Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
La proposta non ebbe la minima rispondenza nella maggioranza parlamentare. Per la verità l’eco da essa suscitata fu, in generale, debolissima [189]
, al punto da farne sfumare rapidamente persino il ricordo. Eppure, affermare che la sua mancata approvazione dimostri l’inadeguatezza della legge in materia di minimi retributivi [190]
non si può, senza incorrere in un’evidente tautologia. La mancata approvazione dimostra soltanto che non esistevano allora le condizioni perché un intervento del genere avesse successo. Le scelte di politica economica prevalse dopo la stabilizzazione del ’47 non contemplavano, infatti, alcuna ipotesi di sostegno alla dinamica salariale. Le carte della ricostruzione furono giuocate essenzialmente in funzione della domanda esterna: il che significò per un verso appoggio allo sviluppo dell’industria d’esportazione, per altro verso, coerentemente, compressione dei consumi popolari all’interno attraverso una politica di bassi salari e il mantenimento di un saggio elevato di disoccupazione. Il sostegno all’industria, nello schema che Giuliano Amato ha efficacemente descritto come esempio di «protezionismo liberale», venne concesso senza porre condizionamenti di sorta, relegando all’esterno la necessaria mediazione con gli interessi altri [191]
. In particolare l’ausilio finanziario alle imprese medio-piccole, quelle che, verosimilmente, avrebbero potuto essere colpite da una legislazione sui mi
{p. 74}nimi [192]
, non comportò l’imposizione di alcun tipo di vincolo: la gestione del credito agevolato si consolidò «con i caratteri che la prima ricostruzione gli aveva assegnato e che scaricavano fuori ogni problema diverso dalla capacità delle imprese di produrre e di esportare» [193]
.
Si comprende bene come, in simile contesto, la norma costituzionale sui salari potesse essere — e da qualcuno in effetti fu [194]
— considerata poco meno che eversiva dell’ordine economico capitalistico. In realtà lo era sicuramente assai meno di altre disposizioni della Carta, ad esempio di quella scolpita nel 1o comma dell’art. 4. Anche del diritto al lavoro, inteso come impegno per i pubblici poteri a promuovere le condizioni che rendano possibile il pieno impiego, non sono mancate, per la verità, suggestive letture tendenti ad accreditarne, in chiave keynesiana, la compatibilità con un assetto ammodernato di rapporti capitalistici [195]
. Nella realtà economica prevalente nei primi anni ’50, non solo in Italia ma in larga parte dell’Europa, questa tesi non trova però alcun conforto. A ricevere conferma, semmai, era la previsione, formulata da Kalecki già durante la guerra, dell’incompatibilità fra i sistemi capitalistici a regime democratico e il mantenimento di un livello stabile di piena occupazione [196]
. In altre parole, «nonostante il ri{p. 75}chiamo al diritto al lavoro o al carattere sociale dell’economia di mercato nelle nuove costituzioni... non v’era nazione dell’Europa continentale dove la gente credesse che il lavoro fosse un diritto (e si comportasse di conseguenza)» [197]
.
L’attuazione di misure legali di tutela dei redditi più bassi, viceversa, presentava margini assai più elevati di tollerabilità. Di fatto nei sistemi in cui era stato introdotto, da più o meno lungo tempo, il salario minimo legale era stato ampiamente assorbito e continuava a restare un punto fermo delle relazioni industriali; altrove si cominciava proprio in quegli anni a sperimentarne la praticabilità [198]
. Particolarmente significativa, nell’economia del nostro discorso, è l’esperienza americana: il new deal non riuscì mai a vincere la disoccupazione, ma puntò sempre — come si è visto — a sostenere la dinamica salariale. Malauguratamente l’establishment politico ed economico italiano dell’epoca era totalmente immune da suggestioni newdealistiche: nelle sue scelte, piuttosto, non sembra forzato leggere una sostanziale fedeltà ai caratteri propri del modello di sviluppo italiano sin dalla prima industrializzazione [199]
, di cui i bassi salari costituivano un ingrediente essenziale.
Per tornare alla proposta della CGIL va detto — per amore di verità — che le ragioni dell’insuccesso sono da ascrivere anche alla scarsa convinzione con cui fu sostenuta dalla stessa confederazione: di fatto si trattò di una soluzione di ripiego rispetto alla legge di attuazione dell’art. 39 Cost. che continuava ad essere riguardata come la prospettiva ottimale. Basta dare un’occhiata alle riviste {p. 76}sindacali dell’epoca per trovarne conferma. Sui rispettivi organi ufficiali CGIL e CISL non dedicano la minima attenzione al d.d.l. 895, mentre continuano a scambiarsi pesanti bordate polemiche a proposito della mancata applicazione dell’art. 39 e, ancor più, delle proposte, avanzate rispettivamente da Pastore e Di Vittorio, per estendere erga omnes l’efficacia dei contratti collettivi [200]
. Non sorprende, quindi, che lo stesso Di Vittorio, in un noto saggio pubblicato nel ’55 in un volume collettaneo dell’editrice Laterza, non faccia cenno alcuno ad una legislazione sui minimi, cui non aveva mai creduto sino in fondo, limitandosi a difendere la proposta CGIL di estensione dei contratti collettivi [201]
.
Per tutti gli anni ’50, in sostanza, al problema di offrire una tutela minima ai lavoratori non coperti dal contratto collettivo seguiterà a guardarsi nell’ottica dell’erga omnes: il dibattito sindacale resta polarizzato sulle modalità di attuazione dell’art. 39 e/o sulle possibili strumentazioni alternative, trovando, alfine, uno sbocco nell’approvazione della legge Vigorelli [202]
.{p. 77}
La soluzione da questa offerta era, ovviamente, limitata alle categorie già dotate di un controllo collettivo e, per di più, si sarebbe rivelata del tutto temporanea, a fronte della dichiarazione di incostituzionalità della legge di proroga e della rapida obsolescenza dei minimi tabellari recepiti nei decreti legislativi. A posteriori il risultato più durevole della legge Vigorelli può senz’altro individuarsi nell’aver offerto nuove ragioni di intervento alla giurisprudenza sulla retribuzione sufficiente, la cui funzione, dopo l’emanazione dei decreti legislativi, era stata considerata, troppo frettolosamente, esaurita [203]
. Essa, viceversa, trovò nuovo alimento nella necessità di adeguare i minimi salariali fissati dai decreti, anche a prezzo di forzare i tratti anomali che già presentava la giurisprudenza degli anni ’50. Se di questa, infatti, si era potuto dubitare che operasse praeter legem [204]
, quella formatasi sui decreti Vigorelli — nonostante le acrobazie logiche tentate per legittimarla sul piano tecnico-giuridico [205]
— non riesce a nascondere il suo carattere irriducibilmente contra legem, essendo implicita in essa l’affermazione di «un potere di integrazione della legge da parte del giudice..., estraneo al nostro ordinamento giuridico» [206]
. La verità è che, nell’uno come nell’altro caso, l’intervento del giudice si legittima {p. 78}non sul piano giuridico-formale, ma in base a considerazioni equitative, latamente intese. A queste stesse non poteva restare insensibile un organo per solito così attento al dato politico-sociale, quale la Corte costituzionale, che infatti finirà col dare il suo avallo, dichiarando l’incostituzionalità, in riferimento all’art. 36 Cost., dell’art. 7, 2° comma, della legge 741/1959, «nella parte in cui esclude che la sopravvenuta non corrispondenza dei minimi economici al salario sufficiente conferisca al giudice ordinario i poteri che gli vengono dall’art. 36 Cost.» [207]
.
L’inadeguatezza, tempestivamente percepita, della legge 741 motivò anche una rinnovata ipotesi di legislazione sui minimi, maturata, questa volta, in ambienti intellettuali vicini alla CISL [208]
. Anche in questo caso la proposta sarà lasciata rapidamente cadere, non avvertendosi la sua capacità di integrarsi funzionalmente nel nuovo assetto di relazioni industriali caratterizzato dall’avvio della contrattazione aziendale [209]
. Al contrario, si rafforzò la convinzione che fosse sufficiente puntare sulla capacità diffusiva della norma collettiva, giunta vicina a un punto di maturazione, per garantire condizioni minime di tutela all’insieme della forza-lavoro; e ciò anche a prescindere da un’estensione erga omnes della stessa, di cui, significativamente, da allora si parlerà sempre meno [210]
.
{p. 79}
Note
[189] Neanche un rigo, ad esempio, le è dedicato nelle due monografie scritte proprio in quegli anni sul tema della retribuzione: Cassi, La retribuzione nel contratto di lavoro, Milano, Giuffré, 1954, e Guidotti, La retribuzione nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffré, 1956; solo un cenno in Barassi, Il diritto del lavoro, III, Milano, Giuffré, 1957, p. 114.
[190] Così, invece, Pinto, Il ruolo dello Stato nella regolamentazione del lavoro in Italia, in «Riv. dir. lav.», 1958, I, p. 156. L’unico autore che sembra avere dedicato al d.d.l. 895 un’analisi diffusa è Simoncini, Studi, cit., p. 27 ss, peraltro con argomentazioni critiche in pane infondate (il salario minimo legale sarebbe un provvedimento meramente congiunturale, tesi facilmente contestabile alla luce dell’esperienza inglese e americana), in parte di taglio tradizionale (l’adozione di un salario minimo legale scoraggerebbe l’azione sindacale).
[191] Cfr. Amato, Introduzione a Il governo dell’industria in Italia, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 16. Si v. anche a p. 25 ss. la tipologia degli strumenti utilizzati in funzione compensativa del sostegno senza condizioni accordato all’industria (cantieri IRI, piano-casa Fanfani ecc.).
[192] La spaccatura del mercato del lavoro in due settori, l’uno coperto dalla protezione legale e sindacale, tipico della grande impresa, l’altro, con tutele fortemente attenuate e salari mediamente assai più bassi, è fatta ben presto oggetto di tentativi di interpretazione: assai noto lo schema analitico di Vera Lutz, secondo cui sarebbe la capacità di pressione abnorme di cui danno prova i sindacati nelle imprese maggiori ad indurre la segmentazione del mercato del lavoro. In proposito si v., anche per un inquadramento critico della problematica, Graziani, L’economia italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 53 ss.
[193] Amato, op. cit., p. 23.
[194] Ad esempio da Esposito, Intervento, in La pianificazione economica e i diritti della persona umana, in «Quaderni di Justitia», Roma, 1955, p. 171.
[195] Il riferimento, ovviamente, è a Mancini, Il diritto al lavoro rivisitato, in «Pol. dir.», 1973, poi in Costituzione e movimento operaio, cit., p. 47 ss. In argomento cfr. ora Hepple, Esiste un diritto al lavoro?, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1982, p. 647 ss.
[196] Cfr. di Kalecki il famoso saggio Political aspects of full employment, in «Pol. quarterly», 1943, tr. it. Gli aspetti politici della piena occupazione, in Conflitto di classe e ciclo economico-politico (a cura di Mazzocchi e Scotti), Milano, Vita e Pensiero, 1980, p. 3 ss. Detto di passata, la diagnosi kaleckiana — trascorso il ventennio, fra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’70, di pieno impiego diffuso in molti paesi capitalistici avanzati — sembra trovare riscontro, nelle sue linee di fondo, al giorno d’oggi, a fronte dei tassi crescenti di disoccupazione da cui appaiono afflitte, in misura più o meno elevata, le economie occidentali. Per un efficace approfondimento critico dello schema di Kalecki si v. Salvati, Ciclo politico e onde lunghe. Note su Kalecki e Phelps Brown, in «Stato e Mercato», 1981, sp. p. 23, 41 ss.
[197] Salvati e Brosio, Politica e mercato nell’Europa della crisi, in «Il Mulino», 4, 1979, p. 492, che ricordano anche come le uniche eccezioni, in un panorama per il resto alquanto uniforme, fossero costituite da Svezia e Regno Unito.
[198] Si è già detto della Francia. Nel 1952 una legge sui minimi salariali venne introdotta anche nella RFT: essa, però, resterà sempre virtualmente inoperante, per cui nel seguito della trattazione se ne prescinde. Su questa legge, comunque, si v. Ramm, Federai Republic of Germany, in International Encyclopaedia, cit., p. 104 e, da noi, Comito, op. cit.
[199] È questa la chiave interpretativa del saggio, più volte citato, della Zamagni. Si v. anche Graziani, op. cit., p. 15.
[200] Per quanto riguarda la CGIL si v. L’art. 39 cost. e l’efficacia giuridica dei contratti di lavoro, in «Notiziario CGIL», 1954, p. 649. La posizione della CISL è illustrata dall’editoriale In margine all’art. 39, in «Boll. di studi e stat.», 1954, p. 469. Qualche mese prima, però, era comparso sul periodico cislino un articolo (Il minimo salariale garantito in Francia, in «Boll.», 1954, p. 244) dove lo smig francese veniva criticato perché troppo condizionante, nella pratica, la dinamica salariale contrattuale. L’articolo concludeva affermando che era necessario «...porsi concretamente la scelta tra il miglioramento contrattuale e le vie più facili, ma anche più demagogiche ed, a scadenza, controproducenti, dell’intervento governativo indifferenziato», e può forse considerarsi come un’espressione indiretta degli umori allora prevalenti nella confederazione. Per quanto riguarda il progetto Pastore sull’erga omnes si v. Treu, La CISL degli anni ’30 e le ideologie giuridiche dominanti, in Materiali per una storia della cultura giuridica, vol. III, t. 2, 1973, p. 360, e, più recentemente, Carinci, La CISL fra legge e contratto, in Analisi della CISL (a cura di Baglioni), Roma, Ediz. Lavoro, 1980, p. 351, Grandi, I problemi del lavoro negli orientamenti della dottrina giuridica: organizzazione sindacale, contratto collettivo e sciopero, in «Annali Fond. G. Pastore», vol. VIII, 1979, p. 211. Sulla proposta Di Vittorio, Ricciardi, Appunti per una ricerca sulla politica della CGIL: gli anni ’30, in Materiali, cit., p. 187 ss. In generale si v. la ricostruzione di Pera, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 299 ss, cui adde ora Craveri, op. cit., p. 328 ss.
[201] Il saggio fu pubblicato nel volume I sindacati in Italia (sul punto p. 54 ss.).
[202] Precedentemente erano stati approvati provvedimenti per categorie specifiche di lavoratori, quali apprendisti, lavoratori a domicilio, domestici e portieri; tranne che per questi ultimi, però, la legge evitava di fissare direttamente la misura della retribuzione, rinviando, con disposizioni di dubbio significato, ai parametri offerti dalla contrattazione collettiva (apprendisti, lavoratori a domicilio): cfr., in generale, Riva-Sanseverino, La partecipazione italiana all’OIL e l’adeguamento dell’ordinamento italiano alle convenzioni interazionali del lavoro, in «Riv. inf. e mal. prof.», 1960, p. 245 ss. Sulla legge Vigorelli si v. per tutti, Pera, op. ult. cit., p. 321 ss.; Giugni, La validità, cit.; id., La disciplina legislativa del trattamento minimo di categoria, in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1959, p. 863 ss. Da notare che la relazione alla legge Vigorelli conteneva un esplicito riferimento all’obiettivo di attuazione dell’art. 36 cost., che sarà poi ritenuto inattendibile dalla Corte costituzionale nella sentenza con cui dichiarerà incostituzionale la legge di proroga della legge 741/1959, valutata esclusivamente alla stregua di un congegno anomalo di estensione della sfera di efficacia dei contratti collettivi.
[203] Da Santoro-Passarelli, op. cit
[204] Id., op. cit.
[205] Si v. ad es. Di Berardino, La determinazione giudiziale della retribuzione sufficiente e la legge 747/7939 sui minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori, in «Dir. e giur.», 1966, p. 803 ss., che cita a sostegno il precedente costituito dell’adeguamento delle tariffe contenute nei contratti collettivi corporativi, ma senza fondamento, giacché questi ultimi non acquistarono mai forza di legge, ma semplicemente ne fu disposta con legge la permanenza in vigore.
[206] Così Mortillaro, La problematica, cit., p. 192.
[207] Corte cost., 6 luglio 1971, n. 156, in «Mass. giur. lav.», 1971, p. 325, con nota di Lattanzi.
[208] Si v. il noto articolo di Grandi, Prospettive in Italia per una legislazione sui minimi, in «Pol. sind.», 1962, p. 102 ss. Ma il favore nei confronti di una legislazione sui minimi era cominciato a maturare all’interno della CISL già in occasione del dibattito precedente l’approvazione della legge Vigorelli: cfr. Il progetto Vigorelli sui contratti, in «Pol. sind.», 1958, p. 375, nonché, in generale, le riflessioni di Treu, La CISL degli anni ’50, cit., p. 362 ss.
[209] Per un cenno in questo senso v. però Mancini, Libertà, cit., p. 152 ss.
[210] Non a caso una proposta avanzata in quello stesso periodo all’interno della CGIL (da Tatò, Ordinare la struttura della retribuzione secondo la logica e i fini del sindacato, in «Pol. ed econ.», 1961, p. 59 ss.) di introduzione di un salario minimo di sistema, da realizzare tramite la contrattazione interconfederale, troverà pessima accoglienza nel dibattito sulla politica salariale allora in corso in seno alla confederazione e sarà stroncata da Trentin (Obiettivi delle rivendicazioni salariali e autonomia dell’azione del sindacato, in «Pol. ed econ.», 1962, ora in Da sfruttati a produttori, cit., p. 67 ss.), fra l’altro, con la significativa motivazione che «essa viene a collocarsi di fatto in una logica che paralizza e non suscita l’iniziativa sindacale... Fatalmente il salario minimo generale diventerà la rivendicazione delle categorie meno retribuite, mentre gli altri strati di lavoratori vedranno in esso soltanto un freno alla loro lotta di classe». L’indicazione di Tatò, in altri termini, veniva respinta perché si temeva che potesse rappresentare una remora allo sviluppo dell’articolazione contrattuale. Eppure in essa vi erano delle intuizioni, quali l’idea che il salario minimo di sistema dovesse essere indifferenziato, superando le articolazioni zonali allora esistenti, che qualche anno dopo il movimento sindacale dovrà fare proprie. Per le valutazioni critiche del meccanismo costituzionale di cui all’art. 39, diffuse in quel torno di tempo, si v. Pera, op. ult. cit.; Giugni, La validità, cit.; Mancini, op. ult. cit., e, più avanti, Treu, Teorie e ideologie nel diritto sindacale (a proposito di un recente libro), in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1968, p. 1640 ss.