Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
La rispondenza dell’idea di salario minimo a sentimenti diffusi, sia pure con sfumature ed accentuazioni ideologiche diverse, in larghi settori dell’assemblea avrebbe dovuto permettere l’approvazione dell’emendamento delle sinistre. Com’è noto, invece, esso si infranse contro l’opposizione democristiana che, per bocca dell’on. Gronchi, espresse il convincimento che al contratto collettivo fosse opportuno attribuire in via esclusiva la determinazione dei livelli salariali (anche minimi) [157]
. Nella preferenza per una formula vaga, come quella che troverà infine posto nel testo dell’art. 36 [158]
, si potrebbe ravvisare un infortunio dei costituenti di parte cattolica, quasi una contraddizione con gli stessi postulati della dottrina sociale della chiesa [159]
. In realtà non sembra forzato leggervi piuttosto un robusto filo di continuità. La teoria del «giusto salario», infatti, sin dalla sua primitiva enunciazione nella Rerum novarum manteneva ampi margini di ambiguità: larga nell’affermazione di principio, essa restava indisponibile ad indicazioni specifiche, concretamente utilizzabili [160]
. L’elemento più consistente di continuità (non solo da parte cattolica) è identificabile comunque nella sottolineatura del contratto collettivo come strumento tendenzialmente esclusivo di determinazione delle condizioni salariali. Continuità, questa volta, con l’esperienza sindacale fascista (e, in una certa misura, con la stessa tradizione pre-fascista), che convalida, anche per questo specifico aspetto, il
{p. 64}giudizio circa l’incapacità del costituente di «ripensare... in termini radicalmente nuovi» [161]
l’assetto istituzionale dei rapporti di lavoro. La soluzione prevalsa appare ancora più discutibile se si pensa che, una volta privato del suo carattere autoritario, il modello corporativo perdeva anche il pregio della compattezza giuridico-formale, che lo assisteva nel contesto in cui era sorto. Non tanto per la possibilità che, in condizioni sfavorevoli di mercato, i livelli salariali fissati dai contratti collettivi, anche efficaci erga omnes, risultassero estremamente bassi: da questo punto di vista non vi sarebbe stato nulla di nuovo. Quanto perché, in regime di libertà sindacale, venivano necessariamente meno due capisaldi dell’ordinamento precedente: l’inquadramento sindacale obbligatorio per tutte le categorie di lavoratori e la stipulazione obbligatoria del contratto collettivo. Niente, in altre parole, avrebbe potuto evitare che settori marginali di forza-lavoro restassero privi di una disciplina collettiva del salario, per l’assenza o la debolezza dell’organizzazione sindacale.
Per queste fasce deboli del mercato del lavoro l’ipotesi del salario minimo legale non restava, comunque, totalmente preclusa. Il rifiuto di accoglierlo nella carta costituzionale non era stato, infatti, espresso in termini di principio, ma di opportunità, sottolineandosi anzi che «i concetti espressi nell’emendamento (Bibolotti-Bitossi) appaiono giusti» [162]
e che essi avrebbero potuto trovare adeguata realizzazione nella legislazione speciale, a prescindere da un’esplicita previsione costituzionale. Malgrado la diffidenza, se non l’aperta avversione, di consistenti settori dell’assemblea, un’eventuale attuazione legislativa del principio, in altre parole, non avrebbe potuto ritenersi in contrasto con gli intenti del costituente.
Nel dopo-costituzione la mancata realizzazione dell’ordinamento sindacale era destinata, peraltro, a riproporre il problema nei suoi termini più generali: non soltanto per le categorie prive di tutela contrattuale, ma anche per tutte le altre, dove il contratto collettivo riceveva un’applicazione limitata. La «soluzione» che emerge riposa su un’imprevedibile applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 della costituzione, valutato come norma precettiva, {p. 65}e utilizzato per correggere i salari fissati nei contratti individuali di lavoro in misura (troppo) difforme da quella del contratto collettivo applicabile alle categorie di riferimento. L’affermazione della precettività della norma costituzionale è salutata con particolare calore soprattutto dalla dottrina giuridica vicina alle posizioni della CGIL, non senza evidenti forzature argomentative. In un saggio assai noto, ad esempio, Salvatore Pugliatti si spinge a sostenere che la retribuzione fissata dai contratti collettivi conterrebbe, di per sé, la garanzia di conformità ai parametri costituzionali, giungendo poi a teorizzare l’improponibilità di una legislazione sui minimi salariali [163]
. Se la prima affermazione suonava palesemente apodittica, e sarà successivamente corretta [164]
, la seconda sembra dettata, più che da un «atteggiamento, allora diffuso nel movimento sindacale e nelle forze politiche della sinistra, di disattenzione (mista a diffidenza) verso le istituzioni» [165]
, dall’esigenza di contribui{p. 66}re a consolidare un orientamento giurisprudenziale ancora tutt’altro che assestato [166]
. I giuristi favorevoli alla precettività dell’art. 36 sicuramente non ignoravano le esperienze legislative straniere in tema di salari minimi, passate (Regno Unito, USA) e coeve (Francia) [167]
. Fatto è che l’avvento di una simile legislazione doveva apparire al di fuori delle ipotesi realisticamente formulabili nel quadro dei rapporti politici dati. Sostenerne l’opportunità sarebbe servito soltanto ad inficiare l’asserita percettività della norma costituzionale, rendendone problematica l’applicazione immediata da parte di una giurisprudenza che, faute de mieux, appariva, quanto meno, connotata di una valenza progressiva.
La giurisprudenza sulla retribuzione sufficiente risulta in effetti «fra i pochi tratti di disciplina del periodo non repressiva» [168]
. Essa, comunque, resta circoscritta nei limiti di un’offerta paternalistica di tutela del contraente debole del rapporto di lavoro, non particolarmente difficile ad essere ammessa, anche perché culturalmente legittimata da consimili esperienze straniere [169]
e, soprattutto, dalla nostra stessa (sia pur cautissima) tradizione dot{p. 67}trinale prefascista [170]
. Per altro verso forse si rischia di andare oltre misura individuando un intimo nesso di solidarietà fra la valorizzazione della norma di cui all’art. 36 e la sistematica compressione del diritto sancito dall’art. 40 Cost. [171]
: dopo tutto la repressione giudiziale dello sciopero costituisce un tratto diffusissimo anche in ordinamenti stranieri, mentre il riferimento alle tariffe collettive come parametri di determinazione della retribuzione non trova riscontri apprezzabili. Piuttosto, in una valutazione retrospettiva, sembra lecito ipotizzare che, nella situazione di sottosalario diffuso dell’epoca, l’assenza di un orientamento giurisprudenziale, quale quello in esame, avrebbe reso ancora più difficile giustificare la mancata realizzazione dell’assetto di rapporti sindacali prefigurato nella Carta. La giurisprudenza sulla retribuzione sufficiente, in altri termini, più che essere «allineata con le direttive costituzionali» [172]
, che non prevedevano affatto l’affidamento al giudice della realizzazione del principio del salario minimo, pare aver contribuito, oggettivamente, ad allentare tensioni sociali, inserendosi funzionalmente nell’ordinamento sindacale di fatto dell’immediato dopoguerra.
Anche sul punto specifico dell’applicazione dell’art. 36 la valutazione dell’operato dei giudici deve essere necessariamente articolata. Ad un estremo si collocano quelle sentenze che, prescindendo del tutto dall’esistenza di tabelle salariali collettive, fanno riferimento ad altri criteri, genericamente equitativi, per accogliere la domanda di adeguamento della clausola retributiva nelle sole ipotesi di salari di fame [173]
. All’estremo opposto quell’al{p. 68}tro gruppo di giudicati che assume il salario sindacale come criterio decisivo di determinazione della retribuzione adeguata, attraverso una pratica «assimilazione dei patti collettivi ad una legislazione di fatto sui minimi» [174]
. Nel primo caso è evidente l’utilizzo del solo criterio di sufficienza retributiva, inteso peraltro nel significato più ristretto di garanzia della mera sussistenza fisica. Nel secondo il riferimento alle tabelle salariali collettive rende palese che il criterio effettivamente utilizzato è quello di proporzionalità (alla qualifica lavorativa), il solo di cui tengano conto i contratti collettivi [175]
.
L’orientamento di gran lunga prevalente sembra peraltro quello che assume le tariffe collettive come parametri non vincolanti di determinazione della retribuzione [176]
. Anche in questo caso il criterio di fatto usato è quello di proporzionalità [177]
, tant’è vero che l’adeguamento operato tiene conto, in genere, della qualifica dell’attore e non del salario più basso astrattamente ipotiz
{p. 69}zabile (fissato dal contratto collettivo per i lavoratori della qualifica più bassa). Ma la sottolineatura congiunta dell’altro criterio della sufficienza, anche a prezzo di approssimazioni terminologiche e concettuali [178]
, risulta funzionale a uno scostamento (di poco o di tanto) dai valori sindacali, accentuando il carattere soggettivistico della decisione caso per caso.
Note
[157] Cfr. Atti, cit., p. 3809.
[158] Lo stesso Gronchi, infatti, dichiara: «Trovo che se si tratta di stabilire una linea di principio, il primo comma è sufficientemente largo... perché dice: “...una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso adeguata alle necessità di un’esistenza libera e dignitosa”» (in Atti, cit., p. 3809).
[159] Contraddizione, del resto, percepita dagli stessi democristiani che, proprio per questo, finiranno con l’astenersi nella votazione dell’emendamento delle sinistre: «Preferiamo astenerci, perché noi non possiamo votare contro un concetto che è anche nostro» (in Atti, cit., p. 3809).
[160] V. retro, nota 27.
[161] Mancini, Libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes» (1963), ora in Costituzione e movimento operaio, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 141.
[162] Così Ghidini, in Atti, cit., p. 3807.
[163] Pugliatti, La retribuzione sufficiente e le norme della costituzione, in «Riv. giur. lav», 1950, I, p. 189 ss.; Id., Ancora sulla minima retribuzione sufficiente ai lavoratori, in «Riv. giur. lav.», 1951, II, 174. Sulla stessa linea di Pugliatti si v. Nicolò, L’art. 36 della costituzione e i contratti individuali di lavoro, in «Riv. giur. lav.», 1951, II, p. 5, Smuraglia, La determinazione della retribuzione da parte del giudice, in «Riv. giur. lav.», 1951, I, p. 83. Nell’ambito della dottrina «precettivista» si lascia comunque preferire la ricostruzione di Scognamiglio (Sull’applicatibilità dell’art. 36 cost, in tema di retribuzione del lavoratore, in «Foro civ.», 1951, p. 352, e Ancora sull’applicatibilità dell’art. 36 cost, in tema di salario, in «Giur. compì. Cass. civ.», 1952, III, p. 450) che, respinte le suggestioni derivanti dalla qualificazione del diritto alla retribuzione sufficiente come diritto della personalità, tende, più correttamente, ad inquadrarlo fra i diritti di credito. Per l’opposta posizione, che valuta l’art. 36 come norma programmatica, si v., per tutti, Scorza, Il diritto al salario minimo e l’art. 36 cost., in «Dir. lav.», 1951, II, p. 450, Napoletano, Natura ed efficacia della norma di cui all’art. 36, 1 ° comma, cost., e sua rilevanza sui contratti individuali di lavoro, in «Mass. giur. lav.», 1951, p. 217, Sermonti, L’adeguatezza della retribuzione di fronte ai contratti collettivi di diritto comune ed al 1° comma dell›art. 36 della cost., in «Mass. giur. lav.», 1952, p. 128.
[164] Da Natoli, che configura la norma dell’art. 36 come limite all’esercizio dell’autonomia privata, individuale e collettiva, anche a fronte di contratti con efficacia erga omnes: si v. Ancora sull’art. 36 cost, e sulla sua pratica applicazione, in «Riv. giur. lav.», 1952, II, p. 9 e Retribuzione sufficiente e libertà sindacale, in «Riv. giur. lav.», 1952, I, p. 253. In senso sostanzialmente conforme Lega, Il salario minimo e l’art. 36 della cost., in «Dir. lav.», 1952, II, p. 281.
[165] Così, invece, Treu, Commento, cit., p. 76. La disattenzione verso la tematica istituzionale costituisce, in effetti, un tratto essenziale dell’operato delle sinistre nel dopoguerra. Essa però fu evidente soprattutto nel periodo immediatamente successivo alla caduta del fascismo e si sostanziò su piani più generali, nella sottovalutazione del problema della riforma delle strutture statuali e nel baratto che si ritenne di compiere «fra la trasformazione democratica dello Stato e l’attuazione della repubblica»: Foa, La ricostruzione capitalistica nel secondo dopoguerra, in «Riv. storia contemp.», 1973, p. 453. Più in generale si v. in argomento Pavone, Sulla continuità dello Stato, in «Riv. storia contemp.», 1974, p.183.
[166] Com’è noto si discute se la tesi favorevole alla precettività dell’art. 36 sia stata formulata inizialmente dalla dottrina o dalla giurisprudenza: secondo Giugni «è ragionevole ritenere che gli interventi della dottrina, anche in forma di nota a sentenza, abbiano influito sul consolidamento di questo orientamento (giurisprudenziale), che però non è nato dalla dottrina stessa» (Il diritto sindacale e i suoi interlocutori, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1970, poi in Il diritto sindacale, a cura di Mancini e Romagnoli, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 491).
[167] Due provvedimenti legislativi, del 1945 e 1948, avevano provveduto a rafforzare ulteriormente in Inghilterra il sistema di fissazione dei salari minimi. In Francia nel 1950, contestualmente al ritorno alla libera contrattazione dopo l’esperienza dirigistica post-bellica, venne introdotto il Salaire Minimum Interprofessionnel Garanti.
[168] Treu, op. ult. cit., p. 80.
[169] Giugni, op. ult. cit., p. 471 ricorda, sulla scorta dell’analisi compiuta da Kahn-Freund, l’operato della giurisprudenza weimariana, «avanzata in tema di trattamenti economici, dove esprime un ideale di pietà sociale».
[170] Si ricordi la posizione di Barassi (su cui v. retro, par. 3).
[171] L’affermazione più recisa in questo senso è di Romagnoli, L’equità net conflitti di lavoro: elementi per un bilancio consuntivo, in Lavoratori e sindacati, cit., p. 288, secondo cui «all’osservazione storica di lungo periodo non può sfuggire che l’una è legata all’altra da una logica di compensazione e in un certo senso di corrispettività». Ma rilievi analoghi, sia pure con accenti più sfumati, si trovano anche in Mancini, Intervento alla tavola rotonda Iniziativa sindacale e politica del diritto, in «Quad. rass. sind.», 46, 1974, p. 15 e Giugni, Azione sindacale e politica giudiziaria, ivi, p. 60. Sulla giurisprudenza in tema di sciopero si v. Treu, I governi centristi e la regolamentazione dell’attività sindacale, in Problemi del movimento sindacale, cit., p. 565 ss.
[172] Come scrive Treu, Commento, cit., p. 80.
[173] Ad es. Corte di appello di Bari n. 225/1955 (cit. da M.L. De Cristofaro, La giusta retribuzione, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 83), secondo cui «per annullare un contratto individuale ai sensi dell’art. 36 cost., occorre che il compenso fissato sia talmente basso e irrilevante da doversi ritenere accettato dal lavoratore, perché spintovi da estremo bisogno. Occorre che il datore di lavoro abbia imposto al lavoratore una paga di fame...».
[174] Così, esattamente, M.L. De Cristofaro, op. ult. cit., p. 99, con l’avvertenza, però, che l’accostamento regge soltanto con una legislazione di tipo inglese, che permette, in effetti, ai consigli salariali la fissazione di minimi distinti per qualifica (sul punto cfr. per tutti Dobb, I salari, cit., p. 190, dove si sottolinea la particolare avversione degli ambienti imprenditoriali per questo aspetto della legge britannica); o anche con l’esperienza francese post-bellica dei decreti Parodi, che, ai sensi della legge 23 dicembre 1946, permise al governo di fissare i livelli salariali, distinti per qualifica, per ogni settore industriale: cfr. Lyon-Caen, Les salaires, cit., p. 18.
[175] Nel medesimo senso della valorizzazione del criterio di proporzionalità si pone quell’indirizzo giurisprudenziale, emerso anch’esso sin dagli anni ’50, che ritiene utilizzabili, ai fini della determinazione del trattamento retributivo degli insegnanti e bidelli di scuole private, i parametri propri del personale statale di pari qualifica. Si v. ad es. Trib. Roma, 16 giugno 1958, in «Giur. it.», 1958, I, 2, c. 766; Trib. Roma, 24 gennaio 1957, in «Riv. giur. lav.», 1957, II, p. 60, e in dottrina Treu, op. ult. cit., p. 84.
[176] Cfr. le decisioni citate da M.L. De Cristofaro, op. ult. cit., p. 135 ss. e, più recentemente, Cass., 27 aprile 1978, n. 1986 in «Rep. Foro it.», 1978, voce Lavoro (rapporto di) n. 858, Cass., 5 novembre 1979, n. 5719, in «Giur. it.», 1980, I, 1, c. 847, Trib. Lodi, 27 giugno 1980, in «Orient. giur. lav.», 1980, p. 759.
[177] Esatti rilievi in proposito in Pera, La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice, in «Mass. giur. lav.», 1961, p. 421, Balzarini, Retribuzione sufficiente, retribuzione giusta e salano minimo legale, in «Riv. dir. internaz. e comp. lav.», 1974, p. 237.
[178] Un esempio di confusione fra i due principi stabiliti dall’art. 36 si può rinvenire, fra i tanti, in Cass., 21 febbraio 1952, n. 461 (in «Dir. lav.», 1952, II, p. 281), per altro verso una decisione pregevole, essendo stata fra le prime della Suprema Corte ad aver accolto la tesi della precettività dell’art. 36.