Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
L’orientamento di gran lunga prevalente sembra peraltro quello che assume le tariffe collettive come parametri non vincolanti di determinazione della retribuzione [176]
. Anche in questo caso il criterio di fatto usato è quello di proporzionalità [177]
, tant’è vero che l’adeguamento operato tiene conto, in genere, della qualifica dell’attore e non del salario più basso astrattamente ipotiz
{p. 69}zabile (fissato dal contratto collettivo per i lavoratori della qualifica più bassa). Ma la sottolineatura congiunta dell’altro criterio della sufficienza, anche a prezzo di approssimazioni terminologiche e concettuali [178]
, risulta funzionale a uno scostamento (di poco o di tanto) dai valori sindacali, accentuando il carattere soggettivistico della decisione caso per caso.
Va detto subito che la logica di quest’ultimo filone giurisprudenziale sembra, in sé, difficilmente censurabile. Se è vero infatti che l’attuazione della norma costituzionale mediante contratto collettivo con efficacia erga omnes o legislazione sui minimi avrebbe sicuramente comportato l’utilizzo di parametri standardizzati e «necessariamente generali», da ciò pare discutibile fare discendere senz’altro la conseguenza che «non deve essere diversamente una volta acquisita la decisione di attuarla in modo anomalo, tramite l’intervento giudiziario». Fatto è che quella «decisione» non è stata acquisita, almeno nel senso in cui è possibile dare all’espressione un significato giuridicamente rilevante. Essa costituisce un mero elemento di fatto del nostro sistema di rapporti di lavoro, storicamente nulla più che un rimedio-tampone, come tale parziale e deviante. Che tale attuazione del principio del salario minimo sia stata anomala è incontestabile: ma ciò non implica, di per sé, che il comportamento della giurisprudenza avrebbe dovuto essere diverso, anche se, così operando, si è finito con l’aggiungere «anomalia ad anomalia» [179]
. Semmai costituisce indice ulteriore della necessità di sperimentare altre soluzioni, costituzionalmente più corrette. In assenza, in altre parole, di una legislazione sui minimi, come pure di un obbligo, legislativamente sancito, di applicazione delle tariffe collettive, la decisione del giudice risultava, normativamente, (quasi) priva di vincoli [180]
.{p. 70}
Quanto detto non vuole sminuire, ma anzi semmai convali{p. 71}da la valutazione critica della soluzione giurisprudenziale al problema posto dall’art. 36, una soluzione che «non rispecchia né le esigenze di certezza del diritto e dei rapporti economici, né quelle di un’economia di massa, dove il salario tende, nelle sue grandi linee, verso valori standard» [181]
. Inadeguate, del resto, appaiono anche quelle decisioni che operano un rinvio recettizio ai risultati della contrattazione: anche in questo caso la funzione giudiziale di supplenza resta tipicamente circoscritta al caso concreto, offrendo un rimedio di carattere individuale a fronte di un problema che, in qualsiasi ordinamento, è sempre stato pensato nella sua dimensione collettiva [182]
.

6. Una proposta dimenticata: il disegno di legge 895/1954. La legge Vigorelli

Anche per rispondere alle «esigenze di una uniforme applicazione della giustizia» e fornire «un validissimo strumento al magistrato» [183]
, i parlamentari della CGIL presentarono, nel maggio del ’54, un disegno di legge mirante ad introdurre nell’ordinamento un minimo legale di salario di applicazione generalizzata. La proposta si presentava esplicitamente come «il primo passo per la concreta attuazione dell’art 36 della Carta costituzionale» [184]
, nel contesto di una situazione salariale estremamente depressa, sia per i bassi salari prevalenti nella contrattazione collettiva sia, ancor più, {p. 72}per le massicce evasioni contrattuali [185]
. Firmato, fra gli altri, da Giuseppe Di Vittorio, Fernando Santi, Vittorio Foa (come dire: lo stato maggiore della confederazione) il d.d.l. 895 s’ispirava al modello dello smig, operante in Francia già da qualche anno [186]
, proponendo un salario minimo legale nella misura di 100 lire per ora e 800 lire al giorno, per otto ore di lavoro, indistintamente per tutti i lavoratori occupati nell’industria, nel commercio e nell’artigianato, a prescindere dal sesso e dall’età [187]
. Al salario minimo così determinato si sarebbero applicate le sole variazioni in aumento derivanti dall’operare della scala mobile [188]
.{p. 73}
La proposta non ebbe la minima rispondenza nella maggioranza parlamentare. Per la verità l’eco da essa suscitata fu, in generale, debolissima [189]
, al punto da farne sfumare rapidamente persino il ricordo. Eppure, affermare che la sua mancata approvazione dimostri l’inadeguatezza della legge in materia di minimi retributivi [190]
non si può, senza incorrere in un’evidente tautologia. La mancata approvazione dimostra soltanto che non esistevano allora le condizioni perché un intervento del genere avesse successo. Le scelte di politica economica prevalse dopo la stabilizzazione del ’47 non contemplavano, infatti, alcuna ipotesi di sostegno alla dinamica salariale. Le carte della ricostruzione furono giuocate essenzialmente in funzione della domanda esterna: il che significò per un verso appoggio allo sviluppo dell’industria d’esportazione, per altro verso, coerentemente, compressione dei consumi popolari all’interno attraverso una politica di bassi salari e il mantenimento di un saggio elevato di disoccupazione. Il sostegno all’industria, nello schema che Giuliano Amato ha efficacemente descritto come esempio di «protezionismo liberale», venne concesso senza porre condizionamenti di sorta, relegando all’esterno la necessaria mediazione con gli interessi altri [191]
. In particolare l’ausilio finanziario alle imprese medio-piccole, quelle che, verosimilmente, avrebbero potuto essere colpite da una legislazione sui mi
{p. 74}nimi [192]
, non comportò l’imposizione di alcun tipo di vincolo: la gestione del credito agevolato si consolidò «con i caratteri che la prima ricostruzione gli aveva assegnato e che scaricavano fuori ogni problema diverso dalla capacità delle imprese di produrre e di esportare» [193]
.
Note
[176] Cfr. le decisioni citate da M.L. De Cristofaro, op. ult. cit., p. 135 ss. e, più recentemente, Cass., 27 aprile 1978, n. 1986 in «Rep. Foro it.», 1978, voce Lavoro (rapporto di) n. 858, Cass., 5 novembre 1979, n. 5719, in «Giur. it.», 1980, I, 1, c. 847, Trib. Lodi, 27 giugno 1980, in «Orient. giur. lav.», 1980, p. 759.
[177] Esatti rilievi in proposito in Pera, La determinazione della retribuzione giusta e sufficiente ad opera del giudice, in «Mass. giur. lav.», 1961, p. 421, Balzarini, Retribuzione sufficiente, retribuzione giusta e salano minimo legale, in «Riv. dir. internaz. e comp. lav.», 1974, p. 237.
[178] Un esempio di confusione fra i due principi stabiliti dall’art. 36 si può rinvenire, fra i tanti, in Cass., 21 febbraio 1952, n. 461 (in «Dir. lav.», 1952, II, p. 281), per altro verso una decisione pregevole, essendo stata fra le prime della Suprema Corte ad aver accolto la tesi della precettività dell’art. 36.
[179] Tutte le citazioni sono da Treu, op. ult. cit., p. 87.
[180] Al riguardo non va neppure trascurato che la norma collettiva, essendo la risultante di un rapporto di forza, non garantisce, di per sé, di rispondere, sempre e comunque, (almeno) alle esigenze fondamentali dell’esistenza. Quest’ultima implicazione, che sarà coerentemente ammessa dalla Corte di Cassazione nei primi anni ’60, si è prestata, com’è noto, ad usi pratici del tutto opposti. Essa è comune sia ad autori che se ne sono serviti per contestare, in funzione palesemente antisindacale, la legittimità del ricorso giudiziale alle tariffe collettive (si v. Cessari, L’invalidità del contratto di lavoro per violazione dell’art. 36 cost., in «Dir. lav.», 1951, II, p. 197 ss.), sia ad autori che vedono nell’art. 36 cost. uno strumento correttivo, al limite, anche della determinazione collettiva del salario, nei casi in cui questo si mostri palesemente insufficiente a soddisfare bisogni vitali (cfr. in questo senso gli scritti di Natoli, citati in nota 164 e, più recentemente, Garofalo, Brevi note sul tema della c.d. acquiescenza del lavoratore e brevissime sull’art. 36 cost., in «Riv. giur. lav.», 1973, II, p. 424). L’ambiguità di fondo del rilievo non vale comunque a privarlo di qualsiasi valore: resta vero, infatti, che (quanto meno) negli anni in cui l’orientamento giurisprudenziale s’andava formando, l’esiguità dei salari contrattuali, in molti settori e/o zone del paese, costituiva una realtà non trascurabile, e lamentata dagli stessi sindacalisti, della contrattazione collettiva. Si vedano, in proposito, le affermazioni contenute nella relazione al d.d.l. «Fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori», presentato alla camera dei deputati il 14 maggio 1954 ad iniziativa degli on. Noce, Di Vittorio, Santi, Foa ed altri (su cui amplius nel paragrafo seguente) in «Riv. dir. lav.», 1954, III, p. 219. Per le forti differenze intersettoriali nella dinamica retributiva cfr. Cova, Movimento economico, occupazione, retribuzioni in Italia dal 1943 al 1955, in Il sindacato nuovo (a cura di Zaninelli), Milano, Franco Angeli, 1981, p. 88. L’indirizzo della Suprema Corte, favorevole a un controllo giudiziale, ex art. 36, delle stesse tariffe collettive è stato inaugurato da Cass., 25 marzo 1960, n. 636, in «Mass. giur. lav.», I960, p. 147, con nota critica di Santoro-Passarelli, Nuove prospettive della giurisprudenza sulla retribuzione sufficiente. Tale orientamento è criticato anche da Riva-Sanseverino, Applicabilità dell’art. 36 alle retribuzioni fissate per contratto collettivo e libertà sindacale, nota a Corte d’appello di Firenze 28 novembre 1962, in «Mass. giur. lav.», 1964, p. 43 e, da ultimo, da Treu, Commento, cit., p. 88, con il rilievo comune che l’intervento giurisprudenziale si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale di libertà sindacale. Ma la fondatezza della riserva appare alquanto dubbia, essendo evidente che i principi costituzionali (nel nostro caso quelli di sufficienza retributiva e di libertà sindacale) vanno applicati in modo tale da renderli reciprocamente contemperabili. La scelta della Suprema Corte è invece condivisa da Pera, con argomentazioni, peraltro, che sono state largamente fraintese. Pera, infatti, (e noi con lui), non ritiene affatto che la norma di cui all’art. 36 implichi un’applicazione caso per caso; ritiene viceversa che, in assenza di parametri di riferimento normativamente obbligatori, tale conseguenza sia logicamente inevitabile nell’applicazione giurisprudenziale di essa. Proprio per superare gli esiti aberranti cui conduce tale giurisprudenza (peraltro storicamente apprezzata: «Dietro le cifre, spesso miserissime, attorno alle quali si è discusso, c’era una realtà umana tale da angustiare ogni persona di civile convincimento») l’autore auspica che al principio costituzionale si dia attuazione con un meccanismo basato sull’estensione erga omnes dei contratti collettivi e/o una legislazione sui minimi salariali: cfr. di Pera op. ult. cit., p. 421 e già La giusta retribuzione, cit., p. 113. L’impostazione di questo autore, in altre parole, si lascia apprezzare per aver guardato, sin dai primi anni ’50, al problema del salario minimo nella sua imprescindibile dimensione collettiva, rifuggendo dalla mera, e schematica, contrapposizione fra precettività e programmaticità dell’art. 36 cost. Più in generale sembra opportuno sottolineare come non sia possibile una contrapposizione manichea fra sostenitori della programmaticità e della precettività dell’art. 36, accreditando tout court a questi ultimi una posizione progressista. La lettura «precettivista» di Cessari, ad esempio, è tutta volta a risolvere il problema del salario minimo sul piano individuale e preoccupata di scongiurare il ricorso giudiziale alle tariffe collettive anche come semplice punto di riferimento. A parere di questo autore (di cui si v. lo scritto citato in nota 178) il riferimento nella norma costituzionale alla «quantità e qualità del lavoro» sarebbe tale da escludere non solo la possibilità di una legislazione sui minimi ma, al limite, la legittimità di una fissazione standardizzata dei salari qual è quella operata dai contratti collettivi. Affermazione questa nella quale è evidente «la completa teorizzazione di quell’assurdo che si vorrebbe leggere tra le righe della costituzione, attribuendo alla stessa una ben triste originalità» (così Pera, op. ult. cit., p. 111).
[181] Così Giugni, Prefazione a M.L. De Cristofaro, op. ult. cit., p. 11.
[182] Così, esattamente, Pera, opere cit.
[183] Le citaz. sono tratte dalla relazione al d.d.l. citato in nota 178, rispettivamente p. 221 e 237.
[184] Ivi p. 219.
[185] Nel testo l’espressione evasioni contrattuali è usata in senso atecnico, intendendosi riferire sia alla disapplicazione del contratto collettivo da pane degli imprenditori ad esso vincolati, sia all’esistenza di un’ampia fascia di imprese non tenute all’osservanza dei contratti perché non iscritte alle associazioni firmatarie. La consistenza del fenomeno venne documentata negli atti dell’Inchiesta sulle condizioni dei lavoratori in fabbrica (1955), ripubblicati ora da Einaudi, Torino, 1976 (a cura di Addario). In generale sul fenomeno si v. la bella inchiesta di Pavolini e Spriano, Il salario in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1957, p. 123 ss; Giugni, La validità erga omnes, cit., p. 74 ss; da ultimo Cova, op. ult. cit., p. 90. La pratica dell’evasione contrattuale e del sottosalario presentava in alcuni settori e in alcune zone, soprattutto del mezzogiorno, aspetti assolutamente patologici, quali, ad esempio, la corresponsione al lavoratore del solo importo degli assegni familiari. A fronte di consimili aberranti, e notorie, situazioni fa specie che un direttore generale del ministero del lavoro (Purpura, La regolamentazione interazionale dei salari, in «Prev. soc.», 1955, p. 47 ss.) potesse affermare che la stragrande maggioranza dei lavoratori era coperta da contratti collettivi generalmente rispettati (p. 52), dimostrando, se non altro, colpevole ignoranza della fenomenologia di rapporti sociali alla cui cura avrebbe dovuto essere istituzionalmente preposto.
[186] Introdotto nel 1950 lo smig era di applicazione tendenzialmente generale, escludendosene soltanto alcune categorie particolari di lavoratori, quali portieri e domestici, e gli operai agricoli, per i quali era prevista una normativa specifica (c.d. SM AG). La legge del ’50 non disponeva differenziazioni dello smig in base al sesso, ma soltanto per età (il salario minimo si percepiva integralmente soltanto a partire dai 18 anni) e per zone geografiche. Nel 1952 (e poi ancora nel ’57) la disciplina venne modificata, con l’introduzione di un sistema di scala mobile, per collegarla più strettamente all’aumento del costo della vita: sul sistema francese cfr. per tutti Lyon-Caen, op. cit., p. 22 ss; e, da noi, Comito, La retribuzione minima legale nei diritti stranieri e nel diritto interazionale, in «Dir. lav.», 1964, I, p. 152 ss.
[187] Il d.d.l. prevedeva l’esclusione dallo smig dei soli apprendisti, comminava sanzioni penali pecuniarie agli imprenditori inadempienti e disponeva la riassunzione al lavoro dei «lavoratori eventualmente licenziati dall’imprenditore per sottrarsi all’applicazione della legge».
[188] La relazione al d.d.l. escludeva esplicitamente che potesse operare nei confronti dello smig il funzionamento «in discesa» della scala mobile, giacché «infatti l’applicazione delle eventuali variazioni in meno intaccherebbe quel minimo salariale che la proposta di legge stessa garantisce indistintamente, e in ogni caso, a tutti i lavoratori» (p. 237).
[189] Neanche un rigo, ad esempio, le è dedicato nelle due monografie scritte proprio in quegli anni sul tema della retribuzione: Cassi, La retribuzione nel contratto di lavoro, Milano, Giuffré, 1954, e Guidotti, La retribuzione nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffré, 1956; solo un cenno in Barassi, Il diritto del lavoro, III, Milano, Giuffré, 1957, p. 114.
[190] Così, invece, Pinto, Il ruolo dello Stato nella regolamentazione del lavoro in Italia, in «Riv. dir. lav.», 1958, I, p. 156. L’unico autore che sembra avere dedicato al d.d.l. 895 un’analisi diffusa è Simoncini, Studi, cit., p. 27 ss, peraltro con argomentazioni critiche in pane infondate (il salario minimo legale sarebbe un provvedimento meramente congiunturale, tesi facilmente contestabile alla luce dell’esperienza inglese e americana), in parte di taglio tradizionale (l’adozione di un salario minimo legale scoraggerebbe l’azione sindacale).
[191] Cfr. Amato, Introduzione a Il governo dell’industria in Italia, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 16. Si v. anche a p. 25 ss. la tipologia degli strumenti utilizzati in funzione compensativa del sostegno senza condizioni accordato all’industria (cantieri IRI, piano-casa Fanfani ecc.).
[192] La spaccatura del mercato del lavoro in due settori, l’uno coperto dalla protezione legale e sindacale, tipico della grande impresa, l’altro, con tutele fortemente attenuate e salari mediamente assai più bassi, è fatta ben presto oggetto di tentativi di interpretazione: assai noto lo schema analitico di Vera Lutz, secondo cui sarebbe la capacità di pressione abnorme di cui danno prova i sindacati nelle imprese maggiori ad indurre la segmentazione del mercato del lavoro. In proposito si v., anche per un inquadramento critico della problematica, Graziani, L’economia italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 53 ss.
[193] Amato, op. cit., p. 23.