I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
Ad ogni modo in Italia, ancor più che altrove, il lavoro a domicilio costituiva soltanto un aspetto dello sweating system. Le particolari, e ampiamente documentate
[59]
, caratteristiche dello sviluppo economico italiano fanno sì che, ancora a cavallo dei due {p. 37}secoli, la struttura industriale risulti segnata, per un verso, dal peso rilevantissimo delle imprese di piccole e piccolissime dimensioni, per altro verso da una composizione di classe con larghissima presenza di manodopera generica, femminile e minorile: tutti fattori che contribuivano a deprimere fortemente il saggio salariale medio
[60]
. Di fatto «nel complesso del sistema salariale italiano era netta la prevalenza dei bassi salari, e l’indice medio tendeva più ad avvicinarsi a quello delle categorie meno favorite che a quello delle élites operaie»
[61]
. In questo contesto, caratterizzato anche da una diffusa debolezza sindacale, si comprende bene come l’opportunità di una misura legislativa minima di determinazione del salario esorbitasse ampiamente dall’area del lavoro a domicilio. Senonché pensare a un intervento dello Stato in materia di salari nell’Italia di allora sarebbe stato probabilmente un non senso. Si è visto, infatti, come tale tipo di intervento costituisca un punto relativamente maturo di un sistema di legislazione sociale, «il complemento ovvio», per ripetere le parole degli Webb, «dell’indirizzo della legislazione sulle fabbriche». Ma la legislazione sociale italiana dell’epoca, com’è noto, si trovava in uno stato miserevole: «nessuno dei grandi paesi d’Europa» — è il giudizio di un osservatore certamente non prevenuto — «ha una legislazione sociale più povera, più manchevole, più difettosa della legislazione italiana»
[62]
. F.S. Nitti, è vero, scrive nel ’92, con l’occhio rivolto alla risibile, e peraltro mai seriamente applicata, legge del 1886 sul lavoro dei fanciulli
[63]
; ma la situazione non muta in maniera apprezzabile anche dopo la legge del 1902, che estendeva la tutela al lavoro delle donne, per emanare la quale «la Camera aspettò la venuta di qualche collega socialista di più»
[64]
. Furono quindi {p. 38}essenzialmente considerazioni di realismo ad escludere dalle rivendicazioni delle organizzazioni, politiche e sindacali, della classe operaia la richiesta di un minimo legale di salario. Per la verità tale richiesta venne formulata al congresso di Mantova del PSI, nel 1896, ma più che altro come motivo di agitazione propagandistica: «non è a credere, infatti, che i socialisti italiani... confidino gran fatto nell’opera dello Stato, quale esso ora è. E se talora ne invocano il concorso, lo fanno soltanto come avviamento a potere un giorno operare assai meglio da sé; e, più ancora, per ragioni di propaganda»
[65]
. Non ci si aspettava, in altre parole, di cogliere un risultato concreto. E infatti la rivendicazione sarà presto lasciata cadere dal partito
[66]
; il sindacato, per parte sua, non risulta che l’abbia mai fatta propria. Nei primi anni del secolo l’azione sindacale sfruttò la congiuntura economica favorevole per migliorare le condizioni della classe lavoratrice attraverso la contrattazione collettiva
[67]
, senza peraltro cercare di contrastare, ed anzi accettandola esplicitamente, la struttura delle disuguaglianze salariali (fra regioni, fra settori, fra i sessi, fra adulti e minori)
[68]
.
¶{p. 39}
Il quadro non sarebbe completo se non si tenesse conto che l’introduzione di misure legislative in tema di salari era fortemente osteggiata dalla cultura giuridica dominante, saldamente attestata, ancora sulla soglia degli anni ’20, a difesa del liberismo economico-giuridico e perciò ostile ad applicare ai rapporti di lavoro categorie altre da quelle del diritto comune. Un saggio, assai noto, pubblicato da Ludovico Barassi sulla «Rivista di diritto commerciale», sintetizza limpidamente gli umori prevalenti nel ceto dei giuristi
[69]
. Barassi prende le mosse, apparentemente, dalla critica alla dottrina cattolica del giusto salario, riesumata da Leone XIII nell’enciclica Rerum novarum; ma obbiettivo reale è la confutazione della possibilità di reazione giuridica ai mali dello sweating system. Dell’insegnamento di Leone XIII non si disconosce «l’altissimo valore morale»
[70]
: si contesta invece che sia trasponibile in termini giuridici. La dottrina del giusto salario, infatti, parte da una concezione oggettiva del valore, o meglio del rapporto di scambio fra prestazione (lavorativa) e controprestazione (retributiva), che non trova riscontro nel Codice civile. Questo «si limita a tutelare la libera determinazione di ognuno dei soggetti, non si ingerisce nella sostanza dell’accordo, per ciò che concerne l’ammontare della mercede determinata dai permutanti»
[71]
, lasciando campo libero all’operare della legge della domanda e dell’offerta. L’equivalenza fra le prestazioni del contratto di lavoro va riguardata, dunque, da un punto di vista meramente soggettivo: essa non è altro che «coincidenza di apprezzamenti soggettivi circa le rispettive utilità marginali»
[72]
per cui cade ogni possibilità di ragionamento giuridico in termini di giusto salario, inteso come «quella misura oggettiva, data la quale si ritiene giusta la mercede»
[73]
.
Stante la premessa, in sé sicuramente condividibile
[74]
, le possi¶{p. 40}bilità di reazione del diritto ai bassi salari restano confinate in un ambito ristrettissimo. Il giudice, infatti, potrà intervenire a fissare la retribuzione, facendo riferimento al saggio normale di essa (da intendersi, peraltro, sempre in senso soggettivo
[75]
), qualora le parti non ne abbiano convenuto la misura, e ciò sia nel caso che nulla sia stato dato dal datore di lavoro, sia nel caso che una prestazione salariale abbia poi, in concreto, avuto luogo. In queste ipotesi, infatti, «si risale sempre alla volontà delle parti: si tratta di determinare quell’ammontare che si possa ritenere voluto dalle parti»
[76]
. Ma se una volontà è stata espressa, cessa ogni possibilità di reazione giuridica, anche a fronte di salari bassissimi e persino di salari insufficienti ai bisogni vitali. Il limite della sussistenza, infatti, «non penetra come elemento tipico e misuratore nel contratto»
[77]
, restando confinato nella sfera dei motivi: di esso il diritto potrebbe tenere conto soltanto qualora, uscendo «dalla sua neutralità», imboccasse la strada della determinazione di «un limite minimo legale di mercede». Ma quella strada all’illustre autore appare sdrucciolevole, «un’anomalia... nel nostro sistema legislativo»
[78]
: un cammino, a dirla franca, del tutto impercorribile, di quelli che a mettercisi dentro si sa da dove si parte, ma non quale sarà il punto di arrivo. Il problema dei bassi salari, in altre parole, non può essere affrontato con strumenti giuridici, giacché «siccome è una situazione creata dall’odierno regime capitalistico, colpire quella situazione, come si capisce, sarebbe come colpire questo che è il regime economico cui è informata la società odierna, e che è presupposto fondamentale del diritto positivo che ci governa»
[79]
. La regola generale, peraltro, vale finché si resti sul ¶{p. 41}piano della fisiologia dei rapporti giuridici. La neutralità del diritto viene meno invece qualora, nel caso singolo, il datore di lavoro sia venuto meno a quel dovere di correttezza sociale che deve informare tutte le relazioni contrattuali, sfruttando coscientemente lo stato di necessità in cui versa l’operaio per imporgli un salario anormalmente basso rispetto al saggio corrente. In queste ipotesi sarà ammissibile l’intervento della magistratura, per sanzionare il comportamento illecito, attraverso la dichiarazione giudiziaria di inesistenza del contratto
[80]
. Il campo di applicazione di tale reazione giuridica è comunque ridottissimo, limitato a quei casi in cui si possa dimostrare l’esistenza di una sproporzione notevolissima fra salario pattuito e tasso corrente: casi assolutamente marginali, come proverebbero anche esperienze straniere in cui simili rimedi civilistici sono stati utilizzati con estrema prudenza
[81]
. Rimedi, ad ogni modo, che restano rigorosamente circoscritti al piano ¶{p. 42}individuale, giacché «non vi è reazione giuridica contro i cosiddetti “salari di fame” consacrati dall’uso regionale. Si potranno deplorare fin che si vuole; ma insomma non vi è quell’anomalo atteggiamento immorale e antisociale nei rapporti peculiari di un determinato lavoratore, che subisca quindi un trattamento differente da quello degli altri lavoratori della sua categoria»
[82]
.
Appena un paio d’anni prima Ludovico Barassi aveva parlato del Trade Boards Act inglese del 1909 come di un’esperienza tale da indurre «a qualche meditazione per l’Italia»
[83]
. Adesso la meditazione» è finita ed egli viene ad apporre il sigillo della sua autorevolezza scientifica all’idea che «contro un notevole generale ribasso dei salari... è inutile e pericoloso l’opporre dei rimedi»
[84]
.
4. Fra le due guerre. La convenzione n. 26 dell’OIL. Fascismo e New Deal
La compattezza, senza spiragli, dello schema argomentativo di Barassi si commenta da sola. Per amore di verità (e per evitare interpretazioni deformanti) va comunque precisato che preoccupazioni in tutto simili continuavano a circolare ampiamente anche altrove, come provano, del resto, le stesse timidissime applicazioni normative del principio in esame, di cui si è già fatto cenno. Non a caso all’indomani della prima guerra mondiale la «Revue internationale du travail», che sin dal suo primo anno di vita prenderà ad occuparsi del problema, dovrà constatare, con tono alquanto sconsolato, che «sinora poco è stato fatto su questa strada al di fuori dell’Inghilterra. Gli altri paesi europei... non hanno ancora affrontato la questione se non timidamente. Essi infatti non hanno considerato che una piccola parte del problema del salario: quella che concerne il lavoro a domicilio»
[85]
. La precarietà del contratto collettivo come strumento di determinazione delle ¶{p. 43}condizioni di lavoro di efficacia generalizzata avrebbe, in effetti, legittimato ovunque interventi legislativi ben più incisivi: in questo senso un salto di qualità è rappresentato dal Trade Boards Act inglese del 1918 che, riformando la legge precedente sul punto delle condizioni normativamente necessarie per l’istituzione di un consiglio d’industria, permise di estenderne notevolmente la sfera applicativa
[86]
.
Nel complesso, però, la traduzione legislativa dell’idea di salario minimo resterà sempre assai travagliata nel primo trentennio del secolo, soggetta ad avanzamenti (la legge inglese) come a momenti di caduta: a questi ultimi possono senz’altro ascriversi le pronunce di incostituzionalità della corte suprema americana rispetto alle minimum wage laws, che appaiono ispirate a una difesa rigida della libertà contrattuale individuale
[87]
.
¶{p. 44}
Note
[59] Per tutti si v. Vannutelli, Occupazione e salari dal 1861 al 1961, in L’economia italiana dal 1861 al 1961, Milano, Giuffré, 1961, p. 560 ss; Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 7-28; Cova, L’occupazione e i salari, Milano, Franco Angeli, 1977, p. 7 ss.
[60] Cfr. in generale Morandi, Storia della grande industria in Italia, Torino, Einaudi, 1966, (ma 1931), p. 135 ss.
[61] Procacci, op. cit., p. 25.
[62] Nitti, La legislazione sociale in Italia e le sue difficoltà, in «Rass. agraria, ind., comm., pol.», 1892, ora in Scritti sulla questione meridionale, I, Bari, Laterza, 1958, p. 173. Si tratta, peraltro, di una valutazione incontestabile: cfr. Procacci, op. cit., p. 15; Morandi, op. cit., p. 157 ss.
[63] Il dato sulla disapplicazione proviene dagli stessi industriali: in un memoriale redatto nel 1896 dall’associazione cotoniera, parlando della legge di dieci anni prima, «si notava esserne l’infrazione talmente frequente, da renderla quasi irrisoria per ciò che riguarda la sua vera sostanza»: così Morandi, op. cit., p. 170.
[64] Morandi, op. cit., p. 169. Sulla legge del 1902 si vedano, da ultime, le ricostruzioni di Balestrero, Dalla tutela alla parità, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 19 ss; M.L. De Cristofaro, Tutela e/o parità, Bari, Cacucci, 1979, p. 43 ss.
[65] Arduino, Il sistema del salario minimo nelle sue recenti applicazioni, in «La Riforma sociale», 1897, p. 96. Per una testimonianza dell’epoca sull’anti- statualismo della classe operaia italiana si v. Schiavi, op. cit., p. 60; da ultimi Ghezzi e Romagnoli, op. cit., p. 2 s.
[66] Cfr. Ruini, op. cit., p. 305, che, scrivendo nel 1906, testimonia come ormai restassero «a trattare l’argomento soltanto i convegni cattolici». L’affermazione di Vannutelli, (op. cit., p. 566) secondo cui «il problema del salario non era tra quelli più pressanti» può essere accettabile soltanto se riferita al quadro generale dei rapporti di forza fra capitale e lavoro nell’Italia liberale. Lo stesso autore, del resto, prosegue affermando che «urgevano maggiormente, e davano luogo a movimenti di rivendicazione, il problema degli orari di lavoro, il problema dell’igiene e della sicurezza del lavoro, e correlativamente quello del lavoro notturno e del lavoro femminile e minorile». In termini assoluti, invece, è sicuramente contestabile, giacché, ancora alla fine del secolo, «nonostante qualche aumento verificatosi in certi rami della produzione, i salari di fame, che l’assoluta maggioranza delle nostre maestranze operaie già percepiva, restavano salari di fame»: Morandi, op. cit., p. 149.
[68] Foa, Sindacati e lotte sociali, in Storia d’Italia, vol. V, Torino, Einaudi, 1973, ora in Per una storia del movimento operaio, Torino, Einaudi, 1980, p. III: ivi anche un più articolato discorso sulla politica salariale della Cgdl.
[69] Barassi, Giusto salario e salari anormali. Contributo al concetto di equivalenza nei contratti onerosi di scambio, in «Riv. dir. comm.», 1917, I, p. 1 ss. Ma l’autore aveva già esposto la sostanza del suo pensiero nell’opera maggiore, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, II, Milano, S.E.L., 1915, p. 360 ss., 388 ss.
[70] Giusto salario, cit., p. 10.
[71] Ivi, p. 1.
[72] Ivi, p. 2.
[73] Ivi, p. 5.
[74] La critica barassiana alla dottrina cattolica del giusto salario, condotta sulla base della concezione soggettiva del rapporto di equivalenza fra retribuzione e lavoro, è in sé inattaccabile. Dove l’autore equivoca grossolanamente (citando, peraltro, Marx di seconda mano: Giusto salario, p. 8, nota 1) è nell’accostamento fra la dottrina cattolica e la teoria marxista del salario. L’estraneità di quest’ultima alle suggestioni dell’idea di «giusto salario» è del tutto evidente: basti pensare alla assoluta incompatibilità con la teoria del plusvalore. Sul punto si v. Marx, Salario, prezzo e profitto, cit., p. 72.
[75] «Anche la mercede normale (“valore oggettivo”) può dar l’illusione di quel criterio oggettivo, mentre in realtà essa, se non è esattamente la media statistica delle mercedi usualmente pattuite, certo presuppone sempre una pluralità di casi determinati tutti da apprezzamenti soggettivi» Giusto salario, cit., p. 5, e già Il contratto, cit., p. 389.
[76] Giusto salario, cit., p. 7.
[77] ivi, p. 10.
[78] Citazioni tutte da Giusto salario, cit., p. 12.
[79] Ivi, p. 18. In altri termini «qui non vi è che un riflesso del naturale squilibrio tra classi sociali, cioè il riconoscimento di una situazione naturale di cose, non già l’abnorme sovrapposizione a una situazione naturale... In questa ipotesi non vi ha dunque un’anomalia, cioè la singolarità di un caso eccezionale; ma, purtroppo, l’applicazione di una ipotesi molto comune. Altri operai si trovano in questa condizione; cosicché la mercede concessa rappresenterà il più delle volte una mercede comune a una determinata classe di lavoratori non qualificati» (p. 18).
[80] Ivi, p. 27. Il dubbio circa l’irrisorietà del rimedio proposto si affaccia alla mente dello stesso autore, che si vede costretto ad ammettere, qualche pagina più avanti, «si dirà che è troppo poco», affrettandosi però subito ad aggiungere la sua convinzione che «dal diritto non si possa oggi pretendere di più: non può pretendere il diritto di riformare i costumi, né di contrastare l’autonomia contrattuale, se non in una misura molto limitata» (p. 31).
[81] Barassi fa riferimento al § 138 del BGB che in Germania era stato utilizzato, con interpretazione estensiva, per annullare contratti di lavoro caratterizzati da salari infimi. L’applicazione del rimedio della rescissione per lesione al contratto di lavoro era prevista anche dall’art. 21 del codice svizzero delle obbligazioni: sul punto si v. Raynaud, op. cit., p. 124 ss. Proprio a proposito dell’interpretazione del § 138 del BGB Barassi coglie l’occasione per polemizzare con Lotmar, che nel suo Der Arbeitsvertrag nach dem Privatrecht des deutschen Reiches, I, Lipsia, Duncker und Humblot, 1902, p. 172, aveva sostenuto l’applicabilità di quella norma anche nel caso di salari bassissimi conformi all’uso corrente: «...affermazioni come questa del Lotmar, che pure è giurista molto fine, benché non sempre spassionato, fanno assai più male che bene al principio di una reazione giuridica contro salari infimi o usurati»: Giusto salario, cit., p. 30, nota 2. Analoga critica è riservata a un progetto di legge francese: «Il progetto di legge del governo francese (1907), all’art. 11, ammetteva la reazione del diritto anche contro la sproporzione conforme agli usi professionali. Ma allora dove sta l’anomalia, dove la sproporzione?»: ivi, p. 29, nota 2.
[82] Ivi, p. 30.
[83] Il contratto di lavoro, II, cit., p. 386.
[84] Giusto salario, cit., p. 29.
[85] La réglementation legale, cit., p. 381 s. Il BIT, che del problema dei bassi salari era chiamato ad occuparsi anche da una norma del trattato di Versailles, manterrà sempre una costante (e meritoria) attenzione alla prospettiva del salario minimo legale, dai primi articoli comparsi sull’annata 1921 della «Revue internationale du travail» sino ai giorni nostri.
[86] La riforma legislativa del ‘18 fu attuata per prevenire l’abbassamento dei livelli salariali che si temeva sarebbe succeduto alla fine della guerra. Per questo motivo il criterio dei salari «eccezionalmente bassi» fu sostituito dal diverso criterio dell’assenza di un meccanismo negoziale adeguato al compito della determinazione dei salari, come condizione legittimante l’istituzione di un trade board. In tal modo l’autorità governativa poté «intervenire in un più ampio spazio di categorie e di settori industriali, perché il principio della insufficienza dei meccanismi contrattuali di disciplina dei salari era suscettibile di una applicazione molto più lata che non il criterio, per sé restrittivo e nella pratica applicato sempre restrittivamente, del salario eccezionalmente basso»: Grandi, op. cit., p. 23. Di fatto sotto l’imperio della nuova legge il numero dei consigli industriali in funzione crebbe rapidamente arrivando, in breve volger di tempo, a toccare il tetto delle sessantatre unità.
[87] Prima di giungere all’esame della Corte Suprema, parecchie leggi statali avevano positivamente passato il vaglio dei tribunali di Stato: si v. al riguardo Commons ed Andrews, Principles, cit., p. 76 s. L’attaccamento tenace alla concezione liberista dei rapporti economici muove invece i giudici della Cone Suprema nella decisione del caso Adkins v. Children v. hospital, con cui venne dichiarata incostituzionale, nel 1923, la legge sui minimi salariali del Distretto di Columbia. Se essa si fosse limitata a stabilire il modo di pagamento del salario — si legge nella motivazione — non vi sarebbe stato alcun problema di costituzionalità. Viceversa quella legge «è semplicemente ed esclusivamente una legge di fissazione dei prezzi, limitata alle donne adulte..., che sono giuridicamente capaci quanto gli uomini di concludere un contratto che le riguarda. Essa impedisce a due parti aventi entrambe la capacità giuridica... la libertà di concludere a piacimento un contratto relativo al prezzo per il quale l’una s’impegna a prestare i suoi servizi all’altra in un impiego puramente privato...». Inoltre essa implica palesemente un attacco al diritto di proprietà, poiché «nella misura in cui la somma fissata superi il giusto valore dei servizi resi, si è in presenza di una esazione operata contro l’imprenditore, che viene obbligato a sostenere una persona bisognosa pur non essendo particolarmente responsabile della situazione di questa persona»: citazioni in Rice, La constitutionnalité de la législation du travail aux États-Unis, in «Rev. Internat. travail», 1926, vol. XIV, p. 822. Lo spessore puramente ideologico della sentenza della Corte Suprema (e delle altre che seguirono negli anni successivi) può essere colto meglio se si considera che, nella situazione di particolare prosperità economica dell’America degli anni ’20, provvedimenti limitativi dei livelli salariali non trovavano alcuna giustificazione ed anzi apparivano come un non-senso: sul punto si v. Broda, La législation sur les salaires minima aux États-Unis, in «Rev. Internat. travail», 1928, vol. XVII, p. 55.