Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
Ma un conto era contestare la validità del principio-cardine del liberismo economico sul piano dell’organizzazione e dell’azione collettiva, rivendicando tariffe salariali sufficienti (quanto meno) ai bisogni vitali anche in periodi di depressione economica [30]
; altra (e ben più difficile) impresa era piegare la radicale ostilità dei pubblici poteri ad intervenire su un punto centrale (il punto centrale) della relazione di scambio fra capitale e lavoro, a tutela delle fasce più deboli e/o non organizzate di manodopera. Naturalmente i primi interventi di legislazione sociale avevano dapper
{p. 29}tutto intaccato lo schema della libertà contrattuale individuale inteso nella sua accezione più rigida; nello stesso senso andava la progressiva emersione del fenomeno sindacale dalla sfera dell’illiceità [31]
. Né, del resto, si contestava, ormai da tempo, la legittimità dell’intervento statale per regolamentare il modo di pagamento del salario [32]
. Ammettere un’analoga possibilità di intervento quanto alla misura di esso avrebbe significato, viceversa, operare uno strappo troppo netto rispetto alla logica di mercato. La determinazione quantitativa del salario andava lasciata alla libertà contrattuale delle parti (preferibilmente) individuali o (alla peggio) collettive, giacché, per dirla con le parole, eloquenti più di ogni altra considerazione, di un legislatore francese dell’epoca, «si la question du minimum de salaire était posée devant la Chambre, ce serait le socialisme en action qui se dresserait devant vous, et nous sommes résolus à le discuter en lui-même et à le combattre» [33]
. Quel deputato esagerava, certamente [34]
. Ma esprimeva, {p. 30}senza tanti giri di parole e col pregio (già allora) raro della chiarezza, sentimenti diffusi nei vari establishments nazionali: che quella della determinazione del salario fosse una trincea dalla quale non bisognava arretrare, una sorta di affare privato di cui mai lo Stato, ricardianamente, avrebbe dovuto «impacciarsi».

3. Le prime realizzazioni. Le vicende della (mancata) esperienza italiana

Aver affermato l’idea di salario minimo legale all’interno dei movimenti operai dei vari paesi [35]
significava, dunque, anche sul piano culturale, un notevole passo in avanti: non significava affatto aver vinto la partita. Questa, anzi, restava ancora tutta da giocare sul piano dei rapporti coi pubblici poteri e con gli imprenditori. Molti di loro, per la verità, non avrebbero avuto di che temere, potendo, forse, persino aspettarsi qualche vantaggio da un’eventuale legislazione sui minimi: la quale — gli Webb l’avevano chiarito assai bene — avrebbe potuto agire anche come fattore di regolazione della concorrenza [36]
, colpendo essenzialmente le imprese marginali, costrette all’alternativa fra innovazione tecnologica ed uscita dal mercato [37]
. Senonché nelle barriere che un po’ dappertutto gli imprenditori eressero per ostacolare la sanzione legislativa del principio [38]
, è possibile scorgere un altro tratto comune alla vicenda di esso e del contratto collettivo. Un nostro giurista, fra i più autorevoli, osservava agli inizi del secolo come «far capire alla classe degli imprenditori che proprio il loro interesse esige l’acceleramento e il compimento della organizzazione dei gruppi professionali, è natu{p. 31}rale che non sia facile. Finché si tratta di far della teoria... si può credere di averli persuasi; ma in pratica di fronte a una legge sulla capacità dei sindacati o sugli effetti del contratto collettivo, si vede subito che tornano a irrigidirsi nelle paure tradizionali» [39]
. Il giudizio riguarda l’ambiente imprenditoriale italiano. Ma, nella sostanza, può essere tranquillamente esteso ad illustrare un atteggiamento di resistenza, comune nei diversi contesti industriali, sia pure con ovvie sfasature temporali, nei confronti della dimensione collettiva dei rapporti di lavoro.
Ma poiché le pressioni sindacali trovavano ormai una sponda nell’opinione pubblica, grazie anche alle numerose inchieste che, ovunque, mettevano in luce le aberrazioni dello sweating system, non si poteva continuare a lungo, da parte delle autorità di governo, ad opporre un diniego di principio di qualsiasi intervento di tutela. La scelta di operare, fra le diverse forme di sweating system, sulle condizioni salariali dei lavoratori degli appalti pubblici fu omogenea nei diversi paesi, giacché essa rispondeva alla duplice esigenza di apprestare un minimo di protezione, senza dover mettere in gioco principi consolidati. La vicenda che sboccherà, in Francia, nell’emanazione dei famosi decreti Millerand è da questo punto di vista esemplare. Respinte le istanze di chi avrebbe voluto un’esplicita affermazione legale del principio del salario minimo, la scelta accolta nei decreti fu quella di assumere come punto di riferimento della retribuzione operaia il salario normalmente pagato nel luogo di esecuzione del lavoro [40]
. Naturalmente il salario «normalmente pagato» avrebbe potuto essere quello fissato nei contratti collettivi, ove esistenti: ma è evidente che in condizioni di mercato del compratore e di debolezza sindacale questi sarebbero potuti risultare insufficienti ad offrire una protezione adeguata. In ogni caso il principio del non intervento statale nei contratti fra privati era fatto salvo. Il senso di questa, come delle analoghe vicende normative degli altri paesi (si pensi ad esempio alla prudentissima Fair wages resolution approvata dal parlamento britannico nel 1891 [41]
) è infatti chiarissimo. Prevedendo l’inser{p. 32}zione della disposizione relativa ai salari come clausola del contratto d’appalto, si opera «in questa materia una specie di détournement o déguisement di forme giuridiche; e, mentre in realtà si tratta di disciplinare una speciale categoria di contratto di lavoro, vi si vuole arrivare attraverso una via indiretta. Si regola il contratto di lavoro per mezzo di quello d’appalto. E, se si sceglie ordinariamente la forma privatista-contrattuale invece di quella di impero o legislativa, non lo si fa forse soltanto per evitare gli indugi di un provvedimento del parlamento o la dubbia legalità d’una disposizione regolamentare, ma bensì per attenuare la portata apparente del principio del salario minimo» [42]
.
Nel predisporre una tutela normativa per i lavoratori impegnati nei pubblici appalti l’Italia «arriva buon’ultima» [43]
. Per la verità, anzi, non arriva affatto: le diverse proposte, ispirate ai modelli normativi già sperimentati negli altri paesi, a partire da quella elaborata nel 1906 dalla commissione Gianturco, non superarono mai, infatti, la fase dell’approvazione parlamentare [44]
. L’unica disposizione dell’epoca in qualche modo ascrivibile a quest’indirizzo legislativo riguarda la clausola di «equo trattamento» che, ai sensi dell’art. 21 legge 30 giugno 1906, n. 272, una commissione consultiva composta da funzionari governativi e magistrati aveva la facoltà di suggerire al Ministro dei lavori pubblici a favore del personale addetto alle ferrovie concesse all’industria privata. Ma si tratta di {p. 33}una norma del tutto eccezionale, niente più che una forma minima di risarcimento per lavoratori cui era stata tolta «non solo la libertà di sciopero, ma anche la libertà contrattuale collettiva» [45]
.
In quello stesso anno maturava in Inghilterra una condizione determinante per lo sviluppo della legislazione sui minimi salariali: la prima rilevante affermazione del Labour Party alle elezioni politiche generali. La svolta, in realtà, si era avuta qualche anno prima. La posizione favorevole all’azione politico-legislativa, ch’era stata uno dei cavalli di battaglia dei sindacalisti socialisti animatori del «nuovo sindacalismo» [46]
, divenne patrimonio comune ai diversi filoni del movimento operaio britannico, spingendoli a collegarsi nel «Labour Representation Committee» (nucleo del futuro partito laburista) [47]
, quando, verso la fine del secolo, una serie compatta di pronunce della Camera dei Lords minacciò seriamente l’effettività dell’azione sindacale. La linea di tendenza culminò nella decisione, resa nel 1901 nel famoso caso Taff Vale, a seguito della quale il sindacato dei ferrovieri fu ritenuto responsabile, e condannato al risarcimento, per i danni inferti da suoi membri nel corso di uno sciopero [48]
. Parlare di svolta a proposito
{p. 34}dei nuovi orientamenti affermatisi nei sindacati sull’onda della sentenza Taff Vale non sembra eccessivo. In effetti, la scelta dell’azione politica «implicava l’accettazione (almeno per il momento presente) delle principali caratteristiche ed istituzioni del sistema salariale, con la coesistenza di una classe proprietaria e di una classe senza proprietà, che era implicita nel sistema; ma nello stesso tempo comprendeva il tentativo di estendere l’intervento dello Stato nel mercato del lavoro al duplice scopo di conferire il riconoscimento legale ai sindacati, in quanto istituzioni riconosciute di un sistema salariale, e di elevare il livello di vita dei salariati attraverso la legislazione sul salario minimo» [49]
. Il primo obbiettivo fu acquisito immediatamente dopo le elezioni del 1906: il nuovo governo liberale, infatti, provvide subito ad emanare il Trade Disputes Act col quale venne sconfessata la giurisprudenza della Camera dei Lords [50]
. Sul secondo si ottenne un primo, parziale ma non trascurabile, risultato con l’emanazione nel 1909 del Trade Boards Act, palesemente ispirato alla legge in vigore da più di un decennio nello stato australiano di Victoria [51]
. Sulla scorta del modello vittoriano la legge inglese permise l’istituzione di consigli a composizione tripartita nei settori industriali caratterizzati da livelli retributivi «eccezionalmente bassi»: ai minimi salariali fissati dai consigli veniva conferita efficacia legale obbligatoria con un atto di ratifica del Board of Trade (Ministero dell’indu{p. 35}stria) [52]
. Nonostante l’applicazione iniziale della legge fosse piuttosto moderata, limitandosi a quattro settori industriali, la sua importanza non può essere minimizzata [53]
: non soltanto perché con essa subiva una prima seria incrinatura il dogma del non intervento statale in materia salariale, ma anche per gli effetti imitativi che produsse in altri paesi. Rispetto ai quali, peraltro, l’esperienza inglese si collocava su un terreno più avanzato: mentre infatti la legge francese del 1915 e quelle, di poco successive, approvate in Norvegia, Austria e Cecoslovacchia si limitavano a colpire, e molto parzialmente, lo sfruttamento praticato nel lavoro a domicilio [54]
, la legge inglese, pur applicata a settori dove il lavoro a domicilio aveva un peso rilevante, non era una legge specificamente rivolta al lavoro a domicilio [55]
. A differenza, inoltre, delle leggi approvate in numerosi Stati americani a partire dal 1912 per tutelare la condizione salariale delle donne (e, talvolta, dei minori) [56]
, la legge inglese si applicava senza distinzione di sesso.{p. 36}
Note
[30] Si ricordi l’esempio della Miners’ Federation, citato in nota 28, durante la depressione industriale del 1892-1893.
[31] Val la pena di notare come vi sia un nesso evidente fra il riconoscimento delle libertà sindacali e della legittimità di rivendicazioni salariali: in Inghilterra, ad esempio, allo Statute of Labourers del 1349 aveva fatto seguito, nello stesso secolo XIV, la considerazione della coalizione fra operai come delitto grave. La legittimità di essa, per contro, segue l’abolizione dell’ultima legge sui massimi salariali, avvenuta 11 anni prima: in proposito si v. Marx, Il capitale, cit., p. 802; Kahn-Freund, Labour and the law, Londra, Stevens & Sons, 1972, p. 170.
[32] Cfr. Pic, Traité élémentaire de legislation industrielle, Parigi, Rousseau, 1930, p. 648. Il primo Truck Act fu approvato in Inghilterra nel 1831: sulle ragioni dell’opposizione sindacale a tale forma di pagamento si v. Webb, op. cit., p. 316 s., Marx, op. ult. cit., libro it. 1°, p. 208. Sui Truck Acts cfr. da ultimo, da noi, Liebman, Contributo allo studio delle fonti di regolamentazione giuridica del rapporto di lavoro subordinato in Gran Bretagna, in «Riv. dir. lav.», 1979, I, p. 590.
[33] Le parole del deputato Aynard furono pronunciate durante la discussione che porterà all’approvazione dei decreti Millerand: la citazione è in Raynaud, op. cit., p. 69. Lo spettro del socialismo, del resto, sarà fatto balenare ovunque con estrema facilità dagli oppositori del salario minimo legale: opinioni analoghe a quelle del deputato Aynard sosterrà, ad esempio, l’ala estrema del partito conservatore durante il dibattito parlamentare precedente l’emanazione del Trade Boards Act. Sulla posizione assunta, da noi, da L. Barassi v. infra nel testo; per quanto riguarda, infine, il riaffiorare di simili concezioni durante il new deal roosveltiano si v. il paragrafo n. 4.
[34] Anche se, nella sua esagerazione, percepiva lucidamente che il salario minimo legale costituisce un fattore di turbativa degli spontanei equilibri di mercato di efficacia, potenzialmente, più intensa della stessa contrattazione collettiva: in condizioni di mercato del compratore, coniugate, come spesso succede, a debolezza sindacale, la contrattazione, di per sé, può non essere in grado di assicurare salari sufficienti e il salario minimo legale può reagire anche sui livelli da essa determinati.
[35] Rivendicazioni in materia, infatti, si diffondono, più o meno ovunque, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso: per un efficace panorama comparativo si V. Raynaud, op. cit., p. 367 ss.
[36] E infatti disposizioni in materia di salari minimi saranno inseriti nei «codici di concorrenza leale» approvati, nel quadro del National Industriai Recovery Act, durante la prima fase dell’amministrazione Roosevelt: si v. infra il paragrafo seguente.
[37] Webb, op. cit., p. 713 ss.
[38] Sulle resistenze degli imprenditori inglesi si v. Grandi, Studi sul diritto del lavoro inglese e nordamericano, Milano, Giuffrè, 1970, p. 20; quelle degli imprenditori francesi sono ampiamente documentate da Raynaud, op. cit., p. 399 ss.
[39] Carnelutti, Sul contratto di lavoro relativo ai pubblici servizi assunti da imprese private, in «Riv. dir. comm.», 1909, p. 421 s.
[40] L’intera vicenda è ben ricostruita da Raynaud, op. cit., pp. 58-71; sui decreti Millerand si v. anche Lyon-Caen, Les Salaires, 1a ediz., Parigi, Dalloz, 1967, p. 15.
[41] V. Kahn-Freund, op. cit., p. 163; in generale sull’evoluzione delle Fair wages resolutions si v. dello stesso autore Legislation throught adjudication. The legal aspects of fair wages clauses and recognised conditions, in «Modern Law rev.», 1948, p. 269 ss. La più recente «rivisitazione» della tematica delle clausole a favore dei lavoratori, da noi, è in Balandi, Le clausole a favore dei lavoratori e l’estensione dell’applicazione del contratto collettivo, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1973, p. 698 ss.
[42] Ruini, Il valore della clausola del salario minimo nei pubblici appalti, in «Contr. lav.», 1906, p. 307. Si aggiunga che a giustificare l’intervento statale nella materia degli appalti si allegava anche l’esistenza di uno specifico interesse pubblico: attraverso l’elevamento dei salari si sarebbe evitato che operai mal pagati fornissero prestazioni di qualità scadente, che avrebbero costretto, trascorso un breve periodo, ad intraprendere lavori di manutenzione, con evidente aggravio di costi per l’amministrazione. Il rilievo è comune: cfr. Pie, op. cit., p. 665; Ruini, op. cit., p. 307; Carnelutti, op. cit., p. 416.
[43] Ruini, op. cit., p. 305.
[44] Sul progetto Gianturco si v. Ruini, op. cit.; sui due progetti Cocco-Ortu del 1907 e 1909 Carnelutti, op. cit.; sul progetto Sacchi (1910) ancora Carnelutti, Clausole a favore dei lavoratori nei capitolati di appalto di opere pubbliche, in «Riv. dir. comm.», 1910, I, p. 725 ss. In generale Balandi, op. cit., p. 714 ss.
[45] Romagnoli, Le origini del pensiero giuridico-sindacale in Italia, in Materiali per una storia della cultura giuridica (a cura di Tarello), III, 2, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 76. Disposizioni in tema di «equo trattamento» saranno previste dalla legge 14 luglio 1912, n. 835 anche a favore del personale addetto ai pubblici servizi di trasporto. Pure in questo caso si trattava di un provvedimento di carattere compensativo di una situazione creata dalla magistratura, che, con giurisprudenza costante, aveva equiparato i tramvieri ai ferrovieri, privando così, «attraverso un’estensione analogica in malam partem, anche questa categoria del diritto di sciopero»: Neppi Modona, Sciopero, potere politico, magistratura, I, Bari, Laterza, 1979, p. 146.
[46] Cfr. Morton e Tate, op. cit., pp. 192, 198, 216.
[47] Sul processo formativo del partito laburista cfr. ancora Morton e Tate, op. cit., pp. 218-228. Nel «Labour Representation Committee» confluirono sia numerose unioni sindacali, sia le tre organizzazioni politiche di ispirazione socialista: l’Indipendent Labour Party, la società fabiana e la federazione socialdemocratica di orientamento marxista (quest’ultima se ne staccherà ben presto).
[48] Sul caso Taff Vale si v. per tutti Kahn-Freund, Labour and the law, cit., p. 232. Niente, comunque, vale ad illustrare il clima dell’epoca, quanto una pagina esemplare di Industrial democracy. A proposito degli orientamenti repressivi dell’azione sindacale emersi nelle decisioni della Camera dei Lords, gli Webb non dubitano dell’onestà ed imparzialità dei giudici; si dicono, al contrario, del tutto convinti che quei giudici esprimano, in assoluta buona fede, un’ideologia schiettamente antioperaia. E infatti «accade questo, che, nell’incertezza presente, il diritto che si applica al caso speciale deve necessariamente dipendere dal modo di considerare l’azione generale dell’unionismo…». «Ma la gran maggioranza dei nostri giudici ritiene evidentemente, nella massima buona fede, che l’unionismo — significando l’adozione di norme comuni in tutta un’industria — è anomalo, condannabile, nocivo all’industria inglese, e che costituisce persino un’illecita violazione della libertà individuale, che il parlamento si è indotto con soverchia leggerezza a far esulare dalla categoria dei reati» (op. cit. p. 25).
[49] Dobb, I salari, cit., p. 176.
[50] Cfr. Kahn-Freund, op. ult. cit., p. 232.
[51] Il Factories and Shops Act fu approvato nello Stato di Victoria nel 1896. Inizialmente la legge prevedeva la costituzione di wage boards a composizione tripartita soltanto in sei settori, caratterizzati da condizioni di particolare sfruttamento del lavoro; successivamente se ne estese il raggio di applicazione, sino a renderla di portata potenzialmente generale, dandosi al parlamento la facoltà di istituire un consiglio salariale in qualsiasi settore ne ravvisasse l’opportunità: cfr. Reeves, The minimum wage law in Victoria and South Australia, in «Econ. Jour.», 1901, p. 334 ss. Ispirazione differente aveva la legge neozelandese del 1894 che, pur permettendo di determinare condizioni salariali ad efficacia legale obbligatoria, era stata pensata nel quadro di una procedura di prevenzione dei conflitti collettivi. Sulle differenze fra le due leggi si v. Webb, op. cit., p. 30-41.
[52] La pubblicistica sul Trade Boards Act del 1909 è vastissima: per tutti si v. Sells, Les effets économiques des conseils d’industrie britanniques, in «Rev. internat. travail», 1923, vol. VIII, p. 201 ss. I settori inizialmente colpiti dalla legge furono quelli dell’abbigliamento, della fabbricazione di scatole di cartone, della fabbricazione di merletti a macchina e di catene.
[53] L’opinione di Roy Lewis (Kahn-Ereund e il diritto del lavoro: un profilo critico, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1980, p. 97), secondo cui quella legge avrebbe dato risultati scarsi, appare per un verso unilaterale, per altro verso «anglocentrica». È vero, infatti, che essa deludeva le attese delle trade unions di un provvedimento di portata più generale; è anche vero, però, che si trattò di un punto di partenza che permetterà i successivi sviluppi della legislazione inglese in materia e servirà di modello alla convenzione OIL del 1928 (si v. infra nel testo). Il Trade Boards Act, inoltre, si poneva su un piano nettamente più avanzato rispetto alle coeve esperienze europee.
[54] Su tutte queste leggi si v. l’articolo, non firmato, La réglementation légale des salaires dans les métiers mal rémunérés en Europe, in «Rev. Internat. travail», 1921, vol. IV, p. 351 ss. Si trattava di provvedimenti estremamente riduttivi, in genere limitati all’industria dell’abbigliamento che ovunque (anche da noi) costituiva un tipico esempio di sweating system.
[55] Cfr. La réglementation légale, cit., p. 357. Il lavoro a domicilio aveva un peso prevalente nell’industria della fabbricazione di catene e di merletti, mentre era di rilievo secondario nell’industria dell’abbigliamento e della fabbricazione di scatole.
[56] Anche sulle leggi statali americane la pubblicistica è assai ampia: per tutti si v. Brandeis, Labor legislation, in History of labor in the United States (1896-1932), vol. III, (a cura di Commons), New York, MacMillan, 1935, pp. 501-539; Commons ed Andrews, Principles of labor legislation, New York, Kelley, 1967 (ma 1936), p. 54 ss. Delle leggi americane quelle approvate in Arizona, Porto Rico e Utah prevedevano direttamente la fissazione del salario minimo; negli altri Stati operava un meccanismo di determinazione attraverso consigli salariali tripartiti, di tipo diverso da quello inglese. Infatti in ciascuno Stato si prevedeva l’istituzione di una sola commissione salariale, la quale, attraverso apposite inchieste, avrebbe stabilito i settori cui applicare il salario minimo. La commissione centrale, però, aveva facoltà di avvalersi del parere di comitati consultivi d’industria, anch’essi a composizione tripartita, cosicché, nella pratica, le differenze rispetto al sistema inglese tendevano a sfumare. Le commissioni potevano stabilire salari minimi diversi per industria (ma non necessariamente: il salario minimo poteva anche essere uniforme) e a seconda del costo locale della vita (ma questo elemento veniva preso in considerazione più raramente).