Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
In quello stesso anno maturava in Inghilterra una condizione determinante per lo sviluppo della legislazione sui minimi salariali: la prima rilevante affermazione del Labour Party alle elezioni politiche generali. La svolta, in realtà, si era avuta qualche anno prima. La posizione favorevole all’azione politico-legislativa, ch’era stata uno dei cavalli di battaglia dei sindacalisti socialisti animatori del «nuovo sindacalismo» [46]
, divenne patrimonio comune ai diversi filoni del movimento operaio britannico, spingendoli a collegarsi nel «Labour Representation Committee» (nucleo del futuro partito laburista) [47]
, quando, verso la fine del secolo, una serie compatta di pronunce della Camera dei Lords minacciò seriamente l’effettività dell’azione sindacale. La linea di tendenza culminò nella decisione, resa nel 1901 nel famoso caso Taff Vale, a seguito della quale il sindacato dei ferrovieri fu ritenuto responsabile, e condannato al risarcimento, per i danni inferti da suoi membri nel corso di uno sciopero [48]
. Parlare di svolta a proposito
{p. 34}dei nuovi orientamenti affermatisi nei sindacati sull’onda della sentenza Taff Vale non sembra eccessivo. In effetti, la scelta dell’azione politica «implicava l’accettazione (almeno per il momento presente) delle principali caratteristiche ed istituzioni del sistema salariale, con la coesistenza di una classe proprietaria e di una classe senza proprietà, che era implicita nel sistema; ma nello stesso tempo comprendeva il tentativo di estendere l’intervento dello Stato nel mercato del lavoro al duplice scopo di conferire il riconoscimento legale ai sindacati, in quanto istituzioni riconosciute di un sistema salariale, e di elevare il livello di vita dei salariati attraverso la legislazione sul salario minimo» [49]
. Il primo obbiettivo fu acquisito immediatamente dopo le elezioni del 1906: il nuovo governo liberale, infatti, provvide subito ad emanare il Trade Disputes Act col quale venne sconfessata la giurisprudenza della Camera dei Lords [50]
. Sul secondo si ottenne un primo, parziale ma non trascurabile, risultato con l’emanazione nel 1909 del Trade Boards Act, palesemente ispirato alla legge in vigore da più di un decennio nello stato australiano di Victoria [51]
. Sulla scorta del modello vittoriano la legge inglese permise l’istituzione di consigli a composizione tripartita nei settori industriali caratterizzati da livelli retributivi «eccezionalmente bassi»: ai minimi salariali fissati dai consigli veniva conferita efficacia legale obbligatoria con un atto di ratifica del Board of Trade (Ministero dell’indu{p. 35}stria) [52]
. Nonostante l’applicazione iniziale della legge fosse piuttosto moderata, limitandosi a quattro settori industriali, la sua importanza non può essere minimizzata [53]
: non soltanto perché con essa subiva una prima seria incrinatura il dogma del non intervento statale in materia salariale, ma anche per gli effetti imitativi che produsse in altri paesi. Rispetto ai quali, peraltro, l’esperienza inglese si collocava su un terreno più avanzato: mentre infatti la legge francese del 1915 e quelle, di poco successive, approvate in Norvegia, Austria e Cecoslovacchia si limitavano a colpire, e molto parzialmente, lo sfruttamento praticato nel lavoro a domicilio [54]
, la legge inglese, pur applicata a settori dove il lavoro a domicilio aveva un peso rilevante, non era una legge specificamente rivolta al lavoro a domicilio [55]
. A differenza, inoltre, delle leggi approvate in numerosi Stati americani a partire dal 1912 per tutelare la condizione salariale delle donne (e, talvolta, dei minori) [56]
, la legge inglese si applicava senza distinzione di sesso.{p. 36}
Le esperienze straniere ebbero da noi un’eco assai attenuata e, comunque, rigorosamente circoscritta al lavoro a domicilio. Del resto anche per questo aspetto, come già per la questione degli appalti pubblici, non si andò mai al di là di dichiarazioni di intenzioni, si sarebbe tentati di dire delle chiacchiere. Della necessità di tutelare le condizioni salariali dei lavoratori a domicilio con una disciplina legislativa dei minimi s’era cominciato a parlare sin dai primi anni del secolo [57]
. Ma bisognerà attendere il 1921 per veder presentato un disegno di legge in materia ad iniziativa del governo, che peraltro si guardò bene dal darvi seguito. Parimenti lettera morta rimase un progetto di legge d’iniziativa parlamentare presentato nel dicembre dello stesso anno [58]
.
Ad ogni modo in Italia, ancor più che altrove, il lavoro a domicilio costituiva soltanto un aspetto dello sweating system. Le particolari, e ampiamente documentate [59]
, caratteristiche dello sviluppo economico italiano fanno sì che, ancora a cavallo dei due {p. 37}secoli, la struttura industriale risulti segnata, per un verso, dal peso rilevantissimo delle imprese di piccole e piccolissime dimensioni, per altro verso da una composizione di classe con larghissima presenza di manodopera generica, femminile e minorile: tutti fattori che contribuivano a deprimere fortemente il saggio salariale medio [60]
. Di fatto «nel complesso del sistema salariale italiano era netta la prevalenza dei bassi salari, e l’indice medio tendeva più ad avvicinarsi a quello delle categorie meno favorite che a quello delle élites operaie» [61]
. In questo contesto, caratterizzato anche da una diffusa debolezza sindacale, si comprende bene come l’opportunità di una misura legislativa minima di determinazione del salario esorbitasse ampiamente dall’area del lavoro a domicilio. Senonché pensare a un intervento dello Stato in materia di salari nell’Italia di allora sarebbe stato probabilmente un non senso. Si è visto, infatti, come tale tipo di intervento costituisca un punto relativamente maturo di un sistema di legislazione sociale, «il complemento ovvio», per ripetere le parole degli Webb, «dell’indirizzo della legislazione sulle fabbriche». Ma la legislazione sociale italiana dell’epoca, com’è noto, si trovava in uno stato miserevole: «nessuno dei grandi paesi d’Europa» — è il giudizio di un osservatore certamente non prevenuto — «ha una legislazione sociale più povera, più manchevole, più difettosa della legislazione italiana» [62]
. F.S. Nitti, è vero, scrive nel ’92, con l’occhio rivolto alla risibile, e peraltro mai seriamente applicata, legge del 1886 sul lavoro dei fanciulli [63]
; ma la situazione non muta in maniera apprezzabile anche dopo la legge del 1902, che estendeva la tutela al lavoro delle donne, per emanare la quale «la Camera aspettò la venuta di qualche collega socialista di più» [64]
. Furono quindi {p. 38}essenzialmente considerazioni di realismo ad escludere dalle rivendicazioni delle organizzazioni, politiche e sindacali, della classe operaia la richiesta di un minimo legale di salario. Per la verità tale richiesta venne formulata al congresso di Mantova del PSI, nel 1896, ma più che altro come motivo di agitazione propagandistica: «non è a credere, infatti, che i socialisti italiani... confidino gran fatto nell’opera dello Stato, quale esso ora è. E se talora ne invocano il concorso, lo fanno soltanto come avviamento a potere un giorno operare assai meglio da sé; e, più ancora, per ragioni di propaganda» [65]
. Non ci si aspettava, in altre parole, di cogliere un risultato concreto. E infatti la rivendicazione sarà presto lasciata cadere dal partito [66]
; il sindacato, per parte sua, non risulta che l’abbia mai fatta propria. Nei primi anni del secolo l’azione sindacale sfruttò la congiuntura economica favorevole per migliorare le condizioni della classe lavoratrice attraverso la contrattazione collettiva [67]
, senza peraltro cercare di contrastare, ed anzi accettandola esplicitamente, la struttura delle disuguaglianze salariali (fra regioni, fra settori, fra i sessi, fra adulti e minori) [68]
.
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Note
[46] Cfr. Morton e Tate, op. cit., pp. 192, 198, 216.
[47] Sul processo formativo del partito laburista cfr. ancora Morton e Tate, op. cit., pp. 218-228. Nel «Labour Representation Committee» confluirono sia numerose unioni sindacali, sia le tre organizzazioni politiche di ispirazione socialista: l’Indipendent Labour Party, la società fabiana e la federazione socialdemocratica di orientamento marxista (quest’ultima se ne staccherà ben presto).
[48] Sul caso Taff Vale si v. per tutti Kahn-Freund, Labour and the law, cit., p. 232. Niente, comunque, vale ad illustrare il clima dell’epoca, quanto una pagina esemplare di Industrial democracy. A proposito degli orientamenti repressivi dell’azione sindacale emersi nelle decisioni della Camera dei Lords, gli Webb non dubitano dell’onestà ed imparzialità dei giudici; si dicono, al contrario, del tutto convinti che quei giudici esprimano, in assoluta buona fede, un’ideologia schiettamente antioperaia. E infatti «accade questo, che, nell’incertezza presente, il diritto che si applica al caso speciale deve necessariamente dipendere dal modo di considerare l’azione generale dell’unionismo…». «Ma la gran maggioranza dei nostri giudici ritiene evidentemente, nella massima buona fede, che l’unionismo — significando l’adozione di norme comuni in tutta un’industria — è anomalo, condannabile, nocivo all’industria inglese, e che costituisce persino un’illecita violazione della libertà individuale, che il parlamento si è indotto con soverchia leggerezza a far esulare dalla categoria dei reati» (op. cit. p. 25).
[49] Dobb, I salari, cit., p. 176.
[50] Cfr. Kahn-Freund, op. ult. cit., p. 232.
[51] Il Factories and Shops Act fu approvato nello Stato di Victoria nel 1896. Inizialmente la legge prevedeva la costituzione di wage boards a composizione tripartita soltanto in sei settori, caratterizzati da condizioni di particolare sfruttamento del lavoro; successivamente se ne estese il raggio di applicazione, sino a renderla di portata potenzialmente generale, dandosi al parlamento la facoltà di istituire un consiglio salariale in qualsiasi settore ne ravvisasse l’opportunità: cfr. Reeves, The minimum wage law in Victoria and South Australia, in «Econ. Jour.», 1901, p. 334 ss. Ispirazione differente aveva la legge neozelandese del 1894 che, pur permettendo di determinare condizioni salariali ad efficacia legale obbligatoria, era stata pensata nel quadro di una procedura di prevenzione dei conflitti collettivi. Sulle differenze fra le due leggi si v. Webb, op. cit., p. 30-41.
[52] La pubblicistica sul Trade Boards Act del 1909 è vastissima: per tutti si v. Sells, Les effets économiques des conseils d’industrie britanniques, in «Rev. internat. travail», 1923, vol. VIII, p. 201 ss. I settori inizialmente colpiti dalla legge furono quelli dell’abbigliamento, della fabbricazione di scatole di cartone, della fabbricazione di merletti a macchina e di catene.
[53] L’opinione di Roy Lewis (Kahn-Ereund e il diritto del lavoro: un profilo critico, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1980, p. 97), secondo cui quella legge avrebbe dato risultati scarsi, appare per un verso unilaterale, per altro verso «anglocentrica». È vero, infatti, che essa deludeva le attese delle trade unions di un provvedimento di portata più generale; è anche vero, però, che si trattò di un punto di partenza che permetterà i successivi sviluppi della legislazione inglese in materia e servirà di modello alla convenzione OIL del 1928 (si v. infra nel testo). Il Trade Boards Act, inoltre, si poneva su un piano nettamente più avanzato rispetto alle coeve esperienze europee.
[54] Su tutte queste leggi si v. l’articolo, non firmato, La réglementation légale des salaires dans les métiers mal rémunérés en Europe, in «Rev. Internat. travail», 1921, vol. IV, p. 351 ss. Si trattava di provvedimenti estremamente riduttivi, in genere limitati all’industria dell’abbigliamento che ovunque (anche da noi) costituiva un tipico esempio di sweating system.
[55] Cfr. La réglementation légale, cit., p. 357. Il lavoro a domicilio aveva un peso prevalente nell’industria della fabbricazione di catene e di merletti, mentre era di rilievo secondario nell’industria dell’abbigliamento e della fabbricazione di scatole.
[56] Anche sulle leggi statali americane la pubblicistica è assai ampia: per tutti si v. Brandeis, Labor legislation, in History of labor in the United States (1896-1932), vol. III, (a cura di Commons), New York, MacMillan, 1935, pp. 501-539; Commons ed Andrews, Principles of labor legislation, New York, Kelley, 1967 (ma 1936), p. 54 ss. Delle leggi americane quelle approvate in Arizona, Porto Rico e Utah prevedevano direttamente la fissazione del salario minimo; negli altri Stati operava un meccanismo di determinazione attraverso consigli salariali tripartiti, di tipo diverso da quello inglese. Infatti in ciascuno Stato si prevedeva l’istituzione di una sola commissione salariale, la quale, attraverso apposite inchieste, avrebbe stabilito i settori cui applicare il salario minimo. La commissione centrale, però, aveva facoltà di avvalersi del parere di comitati consultivi d’industria, anch’essi a composizione tripartita, cosicché, nella pratica, le differenze rispetto al sistema inglese tendevano a sfumare. Le commissioni potevano stabilire salari minimi diversi per industria (ma non necessariamente: il salario minimo poteva anche essere uniforme) e a seconda del costo locale della vita (ma questo elemento veniva preso in considerazione più raramente).
[57] Si v. ad esempio l’articolo di Schiavi, Lavoro a domicilio e minimo di salario, in «Critica sociale», 1908, p. 58 ss.
[58] Sui due progetti cfr. Balella, Lezioni di legislazione del lavoro, Roma, Società anonima editrice, 1927, p. 329; Riva-Sanseverino, Salario minimo e salario corporativo, Roma, A.R.E., 1931, p. 65. La pochezza dei due progetti di legge in questione è attestata anche dal rilievo ad essi accordato nelle più recenti ed accurate ricostruzioni della disciplina giuridica del lavoro a domicilio: neppure un cenno in Mariucci, Il lavoro decentrato, Milano, Franco Angeli, 1979, qualche fugace riferimento in M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, Padova, Cedam, 1978, p. 5 nota 8, p. 11 nota 18.
[59] Per tutti si v. Vannutelli, Occupazione e salari dal 1861 al 1961, in L’economia italiana dal 1861 al 1961, Milano, Giuffré, 1961, p. 560 ss; Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 7-28; Cova, L’occupazione e i salari, Milano, Franco Angeli, 1977, p. 7 ss.
[60] Cfr. in generale Morandi, Storia della grande industria in Italia, Torino, Einaudi, 1966, (ma 1931), p. 135 ss.
[61] Procacci, op. cit., p. 25.
[62] Nitti, La legislazione sociale in Italia e le sue difficoltà, in «Rass. agraria, ind., comm., pol.», 1892, ora in Scritti sulla questione meridionale, I, Bari, Laterza, 1958, p. 173. Si tratta, peraltro, di una valutazione incontestabile: cfr. Procacci, op. cit., p. 15; Morandi, op. cit., p. 157 ss.
[63] Il dato sulla disapplicazione proviene dagli stessi industriali: in un memoriale redatto nel 1896 dall’associazione cotoniera, parlando della legge di dieci anni prima, «si notava esserne l’infrazione talmente frequente, da renderla quasi irrisoria per ciò che riguarda la sua vera sostanza»: così Morandi, op. cit., p. 170.
[64] Morandi, op. cit., p. 169. Sulla legge del 1902 si vedano, da ultime, le ricostruzioni di Balestrero, Dalla tutela alla parità, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 19 ss; M.L. De Cristofaro, Tutela e/o parità, Bari, Cacucci, 1979, p. 43 ss.
[65] Arduino, Il sistema del salario minimo nelle sue recenti applicazioni, in «La Riforma sociale», 1897, p. 96. Per una testimonianza dell’epoca sull’anti- statualismo della classe operaia italiana si v. Schiavi, op. cit., p. 60; da ultimi Ghezzi e Romagnoli, op. cit., p. 2 s.
[66] Cfr. Ruini, op. cit., p. 305, che, scrivendo nel 1906, testimonia come ormai restassero «a trattare l’argomento soltanto i convegni cattolici». L’affermazione di Vannutelli, (op. cit., p. 566) secondo cui «il problema del salario non era tra quelli più pressanti» può essere accettabile soltanto se riferita al quadro generale dei rapporti di forza fra capitale e lavoro nell’Italia liberale. Lo stesso autore, del resto, prosegue affermando che «urgevano maggiormente, e davano luogo a movimenti di rivendicazione, il problema degli orari di lavoro, il problema dell’igiene e della sicurezza del lavoro, e correlativamente quello del lavoro notturno e del lavoro femminile e minorile». In termini assoluti, invece, è sicuramente contestabile, giacché, ancora alla fine del secolo, «nonostante qualche aumento verificatosi in certi rami della produzione, i salari di fame, che l’assoluta maggioranza delle nostre maestranze operaie già percepiva, restavano salari di fame»: Morandi, op. cit., p. 149.
[67] Rilievo comune: per tutti cfr. Vannutelli, op. cit., p. 569; Cova, op. cit., p. 26.
[68] Foa, Sindacati e lotte sociali, in Storia d’Italia, vol. V, Torino, Einaudi, 1973, ora in Per una storia del movimento operaio, Torino, Einaudi, 1980, p. III: ivi anche un più articolato discorso sulla politica salariale della Cgdl.