I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
La costruzione propagandistica del regime si basava non soltanto sull’esistenza di un sistema di contratti collettivi dotati di efficacia generale per gli appartenenti a ciascuna categoria (ivi compresi i lavoratori a domicilio), ma anche sulla presunta completezza dell’ordinamento sindacale corporativo
[98]
. Quest’ultima affermazione, in realtà, non rispondeva al vero nel momento in cui veniva formulata
[99]
e non troverà pieno riscontro neanche dopo: categorie liminari di prestatori d’opera resteranno prive di contratto collettivo sino alla fine dell’esperienza corporativa
[100]
. L’effettività della soluzione fascista al problema del salario minimo va poi riguardata nel contesto della sistematica prassi padronale di violazione dei contratti collettivi, prassi denunziata dagli stessi sindacati fascisti e contro la quale fu nulla l’azione della Magistratura del lavoro
[101]
. Questa, com’è noto, costituiva il corolla{p. 48}rio istituzionale logicamente indispensabile di un ordinamento sindacale che reprimeva penalmente qualsiasi forma di autotutela collettiva, ed era stata istituita per risolvere tanto le controversie collettive relative alla stipulazione di nuove condizioni di lavoro, in caso di mancato accordo delle parti, quanto quelle relative all’interpretazione e all’applicazione dei patti esistenti. L’attività della Magistratura del lavoro, in realtà, rimase sempre assai contenuta
[102]
e, in particolare, del tutto assente sul piano della repressione delle violazioni contrattuali
[103]
. A favorire quest’esito contribuì, per la sua parte, la riflessione giuridica sui contenuti della legge 3 aprile 1926, n. 563. La dottrina, infatti, fu pronta a negare la configurabilità giuridica di controversie in tema di applicazione del contratto collettivo, nell’assunto che il momento collettivo riguarda soltanto la formazione del contratto, mentre l’eventuale violazione è problema che resta confinato nella sfera individuale. Oscillando poi fra l’interpretazione più «liberale» che ammetteva la possibilità per il sindacato di promuovere azioni di mero accertamento, e quella che, più recisamente, escludeva che «il sindacato possa agire o che contro il sindacato si possa agire per la risoluzione di una questione teorica sorta tra di loro a proposito dell’interpretazione di una norma contenuta nel contratto»
[104]
.
¶{p. 49}
L’altro pilastro su cui reggeva l’affermazione di superiorità del «salario corporativo», rispetto all’obbiettivo del salario minimo legale indicato dalla convenzione ginevrina, era offerto dall’interpretazione della dichiarazione XII della Carta del lavoro
[105]
. Della dichiarazione XII, in realtà, soltanto la seconda parte si esprimeva in termini inequivoci, negando la possibilità di affidare la determinazione del salario «a qualsiasi norma generale»
[106]
: era il rifiuto netto del salario minimo legale, inserito nella Carta su esplicita pressione degli imprenditori
[107]
. Quanto ai criteri di determinazione del salario («esigenze normali di vita», «possibilità della produzione», «rendimento del lavoro») non si usciva dal vago: le espressioni usate erano generiche, destituite di reale valore normativo, come tali suscettibili di interpretazioni (e di usi pratici) polivalenti
[108]
. Nel periodo in cui il fascismo doveva misurarsi col ¶{p. 50}problema della ratifica della convenzione sui salari minimi, l’interpretazione dominante, fra i giuristi e gli economisti, fu nel senso di amplificare la portata del «salario corporativo»
[109]
. Si affermava, innanzitutto, l’esistenza di una gerarchia fra i tre criteri indicati dalla Carta, con prevalenza di quello relativo alle «esigenze di vita». Quest’ultime, peraltro, andavano intese non con riferimento alla pura e semplice sussistenza fisica, ma in senso estensivo, grazie all’operare concorrente degli altri due criteri che, nella normalità dei casi, avrebbe contribuito ad elevare il tasso dei salari
[110]
. Soltanto nei periodi di crisi avrebbe potuto prevalere un’applicazione ristretta del concetto di «esigenze normali di vita», limitata a rispondere ai più immediati bisogni; fermo restando che tali difficoltà congiunturali avrebbero dovuto «in genere, esser affrontate e superate riducendo preferibilmente gli altri elementi del costo di produzione, senza alterare i salari...», giacché gli eventuali sacrifici «...si dovranno chiedere prima all’imprenditore ed al capitalista che al prenditore di lavoro... Una diminuzione dei salari — fatto salvo il minimo indispensabile — appare accettabile solo qualora non risulti possibile ridurre in altro modo i costi»
[111]
.
L’interpretazione prevalente della dichiarazione XII della Carta del lavoro era coerente alla dottrina salariale di Alfredo Rocco, espressa già in modo compiuto nella celebre prolusione padovana del 1920
[112]
. In polemica col liberismo economico, Rocco nega¶{p. 51}va l’operatività della legge della domanda e dell’offerta nella determinazione dei livelli salariali e muoveva verso una concezione di «giusto salario» che sarebbe stato compito di un organo giurisdizionale, dotato di assoluta indipendenza rispetto ai poteri legislativo ed esecutivo, fissare
[113]
. Nell’epoca in cui venne formulata la teoria rocchiana del salario aveva il pregio di costituire un tassello di una concezione compatta del fenomento sindacale, per la quale si è giustamente parlato di modernità reazionaria
[114]
: una visione che negava la legittimità dell’autotutela di classe, e perciò prevedeva una magistratura del lavoro per la risoluzione dei conflitti collettivi, ma non contestava affatto la dimensione sindacale. I sindacati (operai e padronali) anzi, opportunamente depurati dei connotati classisti che li avevano sino allora caratterizzati, avrebbero potuto utilmente essere inglobati nello Stato, riuniti in organismi misti a struttura corporativa, in funzione di disciplina e controllo delle masse
[115]
. Già alla fine degli anni ’20 la concezione rocchiana era, però, ridotta a pura declamazione ideologica
[116]
: come tutte le costruzioni prive di riscontro nella realtà dei fatti, anche quella di Rocco acquistava, nella riproposizione dei suoi epigoni, un sapore caricaturale, a fronte dell’utilizzo, consolidato, del contratto collettivo come strumento di riduzioni salariali ¶{p. 52}generalizzate. Queste — si è visto — venivano presentate come assolutamente eccezionali, quando, già a partire dal 1927, costituivano prassi costante del sindacalismo fascista. A partire dal ’27, quindi prima che la grande crisi imponesse riduzioni dei salari nominali anche altrove: come dire che nella depressione salariale che colpì i lavoratori italiani giocarono «componenti specificamente fasciste»
[117]
, legate alla svolta deflativa, preannunciata, l’anno prima, dal discorso di Pesaro
[118]
. Le decurtazioni salariali operarono in tre ondate successive (nel ’27, nel ’30, nel ’34): nonostante dai più ingenui (o più ipocriti) si continuasse a parlare di «libero gioco della volontà contrattuale dei sindacati», di «liberi accordi contrattuali»
[119]
, non v’è dubbio ch’esse furono imposte dall’autorità politica. Quest’ultima, peraltro, all’indomani delle riduzioni del ’27, non si faceva scrupolo di affermare che «l’azione economica delle associazioni professionali... non si è svolta, e non lo doveva, in piena libertà di iniziativa da parte loro. Il governo è intervenuto per dare una direttiva e una disciplina uniforme»
[120]
. La dottrina più sensibile all’esigenza di razionalizzare giuridicamente i comportamenti del regime fu pronta, dal canto suo, a respingere il sospetto che la politica sindacale governativa si muovesse in una sorta di «zona franca» dal diritto. Appellandosi alla dichiarazione IV della Carta del lavoro, a mente della quale nel contratto collettivo doveva trovare «la sua espressione concreta la solidarietà fra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione», non fu difficile sostenere che «la convenzione di lavoro (fosse) così richiamata alla sua funzione politica e (venisse) autorizzato il controllo dei poteri pubblici sul merito di essa»
[121]
.
Le statistiche ufficiali dell’epoca denunciano una sostanziale stazionarietà nel potere di acquisto dei salari: ma, anche a volerle ¶{p. 53}prendere per buone, si deve tener conto ch’esse erano costruite essenzialmente sui dati relativi alle riduzioni decise a livello centrale. Queste però costituivano soltanto una «sorta di soglia minima»
[122]
, cui si aggiungevano ulteriori decurtazioni concordate a livello periferico. Sul livello reale dei salari pesava, poi, la prassi diffusa di violazioni dei minimi contrattuali, di cui si è detto. Nel complesso non sembra esagerato ritenere che il salario reale medio (nel periodo 1927-1932) sia diminuito di una percentuale oscillante fra il 10% e il 15%
[123]
.
L’attività della Magistratura del lavoro nella composizione dei conflitti collettivi fu sempre assai limitata. Nei pochi casi in cui fu chiamata a risolvere controversie per la fissazione di nuove condizioni di lavoro anch’essa, peraltro, agì come strumento della politica economica del regime. Sulla stampa dell’epoca grande rilievo fu dato, in particolare, a due sentenze pronunciate nel 1931 rispettivamente dalle corti di appello di Roma e di Venezia. Le due sentenze, che si rifacevano alla dichiarazione XII della Carta del lavoro, vennero accomunate in un giudizio entusiasticamente positivo
[124]
: in realtà esse affermavano principi alquanto diversi. Nel vasto arsenale normativo dell’ordinamento corporativo la magistratura del lavoro romana mostrava nettamente di preferire, alla dubbia giuridicità delle disposizioni della Carta
[125]
, quella, chiarissima, dell’art. 16 della legge «sindacale», che le imponeva di giudicare, nei conflitti economici, «più di tutto in relazione alle
¶{p. 54}necessità dettate dall’interesse superiore della produzione»
[126]
: da ciò deduceva l’equità di una riduzione salariale del 24% sulle tariffe in vigore per le lavoratrici addette alla monda del riso, ch’erano già state ridotte contrattualmente appena sei mesi prima. La corte veneziana, al contrario, tributa un omaggio formale al criterio della sufficienza del salario alle «esigenze normali di vita»: ma il risultato pratico non è granché diverso, approdando anche in questo caso ad una congrua riduzione salariale. Davvero non si può dar torto a quel procuratore generale della Cassazione che ebbe a ricordare queste sentenze come un «documento di saggezza giuridica e di comprensione politica»
[127]
.
Note
[98] Quest’ultima è una tesi comunemente affermata. Per tutti si v. Sabatini, op. cit., p. 9.
[99] Si veda infatti l’ammissione contenuta nella stessa relazione Asquini (p. 478): «11 solo problema che può esistere per noi è quello di completare l’attuazione di fatto dell’ordinamento corporativo, promuovendo la stipulazione dei contratti collettivi per quelle categorie di lavoro, che ancora non l’hanno».
[100] Sul punto l’affermazione, anche se di passata, è in Barassi, Diritto corporativo e diritto del lavoro, II, Milano, Giuffrè, 1942, p. 115.
[101] Sulle violazioni dei contratti collettivi si v. innanzi tutto la classica opera di Rosenstock-Franck, L’économie corporative fasciste en doctrine et en fait, Parigi, J. Gamber, 1934, p. 124 ss; cfr. anche Aquarone, op. cit., p. 134, Jocteau, La magistratura e i conflitti di lavoro durante il fascismo (1926/34), Milano, Feltrinelli, 1978, p. 43 (quest’ultimo, peraltro, largamente ispirato dallo studio del Rosenstock-Franck).
[102] In effetti la stessa esistenza di un organismo per la risoluzione dei conflitti di lavoro finiva per apparire come un elemento incongruo in un contesto ideologico che negava la sussistenza di qualsiasi contrapposizione di classe: anche per questo la Magistratura del lavoro fu considerata con crescente disfavore e progressivamente emarginata dalle istituzioni reali del regime: sul punto si v. Jocteau, op. cit., p. 53 ss.
[103] Delle 41 controversie collettive trattate dalla Magistratura del lavoro nel decennio 1927-1937, 22 furono conciliate in udienza e 3 abbandonate dalle parti. Delle 16 decise con sentenza 9 riguardavano la definizione di nuove condizioni di lavoro, 7 l’interpretazione di disposizioni esistenti. I dati sono riportati in una pubblicazione ufficiale dei sindacati: Solmi, La Magistratura del lavoro, in Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, I 10 anni della Carta del lavoro, s.l., 1937, p. 169. Le vertenze collettive più significative risolte in sede giudiziaria sono descritte in Rosenstock-Franck, op. cit., p. 186 ss, Jocteau, op. cit., p. 70 ss.
[104] Carnelutti, Lezioni di diritto industriale. Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, Cedam, 1928, p. 178. Carnelutti negava la sussistenza di vere e proprie controversie collettive giuridiche: l’azione del sindacato, alla stregua dei principi della sostituzione processuale, poteva essere ammessa soltanto quando, nel caso concreto, si fosse già «accesa una lite almeno tra un imprenditore e un lavoratore» (ivi). Conseguentemente ne derivava l’inammissibilità di azioni collettive in senso stretto per l’interpretazione dei contratti. L’interpretazione «liberale» era sostenuta, fra gli altri, da Pergolesi, La Magistratura del lavoro, Roma, Ediz. del diritto del lavoro, 1928, p. 45 ss.: ivi anche una secca polemica con le tesi di Carnelutti (p. 57 ss.). Ma era una polemica costruita sulla sabbia, giacché anche per Pergolesi la sentenza collettiva di accertamento non comportava alcuna pronuncia di condanna.
[105] Si prescinde, in questa sede, dall’entrare nel merito della valutazione, fonte di ampi dibattiti durante il fascismo, della rilevanza giuridica dei principi contenuti nella Carta del lavoro: in tema si v. Romagnoli, op. ult. cit., p. 197 ss. Limitandoci alla norma che più riguarda il nostro tema, basti qui ricordare come Dario Guidi, all’indomani dell’emanazione della Carta, sostenesse l’opportunità di una traduzione legislativa del principio contenuto nella dichiarazione XII (L’insufficienza dello stipendio e la dichiarazione XII della Carta del lavoro, in «Dir. lav.», 1927, p. 424), ma già qualche mese dopo avesse cambiato parere, affermando che se la Carta del lavoro non era ancora legge, era già qualcosa di più: essa infatti conteneva i principi generali del diritto del lavoro e i principi equitativi da applicare nella soluzione dei conflitti di lavoro: Prime applicazioni giudiziali della Carta del lavoro, in «Dir. lav.», 1927, p. 591 ss.
[106] La dichiarazione XII così recitava: «L’azione del sindacato, l’opera conciliativa degli organi corporativi e la sentenza della magistratura del lavoro garantiscono la corrispondenza del salario alle esigenze normali di vita, alle possibilità della produzione e al rendimento del lavoro. La determinazione del salario è sottratta a qualsiasi norma generale e affidata all’accordo delle parti nei contratti collettivi».
[108] Non a caso un acuto osservatore straniero come il Rosenstock-Franck non poteva trattenersi dal commentare: «Questa definizione (del salario) è considerata, con nostro grande stupore, dalla dottrina attuale come una delle più audaci dell’economia fascista. Per pane nostra noi la consideriamo come priva di valore scientifico»: op. cit., p. 68.
[109] Per la dottrina giuridica si v. per tutti il noto, e apologetico, scritto di Riva Sanseverino, Salario minimo, cit., spec. p. 82 ss; le tesi dell’autrice, peraltro, riprendono esplicitamente idee già sostenute da Gino Arias, uno dei massimi ideologhi del regime, in numerosi saggi: si v. soprattutto Il salario corporativo, Modena, Pubblicazioni dell’università, 1929, p.8 ss, Economia nazionale corporativa. Commento alla Carta del lavoro, Roma, Libreria del Littorio, 1929. Quest’ultima opera è aspramente criticata dal Rosenstock-Franck, op. cit., p. 116 ss.
[110] «Il salario corporativo non viene dunque meramente a coincidere col salario minimo, ma lo realizza superandolo, per l’intervento di altri elementi insopprimibili i quali non possono che portarlo ad un livello più alto di quello corrispondente al puro indispensabile all’esistenza, cui in genere si limita nella legislazione estera»: RivaSanseverino, op. cit., p. 91.
[111] Ivi, pp. 87-88.
[112] Rocco, Crisi dello stato e sindacati, in «Politica», dicembre 1920, p. 1 ss.
[113] Sulla dottrina salariale di Rocco si veda Aquarone, op. cit., p. 133, Resenstock-Franck, op. cit., p. 20 (che sottolinea la probabile influenza del cristianesimo sociale sul nazionalismo rocchiano e, poi, sui contenuti della Carta del lavoro), Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia, Morcelliana, 1963, p. 94. La polemica col liberismo economico, sulla scorta del pensiero di Rocco, è comune nei giuscorporativisti: si v. ad es. Costamagna, op. cit., p. 4, Riva-Sanseverino, op. cit., p. 40 ss. All’idea di «salario equo» fa appello anche la relazione Asquini, cit., p. 477.
[114] Si vedano in proposito le pregevoli pagine di Vardaro, op. cit., p. 437 ss; e anche Ungari, op. cit., p. 28.
[115] Com’è noto la prolusione padovana era stata per Rocco l’occasione per una risposta polemica alle tesi di Ranchetti (I sindacati e lo Stato, in «Politica», luglio 1920), che esprimevano l’esigenza di una risposta puramente e semplicemente repressiva a fronte dei fermenti di disgregazione indotti dall’azione sindacale. Giustamente Ungari commenta come «tra Napoli e Padova, dall’alto di due eminenti cattedre giuridiche, (si svolga) un dialogo sulla politica costituzionale che riassume con plastica evidenza il trapasso dalla vecchia alla nuova strategia istituzionale dell’autoritarismo» (op. cit., p. 50)
[116] Secondo Ungari (op. cit., p. 93) l’abbandono del ministero da parte di Rocco, nel 1932, è da ascrivere anche alla smentita, ormai incontrovertibile, che la realtà della politica economica fascista aveva arrecato alla sua ideologia degli «alti salari».
[117] Foa, op. cit., p. 121.
[118] Sui caratteri della politica economica deflattiva del fascismo si v. per tutti Castronovo, La storia economica, in Storia d’Italia, vol. IV, tomo I, Torino, Einaudi, 1975, p. 267 ss.
[119] La prima espressione è di Sabatini, op. cit., p. 13; la seconda di Cesarini-Sforza, Corso di diritto corporativo, Padova, Cedam, 1931, p. 337.
[120] Bottai, I limiti dell’azione economica delle associazioni professionali, in Esperienza corporativa, cit., p. 67.
[121] Costamagna, op. cit., p. 19.
[122] Così Jocteau, op. cit., p. 61.
[123] Rosenstock-Franck, op. cit., p. 160 (ivi anche una critica alle statistiche ufficiali, sulla base delle contestazioni mosse dagli stessi sindacalisti fascisti). La pubblicistica sulle riduzioni salariali è amplissima: per tutti si v. Vannutelli, op. ult. at., p. 102; Zamagni, La dinamica dei salari nel settore industriale (1921-1939), in «Quad. stor.», 1975, p. 537 ss. Fra coloro che ne scrissero già negli anni ’30 è d’obbligo citare Salvemini, Under the axe of fascism, New York, The Viking Press, 1936 (trad. it. Sotto la scure del fascismo, Torino, De Silva, 1948, p. 200 ss.).
[124] Magistr. lavoro Roma, 18 giugno 1931, in «Dir. lav.», 1932, II, p. 101; Magistr. lavoro Venezia, 24 dicembre 1931, ivi, p. 105 con nota adesiva di Chiarelli, Il salario operaio e la Carta del lavoro, ivi, p. 106. Aquarone, op. cit., p. 135, ricorda i toni esaltati con cui Gino Arias commentò, sulle colonne del «Popolo d’Italia», la sentenza della magistratura romana.
[125] La tepidezza crescente con cui la giurisprudenza mostrava di accogliere i principi della Carta, fu del resto constatata, e stigmatizzata, già in periodo fascista: si v. Mossa, La Carta del lavoro e la giurisprudenza, in «Arch. studi corp.», 1937, p. 7 ss.
[126] Così nella motivazione, in «Dir. lav.», cit., p. 104.
[127] Longhi, nel suo discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, in «Riv. pen.», 1932, p. 16. In altri termini i contratti collettivi corporativi erano sottoposti all’operatività della clausola rebus sic stantibus, espressamente normativizzata dall’art. 71 r.d. 1 luglio 1926, n. 1130, ai sensi del quale la revisione dei contratti prima della scadenza era ammessa in caso di «mutamento notevole dello stato di fatto esistente al momento della stipulazione». Ciò consentiva di rimettere in discussione in qualsiasi momento i livelli salariali contrattualmente definiti, offrendo al padronato uno strumento, puntualmente sfruttato, per ottenere ulteriori decurtazioni salariali e privando i contratti di qualsiasi garanzia di stabilità nel tempo. Vardaro (op. cit., p. 443) sembra interpretare la norma citata in senso opposto, come una «pesante compressione del diritto di revisione da parte dei sindacati contraenti», ma, ci pare, senza portare argomenti convincenti. Per l’interpretazione da noi accolta si v. invece Rosenstock-Franck, op. cit., p. 128, che considera la questione «di capitale importanza», anche se non sempre correttamente sottolineata dagli studiosi del fascismo; e già, prima di lui, Ferrari, Le regime fasciste italien, Parigi, Spes, 1928, p. 267.