I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
Il decentramento produttivo, in ogni caso, costituisce soltanto parte del problema del sottosalario. Si ricordava all’inizio come ad alimentare il tasso di ineffettività della contrattazione contribuiscano, in misura non trascurabile, i mutamenti nella composizione della forza-lavoro, con l’accresciuto peso quantitativo di settori dove l’organizzazione sindacale è tradizionalmente debole. Sussistono poi intere categorie, anch’esse di consistenza non irrilevante, per le quali il contratto collettivo, stipulato da associazioni di infima rappresentatività, costituisce poco più che un pezzo di carta: si pensi ai casi notori degli insegnanti di scuole private e degli addetti a studi professionali
[223]
. A fronte di quest’ordine di problemi potrebbe venire la tentazione di riproporre la questione dell’estensione erga omnes dei contratti collettivi. Suggerimenti in tal senso, infatti, non sono mancati
[224]
: ma è (quanto meno) dubbio che, per questa strada, si possa giungere a qualche risultato. A parte il fatto che la contrattazione con efficacia generale lascerebbe irrisolto il problema per i settori eventualmente privi di tutela sindacale, come pure per quelli con organizzazione così de{p. 83}bole, da non garantire l’ottenimento neanche di livelli minimi accettabili, resta il rilievo assorbente che la prospettiva dell’erga omnes, sia pure da attuare, previa revisione costituzionale, con un meccanismo diverso da quello, sicuramente impraticabile, dell’art. 39, sembra comunque porsi in rotta di collisione con l’assetto della vigente costituzione materiale. La necessità, propria di qualsiasi sistema di contrattazione collettiva ad efficacia generale, di introdurre meccanismi di determinazione del soggetto sindacale, titolare del potere negoziale per ogni singola unità contrattuale
[225]
, appare tuttora contraddittoria col caratteristico assetto sindacale italiano. Ragionare in termini diversi sarebbe, forse, possibile se il processo di unità sindacale, avviato sul finire degli anni ’60, fosse giunto a compimento. Quel processo viceversa, dopo esser rimasto per lungo tempo cristallizzato nella forma della Federazione unitaria, ha manifestato segni preoccupanti di regressione
[226]
. Pur senza voler amplificare la portata delle più recenti tensioni, sembra indubitabile, ancor più dopo la frattura del febbraio ’84, che la regola regina dei rapporti fra le tre centrali sindacali sia destinata a rimanere quella che consacra il principio di «pari dignità» nell’azione contrattuale, quale che sia la composizione formale degli organismi sindacali unitari. La sola eventualità che questo principio non scritto, ma dotato di effettività assai maggiore di qualsiasi ipotizzabile disciplina legislativa della contrattazione, possa essere incrinato come conseguenza necessaria di una normativa sull’erga omnes, è tale da far ritenere del tutto inverosimile che i sindacati possano modificare un atteggiamen
¶{p. 84}to in proposito assolutamente consolidato. In futuro, si ripete, potrà essere la stessa centrale sindacale unificata a richiedere una regolamentazione legislativa dell’ambito di efficacia del contratto, se le circostanze ancora la faranno apparire opportuna; allo stato attuale simile intervento non potrebbe non essere visto come un’indebita interferenza in una sfera di rapporti che storicamente si è assestata, e ha mostrato di voler funzionare, al di fuori di costrizioni normative. L’ipotesi di una legislazione sui minimi salariali, al contrario, non sembra contenere controindicazioni specifiche e presenta il vantaggio ulteriore di non dipendere, per la sua fattibilità, da mutamenti nell’assetto dell’ordinamento sindacale, offrendosi come uno strumento realizzabile in tempi «politici». Salario minimo legale, dunque. Assodatane la praticabilità istituzionale, anche alla luce delle esperienze realizzate negli altri contesti industriali, resta da chiedersi dell’opportunità di simile intervento in un quadro congiunturale caratterizzato da elevati tassi di inflazione e disoccupazione. In realtà è proprio l’emergere di un costante trend inflazionistico, in misura più o meno accentuata, in tutti i paesi industrializzati, a segnalare l’opportunità di un intervento di tutela dei redditi più bassi. Tant’è vero che in nessuno dei paesi dove misure di salvaguardia dei salari minimi sono conosciute da tempo, esse sono state messe in discussione in conseguenza delle tensioni inflazionistiche: semmai, anzi, sono state irrobustite
[227]
. Per altri paesi «che ancora non avevano adottato tali disposizioni, l’accelerazione dell’inflazione è stata l’occasione per farlo»
[228]
. In generale è ovunque diffusa la consapevolezza dell’impraticabilità sociale di una strategia di rientro dall’inflazione, basata anche sulla compressione dei redditi delle categorie meno favorite
[229]
.
L’obiezione relativa all’impatto negativo sui livelli occupazionali dell’eventuale introduzione di un salario minimo legale (o ¶{p. 85}dell’aumento della sua misura) è più tradizionale e sempre è stata avanzata da chi nega la positività di simili interventi
[230]
. Anche in questo caso le esperienze realizzate non legittimano preoccupazioni allarmistiche. Negli Stati Uniti, ad esempio, il salario minimo legale venne introdotto nel contesto della disoccupazione dilagante degli anni ’30; in Francia l’aumento brusco del 35% dell’importo del salario minimo, deciso nel ’68, fu contestato proprio per gli asseriti effetti depressivi dell’occupazione, ma venne poi rapidamente assorbito senza nessuna apprezzabile conseguenza negativa
[231]
. Analisi empiriche del rapporto salario-occupazione hanno valore probante soltanto in riferimento a contesti specifici, e conducono a risultati che sarebbe arbitrario trasporre meccanicamente in diverse situazioni temporali e ambientali. Pur tenendo conto della parzialità dell’indicazione, non si può fare a meno di sottolineare come nel paese dove più sono stati studiati gli effetti economici del salario minimo legale non sia stato possibile dimostrare l’esistenza di un rapporto univoco di causa ad effetto fra l’operare del salario minimo e la caduta dei livelli di occupazione. Questa si è effettivamente verificata in alcune industrie degli Stati Uniti colpite dal Fair Labor Standards Act, ma sembra da attribuire a cause ben più complesse che non la pura e semplice esistenza della norma legale
[232]
. Effetti di disoccupazione frizionale come conseguenza dell’introduzione di un salario minimo legale non possono certamente escludersi a priori. Di essi potrà tenersi opportunamente conto graduando nel tempo l’entrata in vigore della normativa, anche qui secondo indicazioni traibili da ordinamenti stranieri
[233]
, in modo da permettere alle imprese marginali, ma economicamente sane, di attrezzarsi ad affrontare l’aumento dei costi. Minori attenzioni, invece, dovrebbe ¶{p. 86}suscitare l’eventuale espulsione dal mercato di iniziative basate esclusivamente sulla corresponsione di salari irrisori, essendo anzi la soppressione di esse da sempre compresente fra gli obbiettivi delle normative sui minimi, storicamente funzionalizzate anche alla promozione di un più razionale ed equilibrato sviluppo industriale
[234]
.
Diverso ordine di problemi pone chi sostiene che «l’applicazione del salario minimo ai minori ha ridotto le occasioni di lavoro disponibili per loro»
[235]
. Simili affermazioni sono state criticate, sostenendo la loro derivazione dai risultati di analisi econometriche di serie temporali di dati, piuttosto che da specifiche ricerche empiriche
[236]
e sottolineando, anche in questo caso, l’opportunità di conclusioni assai meno categoriche
[237]
. Ad ogni modo, il problema è stato comunemente affrontato prevedendo abbattimenti del salario minimo legale in relazione a diverse fasce di età
[238]
: di tale indicazione si potrebbe tenere utilmente conto anche da noi, affidando poi alla contrattazione collettiva il compito di elevare la misura del salario minimo per i minori, allineandola a quella generale
[239]
.
Complessivamente sembra, quasi ovunque, sempre più diffuso un atteggiamento flessibile nella considerazione del nesso sala¶{p. 87}rio minimo-occupazione. «La fissazione del salario minimo è, per lo più, spesso vista essenzialmente come una questione di bilanciamento fra benefici sociali e costi economici. Benefici nella forma di maggiore eguaglianza salariale per lavori eguali e aumenti di reddito per i poveri sono valutati in maniera immediata a fronte di costi nella forma, per esempio, di accresciuta disoccupazione»
[240]
. Nel contesto italiano, del resto, l’introduzione del salario minimo legale dovrebbe costituire soltanto un pezzo di una più ampia manovra di intervento sul mercato del lavoro. In questo senso è evidente la possibilità di raccordi con le proposte, ormai da lungo tempo sul tappeto, di istituzione di un’agenzia del lavoro
[241]
, il cui funzionamento potrebbe, per un verso, attutire le eventuali conseguenze di disoccupazione frizionale indotte dal salario minimo, permettendone una sperimentazione senza traumi, per altro verso potrebbe trovare in esso un punto di riferimento non arbitrario per la determinazione del trattamento da assicurare ai lavoratori a carico della stessa
[242]
.
Quanto alla forma da attribuirgli nell’ordinamento italiano, è nostra convinzione che il salario minimo legale debba essere determinato a livello nazionale, intercategoriale e presentare il maggior grado di uniformità possibile per l’insieme della forza lavoro. Si è visto che le funzioni attribuibili alla norma minima sono storicamente molteplici: misura di sollievo dei redditi più bassi, strumento di regolazione della concorrenza, ma anche elemento della politica economica governativa. Ora, chi ha avuto la pazienza di seguirci sino in fondo, avrà intuito che proprio a quest’ultima finalità noi attribuiamo particolare importanza. E non v’è dubbio — le esperienze straniere in proposito sono uniformi
[243]
— ch’essa possa essere soddisfatta assai meglio da un salario minimo gene¶{p. 88}rale piuttosto che da una normativa differenziata per settori. Non a caso proprio l’accentuazione delle finalità di politica economica ha determinato, in paesi già influenzati dal modello britannico, una tendenza evolutiva verso un salario minimo nazionale
[244]
. Nello stesso Regno Unito, del resto, i minimi fissati dai vari wage councils inclinano, da tempo, ad oscillare all’interno di una fascia salariale piuttosto ristretta
[245]
; mentre in Francia, dove l’utilizzo dello smig in chiave di politica economica è sempre stato presente, la sottolineatura di questo connotato dell’istituto, operata dalla riforma del 1970
[246]
, ne ha significativamente indotto una più marcata uniformizzazione, con l’abolizione delle differenze zonali e l’allineamento del salario minimo agricolo
[247]
.
¶{p. 89}
Note
[223] Sulle condizioni dei dipendenti da scuole private v. da ultimo Zoppoli, Nota a Pretura di Napoli, 1 febbraio 1980, in «Riv. giur. lav.», 1980, II, p. 1115. Sono notori i casi aberranti, diffusi soprattutto al sud, di giovani insegnanti costretti a prestare attività a titolo gratuito negli istituti privati, pur di acquisire punti utili per essere inseriti nelle graduatorie previste per il conferimento degli incarichi nella scuola statale: è evidente che qui si versa in ipotesi del tutto diverse da quelle ammesse come legittime dalla prevalente dottrina di prestazioni gratuite di lavoro subordinato, su cui cfr., per tutti, Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1968, p. 63 ss.
[224] Cfr. ad es. Antignani, op. cit., p. 297; ed anche Fabris, Nuovi profili dell’autonomia sindacale, in «Riv. dir. lav.», 1980, I, p. 223 ss. La rivisitazione recente più approfondita della problematica relativa all’erga omnes è in Liebman. Rappresentatività del sindacato ed efficacia del contratto collettivo, in «Riv. it. dir. lav.», 1983, I, p. 435 ss.; si v. anche Mariucci, La contrattazione collettiva, Bologna, il Mulino, 1985, p. 454 ss.
[225] Cfr. in proposito la limpida analisi di Mancini, Libertà, cit., p. 139.
[226] Anche in condizioni di pluralismo sindacale — va detto, per completezza — non sarebbe impossibile progettare una qualche forma di estensione erga omnes dei contratti collettivi. Le soluzioni praticate in ordinamenti stranieri non offrono, peraltro, utili punti d’appoggio. Non convince, ad esempio, il modello tedesco, per l’eccessiva discrezionalità ivi assegnata all’autorità governativa. Men che meno potrebbe essere guardato con simpatia dai sindacati quello francese, dove, a seguito della legge 19 gennaio 1978, un contratto collettivo «anche firmato da una organizzazione minoritaria in un settore e contenente clausole non accettate dalle organizzazioni maggioritarie, ...potrà essere esteso»: Lyon-Caen e Camerlynck, Droit du travail, Parigi, Dalloz, 198010, p. 724. Non c’è bisogno di sottolineare le potenzialità divaricanti dell’azione sindacale unitaria di un meccanismo del genere. Su questa problematica, per un’analisi comparata recente, cfr. Aliprantis, La nature et les agents de la négociation collective, in «Rev. int. dr. comp.», 1979, p. 779 ss.
[227] È il caso della Francia, dove nel 1970 il sistema dello smig è stato trasformato in smic (salaire minimum interprofessionnel de croissance), per legare la misura del salario minimo non soltanto all’aumento del costo della vita, ma anche alla dinamica di crescita dell’economia nazionale ed evitare una divaricazione eccessiva con l’andamento dei salari medi: cfr. per tutti Lyon-Caen, Les salaires, Parigi, Dalloz, 19732, p. 5 ss. Più recentemente, nel ’77, un aumento notevole della misura del salario minimo si è avuto anche in Danimarca: cfr. Reynaud. Problemi, cit., p. 22.
[228] Reynaud, op. cit., p. 22, con riferimento ai casi del Belgio e dell’Olanda.
[229] Cfr. ILO, Minimum wage fixing, cit., p. 162.
[230] Si ricorderà, ad esempio, che con simili argomentazioni il partito liberale motivò il suo voto negativo in sede di discussione della legge Vigorelli. Echi di tali preoccupazioni si ritrovano nella requisitoria che Libero Lenti pubblicò contro la legge 741 sulle colonne del Corriere della Sera, ispirata ai «più rigidi parametri dell’economia classica»: così Giugni, La validità, cit., p. 73. La posizione nettamente critica di Luigi Einaudi nei confronti della legge è ricordata da Pera, Il sindacalismo nel pensiero di Luigi Einaudi, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1982, p. 244.
[231] Cfr. Laperrière, Les systemes juridiques de détermination des salaires, Montréal, Les Presses de l’Université, 1974, p. 269.
[232] Cfr., per tutti, O’Herlihy, Measuring minimum wage effects in the United States, (a cura dell’ILO), Ginevra, 1967, e per ulteriori riferimenti, anche bibliografici, ILO, op. cit., p. 47.
[233] Cfr. Laperrière, op. cit., p. 270.
[234] Fra gli obiettivi dello smic francese, ad esempio, la relazione alla legge 2 gennaio 1970 sottolinea espressamente quello di evitare le situazioni economiche malsane dove alcune imprese non sopravvivono che sottopagando il loro personale: cfr. Camerlynck e Lyon-Caen, op. cit., p. 371 ed anche Lyon-Caen, op. ult. cit., p. 9, con un significativo mutamento d’opinione circa gli effetti d’un tasso troppo elevato del salario minimo sulle possibilità di esistenza delle imprese marginali, rispetto alle perplessità espresse nella 1a edizione di Les salaires (p. 40).
[235] Phelps Brown, The inequality of pay, Oxford University Press, 1977, p. 177.
[236] Così Starr, op. cit., p. 183.
[237] 235 Ibidem, con riferimento a una ricerca empirica curata dall’United States Bureau of labor Statistics, Youth unemployment and minimum wages, Washington, Government printing office, 1970, e ai risultati dello studio di Levitan e Belous, More than subsistence: minimum wages for the working poor, Baltimora e Londra, John Hopkins University Press, 1979.
[238] Cfr. Laperrière, op. cit., p. 269; Roccella, Minimum wage-fixing: an historical and comparative perspective, in «Comp. lab. law», 1984, p. 92 s. In argomento si v. anche Solomon, A model youth differential amendment: reducing youth unemployment through a lower minimum wage for the young, in «Harv. jour, legis.», 1982, p. 150 ss.
[239] Dopo la riforma del 1970 le differenze nella misura del salario minimo per fasce di età sono le uniche rimaste nel sistema francese (oltre a quelle per lavoratori di ridotta attitudine fisica), ma esse vengono via via superate dalla contrattazione collettiva: cfr. Lyon-Caen, op. ult. cit., p. 7.
[240] Starr, op. cit., p. 115.
[241] Per i termini del dibattito, con un’analisi delle diverse proposte in campo, cfr. per tutti Dell’Aringa, L’agenzia per la mobilità della manodopera, Milano, Vita e Pensiero, 1981.
[242] Anche in questo caso è utile il riferimento al modello francese, dove, accanto allo smic, il modo di calcolo del vecchio smig è sopravvissuto, sotto il nome di «minimum garanti», per la determinazione della misura di tutta una serie di prestazioni della sicurezza sociale. Cfr. ancora Lyon-Caen, op. ult. cit., p. 11, che, peraltro, in proposito si esprime con accenti fortemente critici, parlando, per questo aspetto, di «riforma ipocrita e ambigua»; più recentemente Courthéoux, Le salaire minimum, étalon de valeur, in «Droit social», 1984, p. 100 ss.
[243] Cfr. ILO, op. cit., p. 80.
[244] Cfr. Starr, op. cit, p. 22, con riferimento soprattutto alle esperienze della Giamaica e dell’India.
[245] Cfr. McCormick e Turner, The legai minimum wage, employers and trade unions: an experiment, in «Manchester school of economic and social studies», vol. XXV, 1957, p. 288. Da tempo, peraltro, il sistema dei consigli salariali è sottoposto a critiche, sostenendosi ch’esso presenta elementi non trascurabili di vischiosità istituzionale. I consigli, in altre parole, avrebbero tendenza a sussistere anche quando le condizioni che ne avevano giustificato la costituzione nel settore specifico siano venute meno. Proprio per questo la più recente riforma dell’istituto, attuata nel 1975, ha previsto la conversione, in circostanze determinate, di un wage council in uno statutory joint industrial council, imitativo delle strutture negoziali private, con abolizione quindi del terzo pubblico, per favorire lo sviluppo della contrattazione diretta fra le parti: cfr. Starr, op. cit., p. 75. Una recente proposta di introduzione nell’ordinamento inglese di un salario minimo legale generale è stata formulata da Pond e Winyard, The case for a national minimum wage, Londra, Low Pay Unit, 1982.
[246] Il funzionamento pratico del nuovo smic, fra l’altro, ha determinato una crescita del salario minimo in misura superiore a quella del salario medio (fra il ’70 e il ‘75 lo smic è aumentato del 131%, mentre il tasso medio dei salari si è elevato solo del 108%: cfr. Courthéoux, Principes, cit., p. 282), provocando un restringimento dei differenziali salariali, almeno all’interno delle qualifiche inferiori, e smentendo le affermazioni troppo rigide di chi aveva sostenuto che le normative legali sui minimi, per questo riguardo, non possano avere conseguenze apprezzabili: in questo senso cfr. Roberts, Mise en question des methodes traditionnelles de détermination des salaires, in Détermination des salaires (a cura dell’Ocde), Parigi, 1974, p. 376.
[247] Queste due misure, invero, furono prese nel ’68 all’indomani degli accordi di Grenelle e, successivamente, inglobate nella riforma dello smic. Nei sistemi di salario minimo generale la tendenza verso l’abolizione di vari tipi di differenziazioni (zonali, settoriali ecc.) è, comunque, dappertutto crescente: cfr. Starr, op. cit., p. 55.