Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
Si diceva all’inizio dell’attenzione assolutamente marginale riservata ai problemi di tutela dei più bassi redditi da lavoro dipen
{p. 94}dente nel dibattito sulla riforma della struttura del salario. La disdetta, nel giugno dell’82, dell’accordo sulla scala mobile è sembrata, più recentemente, coniugarsi nella Confindustria con una rinnovata sensibilità in proposito. Senonché la proposta di istituire un salario sociale nazionale [269]
, oltreché per una certa genericità di formulazione e per il contesto in cui è stata inserita, lascia, quanto meno, perplessi per la discrepanza fra l’intento dichiarato (di protezione delle fasce marginali di forza-lavoro) e lo strumento indicato (se non abbiamo frainteso, in un accordo interconfederale). Quand’è di tutta evidenza che anche un accordo interconfederale non potrebbe valicare i limiti di efficacia che gli sono propri, lasciando al palo di partenza l’esigenza per cui si dovrebbe porlo in essere. Fatto è che, se hanno fondamento le analisi che vedono nei fenomeni di decentramento produttivo un anello imprescindibile dell’attuale dinamica di ristrutturazione del capitalismo italiano, è possibile che la determinazione degli industriali di muovere verso un sistema di protezione salariale di efficacia generalizzata sia meno ferrea di quanto si vorrebbe lasciar intendere.
L’istituzione di un salario minimo legale, viceversa, dovrebbe interessare non poco le forze, politiche e sindacali, del movimento operaio, non soltanto per evidenti ragioni di equità sociale, ma anche per le possibili, e ripetutamente sottolineate, finalizzazioni più ampie di una normativa sui minimi [270]
. Si guardi all’esempio francese. È stata esageratamente amplificata, a suo tempo, la decisione del governo socialista di François Mitterrand di blocco dei {p. 95}salari. Non si è dato analogo rilievo né alla temporaneità del provvedimento (soli quattro mesi), né al colpo di freno imposto anche ai redditi non da lavoro dipendente. Ma soprattutto si è evitato di sottolineare l’aumento, per la seconda volta in un anno, deliberato contestualmente della misura dello smic [271]
. Dove è evidente l’utilizzo dell’istituto non solo in funzione compensativa, ma anche per imprimere una forte inclinazione solidaristica alla politica salariale. Si dirà che questi sono problemi di una sinistra al governo. È facile replicare, al contrario, che un’esperienza di governo non s’improvvisa, ma si prepara. Quanto più netti sono i caratteri della trasformazione sociale proposta, tanto meno un governo socialista, che agisce pur sempre all’interno di un contesto capitalista, può permettersi di non avere una politica salariale. E questo sia per ovvie esigenze di controllo dei principali indicatori economici, necessario anche in funzione di difesa dai prevedibili tentativi di sabotaggio economico interni e internazionali, sia perché, nel quadro di un’esperienza socialista radicale, il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori va concepito in un’ottica non meramente «salarialista» ed affidato a strumenti più ampi.
Per i sindacati, d’altro canto, la rivendicazione di un salario minimo legale dovrebbe porsi come esigenza più immediata, «giacché vi è un punto limite al di là del quale l’esclusivismo sindacale si condanna da sé, ed esso ricorre quando l’abbandono degli strati marginali della classe lavoratrice incide sulla stessa capacità di pressione degli strati più avanzati» [272]
. Queste parole sono state scritte da Gino Giugni quasi trent’anni fa, in un quadro sicuramente diverso dall’attuale. Ma rischiano di adattarsi fin troppo ad illustrare tendenze presenti nuovamente nel sistema italiano di relazioni industriali per non far squillare più di un campanello d’allarme. Nel fare propria la proposta di un salario minimo legale i sindacati potrebbero non soltanto battersi per ottenere uno strumento integrativo delle carenze della contrattazione, ma anche trovare in esso una fonte rinnovata di legittimazione nei confronti dell’insieme della classe lavoratrice.{p. 96}
Motivi di discussione attorno alle prospettive in Italia di una legislazione sui minimi non sembrano dunque mancare. In queste pagine abbiamo cercato di offrire materiali per un dibattito più approfondito. Vorremmo, adesso, concludere con una constatazione. A fronte dei problemi, largamente comuni, alle economie occidentali è quasi una banalità affermare che «sia la destra che la sinistra promettono di conseguire gli stessi risultati» [273]
. Le linee di marcia, però, restano divergenti. Per quanto qui ci riguarda vorrà pur dire qualcosa se uno dei primi cavalli di battaglia della reaganomics è stato l’attacco al salario minimo legale [274]
mentre questo si è sempre mostrato uno strumento essenziale per il governo socialista francese. Dopo tutto, in questa differenza di atteggiamenti non sembra forzato trovare una conferma per chi riconosce nel salario minimo legale un elemento rilevante di una politica sociale ispirata al cambiamento.
Note
[269] Del resto non particolarmente nuova: in essa infatti non era difficile avvertire suggestioni di idee già da tempo avanzate, ad esempio, da Sylos Labini, La riforma della scala mobile, in «Mondo operaio», 1981, 1, p. 29; Id., Un esercito del lavoro, in «la Repubblica», 22 dicembre 1981.
[270] Apprezzabile, in questo senso, un’apertura che sembrava prospettata nei Materiali e proposte per un programma di politica economico-sociale e di governo dell’economia del PCI (in «Rinascita», 50, 1981, p. 33, poi, senza modifiche sul punto, ivi, 23, 1982, p. 17). Ma anche la proposta comunista appariva confinata, salvo ulteriori precisazioni, ai problemi della riforma contrattuale della struttura del salario, restando, dal nostro punto di vista, inadeguata all’ordine di questioni esposto nel testo. I medesimi rilievi possono muoversi alla, pur interessante, proposta formulata da Dal Co, op. cit., laddove individua in un negoziato trilaterale lo strumento di fissazione del salario minimo, senza chiarire se la misura salariale così determinata vada, o meno, rafforzata attraverso la sanzione legale. Totale insensibilità ai profili istituzionali della problematica, non a caso frettolosamente liquidata, mostra poi Bolaffi, op. cit.
[271] Un esempio di parzialità nell’informazione è l’articolo di Barbara Spinelli, Sulle orme di Léon Blum, in «la Repubblica», 16 giugno 1982. Una valutazione più equilibrata può leggersi in Patriarca, La politica dei redditi e dei prezzi nella recente esperienza francese, in «Ires Materiali», 1984, 2, p. 6.
[272] Giugni, La validità, cit., p. 70.
[273] Così Thurow, Senza Keynes, in «Lab. poi.», 1982, 1, p. 28.
[274] Cfr. Gennari, Nell’armadio di Reagan, in «Progetto», 1981, 1, p. 88. La ostilità del governo conservatore britannico nei confronti delle istituzioni che regolano il salario minimo è attestata da Wedderburn, Il diritto del lavoro in Europa negli anni ’80, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1983, p. 543, che sottolinea come, riguardo alle politiche del lavoro, «il contrasto con la Francia difficilmente potrebbe essere più profondo».