr. Napoletano, Appalto di opere pubbliche e tutela dei diritti dei lavoratori, in «Riv. giur. lav.», 1953, I, p. 267 ss; Purpura, op. cit., p. 58 ss. Disposizioni specifiche saranno successivamente inserite non solo nella legislazione sui pubblici appalti, ma anche in quella sugli incentivi creditizi e finanziari alle imprese: cfr. Mancini, Commento sub art. 36, in Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna, Zanichelli, 1972, p. 544; da ultimo Romeo, Sul raccordo tra benefici all’impresa privata e tutela del lavoro, in «Riv. it. dir. lav.», 1983, I, p. 254 ss.
  212. Mancini, op. ult. cit., p. 546.
  213. Che sembra alquanto scarsa: significativi rilievi in proposito in Bortone, Commento sub art. 36, in Lo statuto dei lavoratori (a cura di Giugni), Milano, Giuffré, 1979, p. 646 ss.
  214. Cfr. Mancini, op. ult. cit., p. 555 e, ora, Ghezzi e Romangoli, op. cit., p. 178; contra Centofanti, Commento sub art. 36, in Commentario dello statuto dei lavoratori (a cura di Prosperetti), III, Milano, Giuffré, 1975, p. 1222, secondo cui il riferimento ai contratti collettivi implica una comparazione istituto per istituto. Ma è evidente come la stessa disparità di interpretazioni costituisce un indice della fragilità della norma e ne compromette il tasso di effettività.
  215. Uno spunto in questo senso in Centofanti, op. cit., p. 1201, che valuta il disposto statutario solo come un’anticipazione di una normativa sui minimi salariali.
  216. V. retro, parag. 3
  217. Di cui lo stesso autore è pienamente consapevole, al punto da definire la norma dello statuto «un palliativo» (p. 546).
  218. Mancini, op. ult. cit., p. 546.
  219. Secondo Foa, ad esempio, l’inizio dei fenomeni di decentramento produttivo, «in risposta a una pesante situazione di conflitto in fabbrica», va fatto risalire già alla fine degli anni ’60: cfr. Contrattazione collettiva, sindacato e classe operaia, in «Econ. e lav.», 1976, ora in Per una storia, cit., p. 203. Al fondo, comunque, non va dimenticato che la struttura industriale italiana ha sempre presentato tratti di accentuata frammentazione e in ciò sta la radice prima, mai recisa, della limitata sfera di efficacia della contrattazione e delle disuguaglianze salariali.
  220. Cfr. Rieser, op. cit., p. 62.
  221. Foa, op. ult. cit., p. 203; Id., Sul sindacato, in «Quad. piacentini», 69, 1978, p. 9, con pessimistici rilievi «sulla speranza, lungamente coltivata, di recuperare (il secondo mercato) al controllo sindacale e legale del mercato del lavoro salariato stabile». In quest’ordine di preoccupazioni Foa è stato fra i primi a rilanciare l’idea di un salario minimo legale a tutela delle fasce deboli del mercato del lavoro: cfr. La struttura del salario, Roma, Alfani, 1976, p. 16.
  222. D’obbligo il riferimento al saggio di Fuà, Occupazione e capacità produttive: la realtà italiana, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 38. Si v. anche la replica di Trentin, Considerazioni sopra un recente lavoro di Giorgio Fuà, in Da sfruttati a produttori, cit., p. CXLIX, con una certa sottovalutazione del peso della dimensione direttamente salariale fra le motivazioni del decentramento produttivo. Nell’ambito dell’imprenditoria minore sono, poi, da sempre note le condizioni di sottosalario praticate nel settore artigiano: da ultimo cfr. Romeo, Nota a Cass., 28 agosto 1980, n. 4991, in «Riv. giur. lav.», 1981, II, p. 59 ss. Ad esse non recò un rimedio, neppure provvisorio, la stessa legge Vigorelli, che pure aveva fra i suoi obiettivi di fondo proprio quello di offrire tutela ai lavoratori delle imprese artigiane. Infatti la Corte costituzionale, con due successive sentenze, stabilì che i decreti legislativi ex lege 741 non devono far riferimento ad una nozione ontologica di categoria, ma all’inquadramento stabilito in sede di contrattazione collettiva. Pertanto, se tale risulta la volontà dei soggetti stipulanti il contratto collettivo, le imprese artigiane possono restare escluse dalla sfera di applicazione dell’erga omnes (sent. n. 70/1963), mentre, in caso di concorrenza fra contratti collettivi aventi sfera di applicazione anche parzialmente identica (ad esempio per un determinato settore industriale e per la frazione artigiana di esso), nessuno dei due potrebbe essere esteso (sent. n. 106/1963): cfr. Giugni, Osservazioni sulle sentenze n. 70 e 106 della Corte costituzionale, in «Giur. cost.», 1963, I, p. 822 ss.; Pera, Sul campo di applicazione delle leggi delegate emanate per assicurare un trattamento minimo ai lavoratori, in «Lav. e sic. soc.», 1966, p. 97 ss; per un riesame della problematica v. ora Biagi, La dimensione dell’impresa nel diritto del lavoro, Milano, Franco Angeli, 1978, p. 367.
  223. Sulle condizioni dei dipendenti da scuole private v. da ultimo Zoppoli, Nota a Pretura di Napoli, 1 febbraio 1980, in «Riv. giur. lav.», 1980, II, p. 1115. Sono notori i casi aberranti, diffusi soprattutto al sud, di giovani insegnanti costretti a prestare attività a titolo gratuito negli istituti privati, pur di acquisire punti utili per essere inseriti nelle graduatorie previste per il conferimento degli incarichi nella scuola statale: è evidente che qui si versa in ipotesi del tutto diverse da quelle ammesse come legittime dalla prevalente dottrina di prestazioni gratuite di lavoro subordinato, su cui cfr., per tutti, Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1968, p. 63 ss.
  224. Cfr. ad es. Antignani, op. cit., p. 297; ed anche Fabris, Nuovi profili dell’autonomia sindacale, in «Riv. dir. lav.», 1980, I, p. 223 ss. La rivisitazione recente più approfondita della problematica relativa all’erga omnes è in Liebman. Rappresentatività del sindacato ed efficacia del contratto collettivo, in «Riv. it. dir. lav.», 1983, I, p. 435 ss.; si v. anche Mariucci, La contrattazione collettiva, Bologna, il Mulino, 1985, p. 454 ss.
  225. Cfr. in proposito la limpida analisi di Mancini, Libertà, cit., p. 139.
  226. Anche in condizioni di pluralismo sindacale — va detto, per completezza — non sarebbe impossibile progettare una qualche forma di estensione erga omnes dei contratti collettivi. Le soluzioni praticate in ordinamenti stranieri non offrono, peraltro, utili punti d’appoggio. Non convince, ad esempio, il modello tedesco, per l’eccessiva discrezionalità ivi assegnata all’autorità governativa. Men che meno potrebbe essere guardato con simpatia dai sindacati quello francese, dove, a seguito della legge 19 gennaio 1978, un contratto collettivo «anche firmato da una organizzazione minoritaria in un settore e contenente clausole non accettate dalle organizzazioni maggioritarie, ...potrà essere esteso»: Lyon-Caen e Camerlynck, Droit du travail, Parigi, Dalloz, 198010, p. 724. Non c’è bisogno di sottolineare le potenzialità divaricanti dell’azione sindacale unitaria di un meccanismo del genere. Su questa problematica, per un’analisi comparata recente, cfr. Aliprantis, La nature et les agents de la négociation collective, in «Rev. int. dr. comp.», 1979, p. 779 ss.
  227. È il caso della Francia, dove nel 1970 il sistema dello smig è stato trasformato in smic (salaire minimum interprofessionnel de croissance), per legare la misura del salario minimo non soltanto all’aumento del costo della vita, ma anche alla dinamica di crescita dell’economia nazionale ed evitare una divaricazione eccessiva con l’andamento dei salari medi: cfr. per tutti Lyon-Caen, Les salaires, Parigi, Dalloz, 19732, p. 5 ss. Più recentemente, nel ’77, un aumento notevole della misura del salario minimo si è avuto anche in Danimarca: cfr. Reynaud. Problemi, cit., p. 22.
  228. Reynaud, op. cit., p. 22, con riferimento ai casi del Belgio e dell’Olanda.
  229. Cfr. ILO, Minimum wage fixing, cit., p. 162.
  230. Si ricorderà, ad esempio, che con simili argomentazioni il partito liberale motivò il suo voto negativo in sede di discussione della legge Vigorelli. Echi di tali preoccupazioni si ritrovano nella requisitoria che Libero Lenti pubblicò contro la legge 741 sulle colonne del Corriere della Sera, ispirata ai «più rigidi parametri dell’economia classica»: così Giugni, La validità, cit., p. 73. La posizione nettamente critica di Luigi Einaudi nei confronti della legge è ricordata da Pera, Il sindacalismo nel pensiero di Luigi Einaudi, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1982, p. 244.
  231. Cfr. Laperrière, Les systemes juridiques de détermination des salaires, Montréal, Les Presses de l’Université, 1974, p. 269.
  232. Cfr., per tutti, O’Herlihy, Measuring minimum wage effects in the United States, (a cura dell’ILO), Ginevra, 1967, e per ulteriori riferimenti, anche bibliografici, ILO, op. cit., p. 47.
  233. Cfr. Laperrière, op. cit., p. 270.
  234. Fra gli obiettivi dello smic francese, ad esempio, la relazione alla legge 2 gennaio 1970 sottolinea espressamente quello di evitare le situazioni economiche malsane dove alcune imprese non sopravvivono che sottopagando il loro personale: cfr. Camerlynck e Lyon-Caen, op. cit., p. 371 ed anche Lyon-Caen, op. ult. cit., p. 9, con un significativo mutamento d’opinione circa gli effetti d’un tasso troppo elevato del salario minimo sulle possibilità di esistenza delle imprese marginali, rispetto alle perplessità espresse nella 1a edizione di Les salaires (p. 40).
  235. Phelps Brown, The inequality of pay, Oxford University Press, 1977, p. 177.
  236. Così Starr, op. cit., p. 183.
  237. 235 Ibidem, con riferimento a una ricerca empirica curata dall’United States Bureau of labor Statistics, Youth unemployment and minimum wages, Washington, Government printing office, 1970, e ai risultati dello studio di Levitan e Belous, More than subsistence: minimum wages for the working poor, Baltimora e Londra, John Hopkins University Press, 1979.
  238. Cfr. Laperrière, op. cit., p. 269; Roccella, Minimum wage-fixing: an historical and comparative perspective, in «Comp. lab. law», 1984, p. 92 s. In argomento si v. anche Solomon, A model youth differential amendment: reducing youth unemployment through a lower minimum wage for the young, in «Harv. jour, legis.», 1982, p. 150 ss.
  239. Dopo la riforma del 1970 le differenze nella misura del salario minimo per fasce di età sono le uniche rimaste nel sistema francese (oltre a quelle per lavoratori di ridotta attitudine fisica), ma esse vengono via via superate dalla contrattazione collettiva: cfr. Lyon-Caen, op. ult. cit., p. 7.
  240. Starr, op. cit., p. 115.
  241. Per i termini del dibattito, con un’analisi delle diverse proposte in campo, cfr. per tutti Dell’Aringa, L’agenzia per la mobilità della manodopera, Milano, Vita e Pensiero, 1981.
  242. Anche in questo caso è utile il riferimento al modello francese, dove, accanto allo smic, il modo di calcolo del vecchio smig è sopravvissuto, sotto il nome di «minimum garanti», per la determinazione della misura di tutta una serie di prestazioni della sicurezza sociale. Cfr. ancora Lyon-Caen, op. ult. cit., p. 11, che, peraltro, in proposito si esprime con accenti fortemente critici, parlando, per questo aspetto, di «riforma ipocrita e ambigua»; più recentemente Courthéoux, Le salaire minimum, étalon de valeur, in «Droit social», 1984, p. 100 ss.
  243. Cfr. ILO, op. cit., p. 80.
  244. Cfr. Starr, op. cit, p. 22, con riferimento soprattutto alle esperienze della Giamaica e dell’India.
  245. Cfr. McCormick e Turner, The legai minimum wage, employers and trade unions: an experiment, in «Manchester school of economic and social studies», vol. XXV, 1957, p. 288. Da tempo, peraltro, il sistema dei consigli salariali è sottoposto a critiche, sostenendosi ch’esso presenta elementi non trascurabili di vischiosità istituzionale. I consigli, in altre parole, avrebbero tendenza a sussistere anche quando le condizioni che ne avevano giustificato la costituzione nel settore specifico siano venute meno. Proprio per questo la più recente riforma dell’istituto, attuata nel 1975, ha previsto la conversione, in circostanze determinate, di un wage council in uno statutory joint industrial council, imitativo delle strutture negoziali private, con abolizione quindi del terzo pubblico, per favorire lo sviluppo della contrattazione diretta fra le parti: cfr. Starr, op. cit., p. 75. Una recente proposta di introduzione nell’ordinamento inglese di un salario minimo legale generale è stata formulata da Pond e Winyard, The case for a national minimum wage, Londra, Low Pay Unit, 1982.
  246. Il funzionamento pratico del nuovo smic, fra l’altro, ha determinato una crescita del salario minimo in misura superiore a quella del salario medio (fra il ’70 e il ‘75 lo smic è aumentato del 131%, mentre il tasso medio dei salari si è elevato solo del 108%: cfr. Courthéoux, Principes, cit., p. 282), provocando un restringimento dei differenziali salariali, almeno all’interno delle qualifiche inferiori, e smentendo le affermazioni troppo rigide di chi aveva sostenuto che le normative legali sui minimi, per questo riguardo, non possano avere conseguenze apprezzabili: in questo senso cfr. Roberts, Mise en question des methodes traditionnelles de détermination des salaires, in Détermination des salaires (a cura dell’Ocde), Parigi, 1974, p. 376.
  247. Queste due misure, invero, furono prese nel ’68 all’indomani degli accordi di Grenelle e, successivamente, inglobate nella riforma dello smic. Nei sistemi di salario minimo generale la tendenza verso l’abolizione di vari tipi di differenziazioni (zonali, settoriali ecc.) è, comunque, dappertutto crescente: cfr. Starr, op. cit., p. 55.
  248. Oltre a quelli citati in nota 3 si v. anche Perone, Su un ‘eventuale disciplina legale dei minimi retributivi, in «Dir. lav.», 1971, I, p. 387 ss. L’unico autore che ha proposto una normativa sui minimi ispirata al modello inglese dei wage councils è Becca, Le categorie non protette dal contratto collettivo di lavoro, in «Riv. giur. lav.», 1959, I. p. 231 ss.
  249. Così Treu, Commento sub art. 36, cit., p. 97.
  250. Nel più volte citato saggio su La validità erga omnes, p. 89.
  251. L’analisi di Giugni, oltre tutto, poggiava su un riferimento alla teoria marginalista dei salari assai discutibile. Il marginalismo, infatti, è difficilmente utilizzabile a sostegno di un’ipotesi di legislazione sui minimi di qualche significato: si ricordi, ad esempio, la polemica fra il Lester ed autori americani di scuola marginalista all’indomani dell’approvazione del Pair Labor Standards Act, per i cui termini cfr. Tiano, L’action syndicale ouvrière et la théorie économique du salaire, Parigi, Génin, 1958, p. 93. Pur con le riserve che suscita, lo scritto di Giugni resta, per approccio interdisciplinare, quanto di meglio sia stato prodotto dalla dottrina giuslavorista italiana sui problemi della norma minima.
  252. Cfr. Pera, La determinazione, cit., p. 419; Riva-Sanseverino, Applicabilità, cit., p. 44; V. Spagnuolo Vigorita, Conguaglio per scala mobile dell’assegno familiare e retribuzione, in «Dir. lav.», 1968, I, p. 207.
  253. Corte cost., 4 maggio 1960, n. 30, in «Giur. it.», 1960, I, 1, c. 753; Corte cost., 26 aprile 1962, n. 41, in «Riv. dir. lav.», 1962, II, p. 437. Nel primo caso la Corte ritenne legittima la diversa misura dell’indennità di contingenza per i portieri, disposta dalla legge 4 febbraio 1958, n. 23, in relazione alla qualità di capo-famiglia dell’avente diritto. Nel secondo respinse l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’indennità di caropane. In entrambe le occasioni le argomentazioni della Corte risultano inconferenti, giacché riferite ad elementi retributivi la cui ratio non è affatto legata ai carichi familiari del lavoratore.
  254. Si v. ad esempio l’intervento dell’on. Gabrieli, in Atti, cit., p. 3803. Anche a seguito di queste precisazioni l’on. Foa rinunciò a svolgere un emendamento soppressivo dell’inciso «per sé e per la famiglia».
  255. Ghidini, in Atti, cit., p. 3806.
  256. Si ricorderà che tale indicazione era contenuta già nel d.d.l. 895/1954.
  257. Richiamato da Perone, op. cit., p. 393 e da Treu, op. ult. cit., p. 96.
  258. Né vale richiamare in contrario la normativa prevista per il personale incaricato e supplente nelle scuole (come fa Morgera, La nozione di rapporto di lavoro a tempo parziale, in «Dir. lav.», 1981, I, p. 237), trattandosi di disposizioni viziate da patente incostituzionalità. Nel senso del testo si v. invece Loy, La disciplina giuridica del rapporto di lavoro a tempo parziale, in «Riv. giur. lav.», 1980, I, p. 338 ss.
  259. Cfr. Starr, op. cit., p. 121. Di fatto, nel periodo 1966-77, con la sola eccezione degli Stati Uniti, il valore reale dei salari minimi legali, nei contesti industriali avanzati, è sostanzialmente aumentato (ivi, p. 129, 133).
  260. Cfr. Cheyney, L’évolution de la législation sur les salaires minima aux Étas-Unis, in «Rev. internat. travail», 1938, Vol. XXXVIII, p. 29.
  261. Cfr. Starr, op. cit., p. 136 ss. con riferimento alle indagini condotte nel Regno Unito, negli USA e in Olanda.
  262. Starr, op. cit., p. 149.
  263. È il caso delle Filippine, dell’India e anche di alcune provincie del Canada.
  264. Negli Stati Uniti è diffuso fra gli ispettori il ricorso a tecniche, in senso lato, conciliative nel tentativo di risolvere le controversie in materia con strumenti informali di efficacia immediata. Simile approccio del resto era già praticato sin dagli anni ’30, in riferimento alle leggi statali sui minimi: cfr. Brandeis, op. cit., p. 539.
  265. Kahn-Freund, Labour and the law, cit., p. 10.
  266. Tale raccomandazione riguarda i sistemi di determinazione dei salari minimi con particolare riferimento ai paesi in via di sviluppo: la si può leggere in appendice a Starr, op. cit., p. 201.
  267. Starr, op. cit., p. 145.
  268. Per indicazioni in tal senso cfr. Treu, op. ult. cit., p. 100, Balzarini, op. cit., p. 252.
  269. Del resto non particolarmente nuova: in essa infatti non era difficile avvertire suggestioni di idee già da tempo avanzate, ad esempio, da Sylos Labini, La riforma della scala mobile, in «Mondo operaio», 1981, 1, p. 29; Id., Un esercito del lavoro, in «la Repubblica», 22 dicembre 1981.
  270. Apprezzabile, in questo senso, un’apertura che sembrava prospettata nei Materiali e proposte per un programma di politica economico-sociale e di governo dell’economia del PCI (in «Rinascita», 50, 1981, p. 33, poi, senza modifiche sul punto, ivi, 23, 1982, p. 17). Ma anche la proposta comunista appariva confinata, salvo ulteriori precisazioni, ai problemi della riforma contrattuale della struttura del salario, restando, dal nostro punto di vista, inadeguata all’ordine di questioni esposto nel testo. I medesimi rilievi possono muoversi alla, pur interessante, proposta formulata da Dal Co, op. cit., laddove individua in un negoziato trilaterale lo strumento di fissazione del salario minimo, senza chiarire se la misura salariale così determinata vada, o meno, rafforzata attraverso la sanzione legale. Totale insensibilità ai profili istituzionali della problematica, non a caso frettolosamente liquidata, mostra poi Bolaffi, op. cit.
  271. Un esempio di parzialità nell’informazione è l’articolo di Barbara Spinelli, Sulle orme di Léon Blum, in «la Repubblica», 16 giugno 1982. Una valutazione più equilibrata può leggersi in Patriarca, La politica dei redditi e dei prezzi nella recente esperienza francese, in «Ires Materiali», 1984, 2, p. 6.
  272. Giugni, La validità, cit., p. 70.
  273. Così Thurow, Senza Keynes, in «Lab. poi.», 1982, 1, p. 28.
  274. Cfr. Gennari, Nell’armadio di Reagan, in «Progetto», 1981, 1, p. 88. La ostilità del governo conservatore britannico nei confronti delle istituzioni che regolano il salario minimo è attestata da Wedderburn, Il diritto del lavoro in Europa negli anni ’80, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1983, p. 543, che sottolinea come, riguardo alle politiche del lavoro, «il contrasto con la Francia difficilmente potrebbe essere più profondo».