Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
Nel complesso, però, la traduzione legislativa dell’idea di salario minimo resterà sempre assai travagliata nel primo trentennio del secolo, soggetta ad avanzamenti (la legge inglese) come a momenti di caduta: a questi ultimi possono senz’altro ascriversi le pronunce di incostituzionalità della corte suprema americana rispetto alle minimum wage laws, che appaiono ispirate a una difesa rigida della libertà contrattuale individuale [87]
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La persistenza di larghe zone di diffidenza, se non di aperta ostilità, nei confronti del salario minimo legale può ancora toccarsi con mano durante tutta la fase preparatoria della convenzione n. 26 dell’organizzazione Internazionale del Lavoro. La questione era stata posta all’ordine del giorno della conferenza dell’OIL del 1927, dopo reiterati tentativi andati a vuoto, su pressione dell’Inghilterra che, avendo un sistema molto più avanzato di quelli in funzione negli altri paesi, mirava a generalizzare il modello, per evidenti ragioni di disciplina della concorrenza sui mercati internazionali. In seno alla commissione istituita alla Xa sessione della conferenza, l’opposizione a una disciplina legale dei minimi di portata (tendenzialmente) generale e, comunque, non limitata al lavoro a domicilio provenne non soltanto, com’era prevedibile, da parte di numerosi rappresentanti governativi, ma anche da molti delegati operai. Questi ultimi espressero il timore che una regolamentazione generale avrebbe potuto apparire agli occhi dei lavoratori come uno strumento di tutela alternativo alla contrattazione collettiva, disincentivando lo sviluppo dei sindacati [88]
. Nonostante le esperienze sino allora realizzate andassero in senso opposto, dimostrando che organizzazione sindacale e contrattazione non erano state affatto danneggiate dalla disciplina legale dei minimi, se addirittura non ne avevano tratto vantaggio [89]
, quella preoccupazione antica, non priva di venature corporative [90]
, tornava a riemergere. In queste condizioni era inevitabile {p. 45}approdare ad una soluzione di compromesso, puntualmente rispecchiata nel testo della convenzione: questa impegna gli Stati che la ratificheranno ad istituire sistemi di determinazione dei salari minimi in tutti i settori caratterizzati da inefficienza della contrattazione collettiva e da salari eccezionalmente bassi, ma sottolinea particolarmente tale esigenza in relazione al lavoro a domicilio. Quanto agli strumenti applicativi, la convenzione lascia piena libertà, ma l’annessa raccomandazione appare chiaramente orientata verso il modello inglese dei consigli tripartiti [91]
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L’esistenza di una convenzione in materia di salari minimi trova l’Italia in una situazione, apparentemente, diversa da quella di totale astensionismo legislativo che aveva caratterizzato il nostro paese sino all’avvento del fascismo. Giuristi e politici di regime, infatti, si affrettano a sostenere la tesi dell’inutilità di una specifica legislazione sui minimi nel quadro di un ordinamento caratterizzato dall’efficacia generale dei contratti collettivi e dall’obbligatoria stipulazione di essi [92]
. Lo stesso Bottai, in un discorso pro{p. 46}nunciato alla Camera dei deputati, dopo aver affermato l’opportunità del problema posto dal BIT, aggiunge subito che esso «così, come viene prospettato, non significa nulla per l’Italia che gli ha già data una risoluzione pratica» [93]
. A fronte della necessità di prendere una decisione circa la ratifica della convenzione si registra, comunque, un’articolazione di posizioni. Inizialmente, durante la fase preparatoria della convenzione e subito dopo la sua approvazione, si mette in opera una vera e propria azione di sbarramento, tutta tesa a dimostrare il superamento del problema nell’ambito del sistema corporativo [94]
. Successivamente prevale la scelta favorevole alla ratifica, concessa con la legge 26 aprile 1930, n. 877, sia per non compromettere la posizione italiana in seno all’OIL [95]
, sia per motivi squisitamente propagandistici [96]
. La rati{p. 47}fica infatti servirà a riaffermare la superiorità dell’ordinamento italiano, basata com’è sul presupposto che «tutto il terreno che l’Italia aveva perduto rispetto agli altri Stati nel campo della legislazione del lavoro, pur sotto il reggimento dei partiti liberali e democratici che governavano per procura del socialismo... è stato riguadagnato e di gran lunga superato dal fascismo». Resta fermo, dunque, che essa non impone «alcun obbligo nuovo per la semplice ragione che ogni possibile nostro obbligo è già assorbito nell’attuazione dell’ordinamento corporativo» [97]
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La costruzione propagandistica del regime si basava non soltanto sull’esistenza di un sistema di contratti collettivi dotati di efficacia generale per gli appartenenti a ciascuna categoria (ivi compresi i lavoratori a domicilio), ma anche sulla presunta completezza dell’ordinamento sindacale corporativo [98]
. Quest’ultima affermazione, in realtà, non rispondeva al vero nel momento in cui veniva formulata [99]
e non troverà pieno riscontro neanche dopo: categorie liminari di prestatori d’opera resteranno prive di contratto collettivo sino alla fine dell’esperienza corporativa [100]
. L’effettività della soluzione fascista al problema del salario minimo va poi riguardata nel contesto della sistematica prassi padronale di violazione dei contratti collettivi, prassi denunziata dagli stessi sindacati fascisti e contro la quale fu nulla l’azione della Magistratura del lavoro [101]
. Questa, com’è noto, costituiva il corolla{p. 48}rio istituzionale logicamente indispensabile di un ordinamento sindacale che reprimeva penalmente qualsiasi forma di autotutela collettiva, ed era stata istituita per risolvere tanto le controversie collettive relative alla stipulazione di nuove condizioni di lavoro, in caso di mancato accordo delle parti, quanto quelle relative all’interpretazione e all’applicazione dei patti esistenti. L’attività della Magistratura del lavoro, in realtà, rimase sempre assai contenuta [102]
e, in particolare, del tutto assente sul piano della repressione delle violazioni contrattuali [103]
. A favorire quest’esito contribuì, per la sua parte, la riflessione giuridica sui contenuti della legge 3 aprile 1926, n. 563. La dottrina, infatti, fu pronta a negare la configurabilità giuridica di controversie in tema di applicazione del contratto collettivo, nell’assunto che il momento collettivo riguarda soltanto la formazione del contratto, mentre l’eventuale violazione è problema che resta confinato nella sfera individuale. Oscillando poi fra l’interpretazione più «liberale» che ammetteva la possibilità per il sindacato di promuovere azioni di mero accertamento, e quella che, più recisamente, escludeva che «il sindacato possa agire o che contro il sindacato si possa agire per la risoluzione di una questione teorica sorta tra di loro a proposito dell’interpretazione di una norma contenuta nel contratto» [104]
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Note
[87] Prima di giungere all’esame della Corte Suprema, parecchie leggi statali avevano positivamente passato il vaglio dei tribunali di Stato: si v. al riguardo Commons ed Andrews, Principles, cit., p. 76 s. L’attaccamento tenace alla concezione liberista dei rapporti economici muove invece i giudici della Cone Suprema nella decisione del caso Adkins v. Children v. hospital, con cui venne dichiarata incostituzionale, nel 1923, la legge sui minimi salariali del Distretto di Columbia. Se essa si fosse limitata a stabilire il modo di pagamento del salario — si legge nella motivazione — non vi sarebbe stato alcun problema di costituzionalità. Viceversa quella legge «è semplicemente ed esclusivamente una legge di fissazione dei prezzi, limitata alle donne adulte..., che sono giuridicamente capaci quanto gli uomini di concludere un contratto che le riguarda. Essa impedisce a due parti aventi entrambe la capacità giuridica... la libertà di concludere a piacimento un contratto relativo al prezzo per il quale l’una s’impegna a prestare i suoi servizi all’altra in un impiego puramente privato...». Inoltre essa implica palesemente un attacco al diritto di proprietà, poiché «nella misura in cui la somma fissata superi il giusto valore dei servizi resi, si è in presenza di una esazione operata contro l’imprenditore, che viene obbligato a sostenere una persona bisognosa pur non essendo particolarmente responsabile della situazione di questa persona»: citazioni in Rice, La constitutionnalité de la législation du travail aux États-Unis, in «Rev. Internat. travail», 1926, vol. XIV, p. 822. Lo spessore puramente ideologico della sentenza della Corte Suprema (e delle altre che seguirono negli anni successivi) può essere colto meglio se si considera che, nella situazione di particolare prosperità economica dell’America degli anni ’20, provvedimenti limitativi dei livelli salariali non trovavano alcuna giustificazione ed anzi apparivano come un non-senso: sul punto si v. Broda, La législation sur les salaires minima aux États-Unis, in «Rev. Internat. travail», 1928, vol. XVII, p. 55.
[88] Cfr. Pribram, La réglementation des salaires minima du point de vue international, in «Rev. internat, travail», 1928, vol. XVII, p. 339.
[89] Per l’Inghilterra si veda Sells, op. cit., p. 219 ss.; quanto agli Stati Uniti Commons ed Andrews, op. cit., p. 73, attestano che, nonostante i timori sindacali, «la formazione di consigli salariali ha spesso agito come uno stimolo all’organizzazione di sindacati, attraverso i quali i lavoratori hanno in alcuni casi potuto ottenere ulteriori aumenti al di sopra del tasso minimo legale».
[90] In queto senso può leggersi l’opposizione sempre manifestata negli Stati Uniti dall’AFL a qualsiasi legislazione sui minimi salariali. Negli anni ’10 e negli anni ’20 quell’atteggiamento poteva anche spiegarsi con «la struttura d’allora dello Stato americano che non permetteva alcun successo permanente dell’azione politica o legislativa» (così Perlman, Il movimento sindacale negli anni del New Deed, appendice a Per una teoria dell’azione sindacale, cit., p. 288). Non così negli anni ’30, quando, in un quadro politico-istituzionale mutato, l’AFL, a differenza del CIO, continuerà ad opporsi al Pair Labor Standards Act rooseveltiano: si v. Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal, Bari, Laterza, 1968, p. 242. La radice dell’opposizione AFL, in realtà, era sempre la stessa: l’AFL era un sindacato di mestiere di operai qualificati, i cui aderenti non avrebbero tratto alcun vantaggio diretto dalle leggi sui minimi. Per altro verso quelle leggi venivano considerate quasi come un’indebita interferenza da parte dello Stato in una sfera, la regolamentazione dei rapporti di lavoro, ritenuta di esclusiva competenza sindacale. Sui caratteri del sindacalismo AFL si v. da ultimo Valenzuela, Uno schema teorico per l’analisi della formazione del movimento operaio, in «Stato e Mercato», 1981, p. 463 e 469.
[91] Il testo della convenzione n. 26 e della raccomandazione n. 30 dell’OIL possono leggersi in appendice a Starr, op. cit., p. 195 ss. L’art. 1 della convenzione prevede che «ogni membro dell’OIL che ratifica la presente convenzione s’impegna a istituire o a conservare metodi che permettano di fissare tassi minimi di salari per i lavoratori occupati in industrie o parti d’industrie (e in particolare nelle industrie a domicilio) dove non esiste un regime efficace per la fissazione dei salari attraverso il contratto collettivo o altrimenti e dove i salari sono eccezionalmente bassi. La parola «industrie», ai fini della presente convenzione, comprende le industrie di trasformazione e il commercio».
[92] L’obbligo di regolare mediante contratti collettivi i rapporti di lavoro era imposto alle associazioni professionali dalla dichiarazione XI della Carta del Lavoro. Se ci si limitasse alla lettera della norma, prescindendo dall’uso pratico del contratto collettivo in regime fascista (su cui v. infra nel testo), si sarebbe tentati di leggere nella Carta del lavoro « una funzione promozionale della contrattazione collettiva »: così Romagnoli, Il diritto sindacale corporativo e i suoi interpreti, in « Storia contemporanea », 1970, ora in Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, Bologna, Il Mulino, 1974, p. 202.
[93] Bottai, I salari minimi, discorso pronunciato alla camera dei deputati il 1° giugno 1927, in Esperienza corporativa, Roma, Ediz. del diritto del lavoro, 1929, p. 327; gli stessi concetti si ritrovano nella dottrina giuridica: si v. Balella, Lezioni di legislazione del lavoro, cit., p. 327, Costamagna, La determinazione delle mercedi e la questione dei salari minimi, Roma, Ediz. del diritto del lavoro, 1927, p. 16, Pergolesi, I metodi di fissazione dei salari minimi, in «Dir. Lav.», 1927, p. 1261.
[94] Oltre gli scritti citati a nota 93, che appartengono al periodo precedente l’approvazione della convenzione, si v. Sabatini, I salari minimi nel sistema corporativo, Roma, Ediz. del diritto del lavoro, 1928, che, pubblicato a convenzione approvata, si esprime nello stesso ordine di idee.
[95] Il regime, infatti, fu sempre assai sensibile all’esigenza di mantenersi aperti spazi nelle sedi di confronto internazionali. Anche per questo motivo la legge sindacale non dichiarava formalmente illegali le associazioni sindacali non fasciste: in questo modo si poteva sostenere che la libertà sindacale in Italia continuava a sussistere: cfr. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, Einaudi, 1965, p. 127. Sui rapporti fra OIL e fascismo si v. in generale Allio, L’organizzazione interazionale del lavoro e il sindacalismo fascista, Bologna, Il Mulino, 1973.
[96] L’aspetto propagandistico è esplicitamente affermato nella relazione con cui Alberto Asquini accompagnava il d.d.l. 28 novembre 1929, relativo alla proposta di ratifica della convenzione n. 26: la relazione può leggersi in «Le leggi», 1930, p. 476 ss. In generale è noto come il fascismo tendesse ad alimentare, specie fra i giovani, il mito dell’Italia all’avanguardia in ogni campo dell’umano operare: cfr. Vannutelli, Le condizioni di vita dei lavoratori italiani nel decennio 1929/39, in «Rass. stat. lavoro», 1958, p. 107. Nel campo, più specifico, delle politiche del lavoro è meno noto, ma altrettanto vero che «la cultura giuridico-sindacale fascista impiegò largamente il metodo comparato. Anche se la comparazione fu generalmente usata all’esclusivo scopo di dimostrare la superiorità del sistema italiano»: così Vardaro, Le origini dell’art. 2077 cod. civ. e l’ideologia giudico-sindacale del fascismo, in «Mat. st. cult. giur.», 1980, p. 450 n. 53.
[97] Citazioni da Asquini, op. cit., rispettivamente a p. 477 e 478.
[98] Quest’ultima è una tesi comunemente affermata. Per tutti si v. Sabatini, op. cit., p. 9.
[99] Si veda infatti l’ammissione contenuta nella stessa relazione Asquini (p. 478): «11 solo problema che può esistere per noi è quello di completare l’attuazione di fatto dell’ordinamento corporativo, promuovendo la stipulazione dei contratti collettivi per quelle categorie di lavoro, che ancora non l’hanno».
[100] Sul punto l’affermazione, anche se di passata, è in Barassi, Diritto corporativo e diritto del lavoro, II, Milano, Giuffrè, 1942, p. 115.
[101] Sulle violazioni dei contratti collettivi si v. innanzi tutto la classica opera di Rosenstock-Franck, L’économie corporative fasciste en doctrine et en fait, Parigi, J. Gamber, 1934, p. 124 ss; cfr. anche Aquarone, op. cit., p. 134, Jocteau, La magistratura e i conflitti di lavoro durante il fascismo (1926/34), Milano, Feltrinelli, 1978, p. 43 (quest’ultimo, peraltro, largamente ispirato dallo studio del Rosenstock-Franck).
[102] In effetti la stessa esistenza di un organismo per la risoluzione dei conflitti di lavoro finiva per apparire come un elemento incongruo in un contesto ideologico che negava la sussistenza di qualsiasi contrapposizione di classe: anche per questo la Magistratura del lavoro fu considerata con crescente disfavore e progressivamente emarginata dalle istituzioni reali del regime: sul punto si v. Jocteau, op. cit., p. 53 ss.
[103] Delle 41 controversie collettive trattate dalla Magistratura del lavoro nel decennio 1927-1937, 22 furono conciliate in udienza e 3 abbandonate dalle parti. Delle 16 decise con sentenza 9 riguardavano la definizione di nuove condizioni di lavoro, 7 l’interpretazione di disposizioni esistenti. I dati sono riportati in una pubblicazione ufficiale dei sindacati: Solmi, La Magistratura del lavoro, in Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, I 10 anni della Carta del lavoro, s.l., 1937, p. 169. Le vertenze collettive più significative risolte in sede giudiziaria sono descritte in Rosenstock-Franck, op. cit., p. 186 ss, Jocteau, op. cit., p. 70 ss.
[104] Carnelutti, Lezioni di diritto industriale. Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, Cedam, 1928, p. 178. Carnelutti negava la sussistenza di vere e proprie controversie collettive giuridiche: l’azione del sindacato, alla stregua dei principi della sostituzione processuale, poteva essere ammessa soltanto quando, nel caso concreto, si fosse già «accesa una lite almeno tra un imprenditore e un lavoratore» (ivi). Conseguentemente ne derivava l’inammissibilità di azioni collettive in senso stretto per l’interpretazione dei contratti. L’interpretazione «liberale» era sostenuta, fra gli altri, da Pergolesi, La Magistratura del lavoro, Roma, Ediz. del diritto del lavoro, 1928, p. 45 ss.: ivi anche una secca polemica con le tesi di Carnelutti (p. 57 ss.). Ma era una polemica costruita sulla sabbia, giacché anche per Pergolesi la sentenza collettiva di accertamento non comportava alcuna pronuncia di condanna.