Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
L’illusorietà della soluzione fascista al problema del salario minimo emerge più chiaramente da un raffronto con l’esperienza più significativa in materia realizzata fra le due guerre, quella del new deal rooseveltiano. La storiografia più recente ha sottolineato la legittimità di un accostamento fra l’esperimento fascista e quello rooseveltiano, individuando una serie di tratti comuni nei mutamenti del rapporto fra Stato ed economia che si verificarono nei due paesi (ma non solo in essi) nel corso degli anni ’30, ed utilizzando la categoria «corporativismo», sia pure nell’accezione con cui è oggi adoperata per interpretare le esperienze di governo socialdemocratico, anche nella lettura della vicenda newdealista [137]
. {p. 58}È significativo, peraltro, come accostamenti del genere siano stati compiuti già durante gli anni ’30, sull’una e sull’altra sponda dell’oceano. È noto l’interesse con cui il gruppo di «pianificatori» americani, raccolti attorno a Rexford Tugwell, guardava agli istituti corporativi; come pure l’attenzione dedicata dalle riviste economiche italiane dell’epoca alla National industriai recovery administration e il disappunto con cui fu accolta la dichiarazione di incostituzionalità della legge istitutiva da parte della Corte Suprema [138]
. L’accostamento fra fascismo e new deal, in effetti, regge soprattutto se riferito al cosiddetto primo new deal, la cui espressione saliente fu, senza dubbio, costituita dal National Industrial Recovery Act. Ad un paragone fra corporativismo e NIRA Giuseppe Bottai dedicò un saggio, destinato a una rivista americana, e ripubblicato da noi sul «Diritto del lavoro» [139]
. Bottai è esplicito nell’affermazione che «gli strumenti adoperati (dal fascismo e dal new deal) differiscono nell’insieme e nei dettagli, ma la comunanza del fine determina più volte analogie ed accostamenti, che non sono privi di significato» [140]
. Differenza di metodi, ma non di finalità dunque [141]
, in particolare nella concezione di una economia organizzata sotto il controllo dello Stato, che tanto le corporazioni quanto i «codici di concorrenza leale» del NIRA mirerebbero a realizzare. Gli strumenti predisposti dal fascismo, però, sarebbero più affinati di quelli newdealistici, sia perché le corporazioni, organi dello Stato, supererebbero quella «separazione fra l’autorità statale e le organizzazioni dei produttori» [142]
che sussiste negli Stati Uniti, sia perché le norme in tema di rapporti di lavoro che i codici devono obbligatoriamente contenere sono lasciate alla decisione degli imprenditori, mentre in Italia dipendono dai risultati della contrattazione collettiva.
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Anche a voler prendere per buone le tesi bottaiane sull’economia organizzata, tralasciando di approfondire, in questa sede, che le corporazioni non ebbero mai quel ruolo incisivo di orientamento delle scelte economiche che il disegno istituzionale fascista attribuiva loro, l’accostamento non potrebbe essere spinto oltre. Quel che Bottai evita, non a caso, di porre in rilievo è la profonda differenza di significato sociale dei due esperimenti, evidente nelle rispettive politiche del lavoro. In realtà mentre il contratto collettivo, in regime fascista, fu uniformemente utilizzato, sia durante la fase deflattiva che nell’economia di guerra, come strumento di compressione dei salari reali, le disposizioni in tema di contrattazione collettiva contenute nel famoso paragrafo 7 a) del NIRA, così come quelle in tema di salari minimi, avevano l’opposta funzione di riavviare il meccanismo bloccato dell’economia, attraverso l’espansione del potere d’acquisto dei redditi da lavoro dipendente e l’allargamento conseguente della domanda interna [143]
.
Le disposizioni sui minimi salariali del NIRA cominciarono effettivamente a produrre qualche risultato positivo. Quelle sulla contrattazione si infransero invece contro l’ostilità imprenditoriale [144]
. Significativamente, però, dopo la dichiarazione di incosti{p. 60}tuzionalità del NIRA da parte della corte suprema, saranno entrambe riprese e rafforzate rispettivamente nel Wagner Act(1935) e nel Fair Labor Standards Act (1938): promozione della contrattazione collettiva e legislazione sui minimi rispondevano infatti a una logica unitaria [145]
.
Il Fair Labor Standards Act, in particolare, pur essendo anche — come già era stato il NIRA — una misura di regolazione della concorrenza a vantaggio dei grandi gruppi industriali [146]
, ebbe «l’esplicita funzione di sostenere la domanda e il potere d’acquisto nei settori operai dove la sindacalizzazione era difficile» [147]
. Nonostante la misura del salario minimo fissata dalla legge fosse alquanto moderata, l’impatto fu enorme: più di dieci milioni di lavoratori ne beneficiarono [148]
. La differenza nelle politiche del lavoro, e segnatamente nelle politiche salariali, dell’amministrazione americana e del fascismo, rispondeva (anche) a una diversità di basi sociali. Anche il new deal perseguiva un disegno di stabilizzazione capitalistica, ma il peso crescente della classe operaia, mediato dal nuovo sindacalismo CIO, nella coalizione rooseveltiana fece progressivamente coagulare un’«alleanza tra un big government e un big labor (accompagnata da un) riconoscimento, sincero se non anche entusiastico, della legittimità di un big business» [149]
. Nel fascismo, al contrario, il privilegiamento degli inte{p. 61}ressi della grande industria fu unilaterale e senza alternative l’obbiettivo di ripristinare le condizioni della via italiana all’accumulazione, attraverso i bassi salari, ch’erano state scosse dalle lotte operaie dell’immediato dopoguerra [150]
. Da questo punto di vista, e al di là delle bardature corporative, l’esperienza fascista può essere riguardata come un irrigidimento autoritario dello Stato liberale.
È appena il caso di ricordare che, sul piano della tutela dei redditi più bassi, il fascismo non reggeva il confronto neanche con il sistema inglese: si deve infatti al positivo funzionamento dei Trade Boards se i lavoratori britannici poterono evitare, durante gli anni ’30, gli effetti più gravi della crisi [151]
. Il fascismo, in altre parole, pretendeva di aver superato l’esigenza del salario minimo legale, in virtù del sistema di contrattazione collettiva ad efficacia generale: in realtà aveva mistificato i termini del problema. Il «salario minimo corporativo» non costituiva, infatti, una base suscettibile di miglioramenti attraverso la contrattazione [152]
; costituiva, piuttosto, un tetto, sempre derogabile in pejus da successivi contratti, dalle sentenze della Magistratura del lavoro e (in via di fatto) dalle violazioni padronali. La realizzazione del salario minimo (come di altri interventi riformatori dell’epoca: si pensi, ad esempio, agli assegni familiari [153]
) era avvenuta «in un contesto capo{p. 62}volto volto che ne stravolgeva il significato, nel quadro dei salari bassissimi, del delitto di sciopero, della negazione di ogni autonoma espressione della classe operaia» [154]
.

5. Il dopoguerra. Il dibattito alla costituente. La giurisprudenza sulla retribuzione sufficiente

La proposta di inserire nell’ordinamento un’esplicita sanzione legislativa del salario minimo torna ad affiorare alla Costituente. Superando perplessità dello stesso Di Vittorio [155]
, ispirate da preoccupazioni non dissimili da quelle proprie di altri ambienti sindacali nei confronti dell’intervento dello Stato in materia di salari, in assemblea plenaria gli onorevoli Bibolotti e Bitossi sostennero l’esigenza che «il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa (fossero) stabiliti dalla legge», motivandola con considerazioni d’indubbio realismo. L’affidamento alla legge della determinazione dell’entità minima del salario e della durata massima della prestazione lavorativa giornaliera sarebbe dovuto servire, per un verso, a contenere «l’arbitrio dell’assuntore d’opera», per altro verso a garantire ai lavoratori che «essi non potranno essere mai più oggetto di quello sfruttamento inumano e senza limiti che oggi, in determinate circostanze e in determinati rapporti di forza, sarebbe ancora giuridicamente possibile » [156]
e che neanche il contratto collettivo ad efficacia obbligatoria generale, di per sé, varrebbe ad evitare.{p. 63}
La rispondenza dell’idea di salario minimo a sentimenti diffusi, sia pure con sfumature ed accentuazioni ideologiche diverse, in larghi settori dell’assemblea avrebbe dovuto permettere l’approvazione dell’emendamento delle sinistre. Com’è noto, invece, esso si infranse contro l’opposizione democristiana che, per bocca dell’on. Gronchi, espresse il convincimento che al contratto collettivo fosse opportuno attribuire in via esclusiva la determinazione dei livelli salariali (anche minimi) [157]
. Nella preferenza per una formula vaga, come quella che troverà infine posto nel testo dell’art. 36 [158]
, si potrebbe ravvisare un infortunio dei costituenti di parte cattolica, quasi una contraddizione con gli stessi postulati della dottrina sociale della chiesa [159]
. In realtà non sembra forzato leggervi piuttosto un robusto filo di continuità. La teoria del «giusto salario», infatti, sin dalla sua primitiva enunciazione nella Rerum novarum manteneva ampi margini di ambiguità: larga nell’affermazione di principio, essa restava indisponibile ad indicazioni specifiche, concretamente utilizzabili [160]
. L’elemento più consistente di continuità (non solo da parte cattolica) è identificabile comunque nella sottolineatura del contratto collettivo come strumento tendenzialmente esclusivo di determinazione delle condizioni salariali. Continuità, questa volta, con l’esperienza sindacale fascista (e, in una certa misura, con la stessa tradizione pre-fascista), che convalida, anche per questo specifico aspetto, il
{p. 64}giudizio circa l’incapacità del costituente di «ripensare... in termini radicalmente nuovi» [161]
l’assetto istituzionale dei rapporti di lavoro. La soluzione prevalsa appare ancora più discutibile se si pensa che, una volta privato del suo carattere autoritario, il modello corporativo perdeva anche il pregio della compattezza giuridico-formale, che lo assisteva nel contesto in cui era sorto. Non tanto per la possibilità che, in condizioni sfavorevoli di mercato, i livelli salariali fissati dai contratti collettivi, anche efficaci erga omnes, risultassero estremamente bassi: da questo punto di vista non vi sarebbe stato nulla di nuovo. Quanto perché, in regime di libertà sindacale, venivano necessariamente meno due capisaldi dell’ordinamento precedente: l’inquadramento sindacale obbligatorio per tutte le categorie di lavoratori e la stipulazione obbligatoria del contratto collettivo. Niente, in altre parole, avrebbe potuto evitare che settori marginali di forza-lavoro restassero privi di una disciplina collettiva del salario, per l’assenza o la debolezza dell’organizzazione sindacale.
Note
[137] Il riferimento è al bel libro di Vaudagna, cit. Ma un accostamento fra la esperienza del fascismo e quella del new deal, sia pure di sfuggita, può leggersi già in Mancini, Introduzione a Il pensiero politico nell’età di Roosevelt, Bologna, Il Mulino, 1962, p. 10 e anche in Giugni, op. ult. cit., p. 96. Vaudagna opportunamente ricorda che l’interpretazione del new deal come esperienza di tipo socialdemocratico era già stata avanzata negli anni ’50 da Richard Hofstadter (di cui si v. L’età delle riforme, Bologna, Il Mulino, 1962). Contra, ma con argomentazioni troppo rigide, Ferrari-Bravo, Il new deal e il nuovo assetto delle istituzioni capitalistiche, in Aa.Vv., Operai e stato, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 113.
[138] Cfr. Vaudagna, New deal e corporativismo nelle riviste politiche ed economiche italiane, in Italia e America dalla grande guerra a oggi (a cura di Spini, Migone, Teodori), Padova, Marsilio, 1976, sp. p. 117 ss.
[139] Bottai, Corporate State and NRA, in «Foreign Affairs », 4, 1935, p. 105 (trad. it. Il corporativismo italiano sul piano intemazionale, in «Dir. lav.», 1935, p. 89 ss.).
[140] Ivi, p. 98.
[141] Ivi, p. 94.
[142] Ivi, p. 102.
[143] Roosevelt stesso enunciò sin dall’inizio con estrema chiarezza gli obiettivi dell’amministrazione. In un discorso radiodiffuso nel maggio del ‘33 egli sostenne che «...le leggi contro i trusts erano destinate a impedire la creazione di monopoli e a proibire, se del caso, la realizzazione da pane loro di benefici irragionevoli. Si dovrà continuare a perseguire lo scopo cui tendevano quelle leggi, ma ricordandosi che esse non hanno mai avuto per oggetto di incoraggiare la forma di concorrenza sleale che approda a una durata prolungata del lavoro, a salari di fame e alla sovrapproduzione» (cit. da Butler, L’oeuvre de redressement économique aux États-Unis, in «Rev. internat, travail», 1934, vol. XXIX, p. 5-6). Qualche mese dopo, parlando della portata e della funzione del salario minimo legale, avrebbe dichiarato all’American Federationist: «...per salario vitale noi intendiamo più che i semplici mezzi di sussistenza, noi intendiamo un salario che assicuri una vita decente. Assicurare una vita decente alla maggioranza dei nostri 125 milioni di abitanti significherebbe aprire all’industria il più ricco mercato che il mondo abbia mai conosciuto. È il solo modo di utilizzare ciò che si chiama il surplus di capacità dei nostri stabilimenti industriali» (si v. «Rev. internat. travail», 1933, vol. XXVIII, p. 803).
[144] Cfr. Leuchtenburg, op. cit., p. 100 ss.; Dobb, Problemi di storia del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 1980 (ma 1946), pp. 381-5. Acutamente è stato osservato che «...insieme, i padroni avevano voluto il NIRA, ma, presi uno a uno, ciascuno ne rifiutava le conseguenze per la propria fabbrica»: Ferrari- Bravo, op. cit., p. 119.
[145] Uno spunto in questo senso in Tronti, Poscritto di problemi, in Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1971, p. 287. Fra l’una e l’altra legge era stato approvato anche il Walsh-Healey Act (1936) che, sul modello delle normative inglesi e francesi, mirava a tutelare le condizioni salariali dei lavoratori impegnati nella esecuzione di pubblici appalti: su questa legge si v. per tutti Le salaire minimum (a cura del BIT), Ginevra, 1940, p. 76.
[146] Infatti ad esso si opposero strenuamente gli imprenditori del sud, che ne sarebbero stati maggiormente colpiti: cfr. Leuchtenburg, op. cit., p. 241. Sulle ragioni dell’opposizione AFL v. retro nota 90.
[147] Ferrari-Bravo, op. cit., p. 134.
[148] Cfr. Leuchtenburg, op. cit., p. 243, Le salaire minimum, cit., p. 119.
[149] Mancini, Introduzione, cit., p. 16. L’obiettivo della stabilizzazione sociale fu sempre indiscusso per i new dealers. Giustamente ricorda Mancini (op. cit., p. 20) come «Roosevelt non capirà mai le ragioni dell’odio che gli portano gli uomini d’affari e le accuse di tradimento che gli vengono dai membri della sua classe». Nello stesso senso Ferrari-Bravo, op. cit., p. 110. Naturalmente non mancarono anche per il new deal accuse di voler instaurare una società socialista: ad esempio all’indomani dell’approvazione del Guffey Act (1935), che tentò di reintrodurre le disposizioni, dichiarate incostituzionali, del NIRA, limitatamente all’industria del carbone, taluno si spinse a sostenere: «Comunismo puro e semplice, ecco cosa si nasconde dietro a questa legge! Nei suoi sogni più folli il socialismo non è mai giunto fino a questo» (citaz. in Schlesinger, L’età di Roosevelt, III, Bologna, Il Mulino, 1965, p. 344). Sulle politiche del lavoro del new deal possono leggersi opere ormai classiche: Bernstein, The new deal collective bargaining policy, Berkeley & Los Angeles, University of California Press, 1950, sp. p. 29 ss, 84 ss; Derber & Young (a cura di), Labor and the new deal, Madison, University of Wisconsin Press, 1957.
[150] In questo senso Vaudagna, Corporativismo, cit., p. 207; Zamagni, op. cit., p. 535.
[151] Cfr. Dobb, op. ult. cit., p. 362 ed anche Hetherington, Le fonctionnement du système des conseils d’industrie en Grande Bretagne, in «Rev. internat. travail», 1938, vol. XXXVIII, p. 517.
[152] Secondo lo schema lucidamente delineato dagli Webb già all’inizio del secolo (v. retro par. 2). La pratica del fascismo, in altri termini, era aliena a qualsiasi suggestione keynesiana di «rigidità verso il basso dei salari». Lo stesso Keynes, del resto, escludeva l’applicabilità della propria ricetta a paesi con struttura politica autoritaria come l’Italia, la Germania, l’Unione Sovietica: si v. sul punto Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, Torino, UTET, 1947, p. 237.
[153] Gli assegni familiari furono introdotti contrattualmente nel ’34 e poi generalizzati, e aumentati nel loro importo, da successivi provvedimenti legislativi. Essi, comunque, servirono ad attenuare soltanto le conseguenze del diminuito potere d’acquisto dei salari.
[154] Foa, op. cit., p. 122. La tesi del riformismo capovolto si ritrova anche nel più volte citato saggio di Vardaro.
[155] In seno alla III sottocommissione (seduta di giovedì 12 settembre 1946, in La costituzione della repubblica, vol. Vili, Camera dei deputati, Segretariato generale, Roma, 1971, p. 2099 ss.) Di Vittorio si oppose a una proposta di Fanfani in tema di fissazione del salario minimo: ma il contrasto fra i due era più apparente che reale, giacché Fanfani non intendeva affatto affidare tale compito alla legge, ma puntava piuttosto a una normativa sul contenuto inderogabile dei contratti collettivi. Per una ricostruzione del dibattito in proposito si v. Pera, La giusta retribuzione dell’art. 36 della costituzione, in «Dir. lav.», 1953, I, p. 112; Simoncini, Studi sulla retribuzione, Roma, Edizioni U.I.L., 1959, p. 32 ss.
[156] Le citazioni sono tratte dall’intervento dell’on. Bibolotti, in Atti della Assemblea costituente, vol. IV, seduta antimeridiana di sabato 10 maggio 1947, p. 3803 s. Fallito l’obiettivo in sede costituente, è degno di nota che la corrente comunista lo riproponga, in qualche modo, al congresso di Firenze della CGIL (giugno 1947), prospettando fra gli obiettivi immediati della politica salariale del sindacato la fissazione del minimo nazionale inderogabile di salario, che serva da base alle maggiorazioni per le varie categorie, qualifiche e specializzazioni: anche se in questo caso lo strumento di realizzazione sarebbe la contrattazione, è evidente l’affinità di ispirazione con l’emendamento Bibolotti-Bitossi. Sul punto cfr. Tobagi, La fondazione della politica salariale della CGIL, in Problemi del movimento sindacale in Italia, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 437.
[157] Cfr. Atti, cit., p. 3809.
[158] Lo stesso Gronchi, infatti, dichiara: «Trovo che se si tratta di stabilire una linea di principio, il primo comma è sufficientemente largo... perché dice: “...una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso adeguata alle necessità di un’esistenza libera e dignitosa”» (in Atti, cit., p. 3809).
[159] Contraddizione, del resto, percepita dagli stessi democristiani che, proprio per questo, finiranno con l’astenersi nella votazione dell’emendamento delle sinistre: «Preferiamo astenerci, perché noi non possiamo votare contro un concetto che è anche nostro» (in Atti, cit., p. 3809).
[160] V. retro, nota 27.
[161] Mancini, Libertà sindacale e contratto collettivo «erga omnes» (1963), ora in Costituzione e movimento operaio, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 141.