Massimo Roccella
I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1

Capitolo primo La dimensione minima del salario. Il salario minimo legale

1. Introduzione

A riproporre la questione del salario in termini di dimensione minima si sarebbe corso il rischio, almeno sino a tempi assai recenti, di suscitare moti di insofferenza o, fra i più benevoli, sorrisi di compatimento. Il dibattito sulle politiche salariali, in corso ormai da alcuni anni, è stato in effetti tutto incentrato attorno ai problemi del costo del lavoro: si è guardato al salario dal punto di vista della sua dimensione massima, assumendo come preoccupazione pressoché esaustiva il contenimento della sua dinamica di crescita. In quest’ottica si sono mosse, sia pure con impostazioni differenziate, le proposte elaborate dalle parti sociali [1]
; ad essa è rimasta confinata anche la riflessione dei giuristi del lavoro.
Non è chiaro se la mancanza di attenzione attorno ai problemi di tutela dei più bassi redditi da lavoro sia dipesa dalla convinzione dell’inesistenza (o comunque dell’irrilevanza) degli stessi, o, piuttosto, dell’impossibilità di affrontarli, quanto meno nell’attuale congiuntura socio-economica. Della seconda ipotesi diremo meglio più avanti; qualche parola, invece, va spesa sin da adesso sulla prima. Chi pensasse, infatti, all’inopportunità e/o all’inutilità di ragionare in termini di salario minimo nel contesto di una società industriale avanzata rischierebbe di incorrere in una facile petizione di principio. Molti indici, al contrario, depongono nel senso opposto. Anzitutto è sempre più evidente la consistenza dei «limiti {p. 20}che la contrattazione collettiva incontra tuttora, nonostante l’appoggio (indiretto) dello Statuto dei lavoratori, nel realizzare una tutela minima omogenea dei redditi di retribuzione in un mercato del lavoro sempre più diviso» [2]
. Il pensiero va, e con ragione, ai fenomeni, ormai estesissimi, di decentramento produttivo [3]
. Ma v’è dell’altro e di rilievo (forse) non minore. Nel trascorso decennio è andato prendendo corpo un mutamento qualitativo nella composizione di classe con implicazioni sicuramente non trascurabili anche dal punto di vista delle condizioni di lavoro (ivi comprese quelle salariali): è cresciuta l’incidenza occupazionale del settore terziario e della forza-lavoro femminile, di comparti cioè dove l’organizzazione sindacale è tradizionalmente debole e con possibilità limitate di tutela effettiva [4]
. Se tutto questo non bastasse a giustificare una riflessione più attenta, uno stimolo ulteriore potrà {p. 21}rinvenirsi nella recente pubblicazione, sotto gli auspici della CEE, di una ricerca sulle condizioni di povertà nel nostro paese [5]
. È vero che qui ci si muove in un’area di problemi estremamente accidentata e sicuramente non riconducibile soltanto e, forse, neanche prevalentemente, alla dimensione salariale: è altrettanto vero però che fra le molteplici cause di povertà continua a sussistere, in molti casi, il dato di una «remunerazione del lavoro non adeguata» [6]
. Del resto, dovunque sia stato sperimentato l’utilizzo del salario minimo legale come strumento di politica sociale è presente la consapevolezza che si tratta di una misura, fra le tante, «nella strategia di attacco alla povertà» [7]
.
Ad un’analisi senza pregiudizi del problema spingono anche le tendenze emergenti nei diversi sistemi di relazioni industriali. Contrariamente a questo si potrebbe pensare, infatti, le normative sui minimi non sono affatto un vecchio arnese, ormai in disuso, buono al più per paesi in via di sviluppo. Esse sono conosciute e praticate, in forme diverse, in quasi tutti i paesi industrializzati: in alcuni di essi, anzi, sono state introdotte relativamente tardi [8]
o, addirittura, in tempi recentissimi, sotto rincalzare della crisi economica [9]
.{p. 22}
Ve n’è abbastanza, insomma, per interrogarsi su quest’altra «peculiarità» del caso italiano; per il sindacato, in particolare, sembrano esservi sufficienti ragioni (quanto meno) per discutere se anche una normativa sui minimi possa essere assunta fra gli «obbiettivi rivendicativi realistici per i gruppi e gli interessi non garantiti» [10]
.
Ma l’atteggiamento del sindacato (non solo di quello italiano) nei confronti delle normative legali sui minimi è stato storicamente ambivalente. Quello del potere pubblico, per parte sua, sconfina da sempre nell’inadempienza. Non si tratta soltanto della (distorta) vicenda applicativa dell’art. 36 Cost. Nel nostro ordinamento esiste ancora un relitto normativo che impegna all’introduzione di metodi di fissazione dei salari minimi. Della legge 26 aprile 1930, n. 877 non sembra possibile limitarsi a parlare come di un «chiacchiericcio querulo proveniente da un altro pianeta» [11]
. L’osservazione è sicuramente vera, in generale, per le leggi di ratifica di convenzioni internazionali in materia di lavoro: nello specifico, però, non aiuta a chiarire i problemi. Soprattutto non serve a spiegare perché questa legge, come, del resto, progetti legislativi precedenti e successivi siano rimasti allo stato di mere enunciazioni verbali.
Un lavoro di scavo nel passato può essere, dunque, di qualche utilità. Dopo tutto le problematiche inerenti al salario minimo — nel nostro come negli altri sistemi di relazioni industriali — si sono presentate e sono state affrontate, sin dai primordi, con singolari tratti di uniformità. Guardare indietro, anche in questo caso, può servire per andare avanti.

2. Le origini del problema. Il dibattito sul salario minimo legale

«Simile ad ogni altra contrattazione, quella delle mercedi {p. 23}dev’essere lasciata alla libera concorrenza del mercato, né mai il legislatore dovrebbe impacciarsene» [12]
. Quest’affermazione centrale dei «Principi» di Ricardo tiene ancora il campo, nella sostanza, sin sul finire del secolo scorso [13]
. Nonostante l’apparire di fenomeni non contemplati, e non assorbibili, nello schema dell’economia classica, quali le concentrazioni monopolistiche e il peso crescente del sindacalismo operaio, «dalle cattedre si continuava a parlare della concorrenza come della legge fondamentale» [14]
. Negli economisti immediatamente posteriori a Ricardo è più marcatamente evidente la preoccupazione di contrastare, dal punto di vista teorico, la fondatezza delle «crescenti rivendicazioni delle unioni sindacali e di fornire altresì qualche giustificazione del profitto contro l’incipiente critica socialista» [15]
. La contestazione dell’attitudine dell’azione sindacale ad elevare permanentemente il livello reale dei salari si sposa alla critica dell’intervento statale in materia. Il fondamento logico ne è infatti il medesimo: in entrambi i casi si tratterebbe del tentativo, velleitario, di forzare dall’esterno la dinamica di funzionamento del mercato del lavoro, dal cui spontaneo operare dipenderebbe, in ultima analisi, la determinazione del livello dei salari [16]
.
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Note
[1] Per termini iniziali del dibattito si veda, per tutti, Pontarollo, Struttura dei costi del lavoro e contrattazione, Milano, Vita e pensiero, 1978, pp. 85-99. Sulla posizione sindacale, più specificamente, Trentin, Da sfruttati a produttori, Bari, De Donato, 1977, p. CXXVI ss., CL ss.; più in generale si v. i fascicoli dedicati a «La riforma del salario», supplemento a Rassegna stampa, Roma, 1978.
[2] Treu, Problemi giuridici della retribuzione, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1980, p. 6; ma già dello stesso a., Commento sub art. 36, in «Commentario della costituzione» (a cura di Branca), Bologna, Zanichelli, 1979, p. 96.
[3] Quest’aspetto del problema è quello che più ha suscitato l’attenzione dei giuristi del lavoro, motivando proposte, peraltro avanzate di sfuggita e senza alcuna elaborazione, di introduzione nell’ordinamento di una normativa sui minimi: cfr. Mortillaro, La problematica della retribuzione nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in I1 lavoro nella giurisprudenza costituzionale, Milano, Franco Angeli, 1978, p. 224; Bianchi D’Urso, Riforma del salario e impresa minore, in «Dir. e giur.», 1978, p. 266; Ghera, Retribuzione, professionalità e costo del lavoro, in «Giornale dir. lav. e rel. ind.», 1981, p. 423; Antignani, Riflessioni su retribuzione, parità di trattamento, automatismi e art. 36, 1 ° comma, Cost., in «Riv. giur. lav.», 1981, I, p. 294. La riflessione più approfondita resta quella di Treu, Commento, cit. pp. 94-100. Più recentemente un certo dibattito s’è svolto sulle colonne della rivista «Politica ed economia» intorno a un progetto di introduzione nel nostro paese di un sistema di salario minimo. La proposta, formulata da Bulgarelli, Cantaloni e Giovine (Smig anche in Italia: la prima proposta concreta, in «Pol. ed Econ.», 1983, 12, p. 23) appare, peraltro, esplicitamente circoscritta al «tema del sostegno del reddito agli individui in condizione di inoccupazione». Per accenni alla problematica trattata in queste pagine si v., comunque, gli interventi di Celata, Giù dalla scala, saliamo sullo smig, ivi, 1984, 5, p. 9 e Bolaffi, C’è smig e smig, ivi, 1984, 6, p. 11. Fra i contributi di economisti favorevoli all’introduzione di un salario minimo nel senso proprio del termine vanno invece segnalati quelli di Franciosi, Il salario minimo: esperienze e problemi, in «Econ. e lav.», 1983, 2, p. 3 ss; Dal Co, I problemi della politica contrattuale oggi, in «Ires Materiali», supplemento al n. 2/1984, p. 61 ss. Sul punto si v. anche infra, cap. III, parag. 5 2.
[4] Cfr. Rieser, Sindacato e composizione di classe, in «Lab. pol.», 1981, 4, p. 62 ss, e anche Santi, All’origine della crisi del sindacato, in «Quad. piacentini» 1982, 4, p. 50 s.
[5] Serpellon (a cura di), La povertà in Italia, Milano, Franco Angeli, 1982. In proposito d’obbligo è adesso il riferimento alle risultanze contenute nel rapporto redatto da un’apposita commissione governativa. Per un primo commento cfr. Gorrieri, Così si vince la povertà, in «la Repubblica», 29 settembre 1985.
[6] Indovina, La pellagra è scomparsa. I poveri no, ne «Il manifesto», 6 maggio 1982.
[7] ILO, Minimum wage fixing and economie development, Ginevra, 1968, p. 148: «Concepito come uno strumento per alleviare o vincere la povertà di lavoratori a basso reddito, l’effettività del salario minimo legale è limitata in tutti i paesi, giacché i bassi salari sono solo una delle molte cause di povertà...»; ma sottolineando quest’aspetto non si vuole «…suggerire che il salario minimo legale non sia importante, bensì mettere in rilievo l’importanza di vederlo in prospettiva come uno di un ampio numero di strumenti di politica sociale ed economica ...» (sul punto p. 9 s.). Spunti in quest’ottica anche in Courthéoux, Principes, fonctions complémentaires et dépassement du salaire minimum, in «Droit social», 1978, p. 286.
[8] È il caso, ad es., del Giappone dove una legge sui salari minimi è stata introdotta nel 1959 ed ampiamente rimaneggiata all’inizio degli anni ’70: si v. Starr, Minimum wage fixing, Ginevra, edizioni dell’ILO, 1981, p. 6. Sul sistema giapponese, in generale, Hanami, Japan, in International encyclopaedia for labour law and industrial relations, (a cura di Blanpain), Kluwer, The Netherlands, 1978, p. 74.
[9] Come in Olanda, dove il salario minimo legale è stato reintrodotto nel 1969, e in Belgio (1975): cfr. Starr, op. cit., p. 6. L’influenza della crisi economica sulla diffusione delle normative sui minimi salariali è sottolineata da Reynaud. Problemi e prospettive della contrattazione collettiva nei paesi membri della Comunità, (a cura della Commissione delle comunità europee), Bruxelles, 1979, p. 22. Di fatto ormai in tutti i paesi della CEE esiste una qualche forma di normativa sui minimi, anche se la legge tedesca in materia è virtualmente inoperante.
[10] Cella e Negrelli, Non è facile per i poveri farsi notare dal sindacato, ne «Il manifesto», 6 maggio 1982.
[11] Ghezzi e Romagnoli, Il diritto sindacale, Bologna, Zanichelli, 1982, p. 40.
[12] Ricardo, Principi dell’economia politica, Torino, UTET, 1856 (ma 1817), p. 421.
[13] La discussione circa gli effetti della contrattazione collettiva e dell’intervento dello Stato, tramite la fissazione di un salario minimo legale, sul livello dei salari non può considerarsi esaurita, del resto, neppure ai giorni nostri: sul punto cfr. sin d’ora Dobb, I salari, Torino, Einaudi, 1965 (trad, dalla IIa ediz. del 1959), p. 125 ss.
[14] Giugni, Introduzione a Perlman, Per una teoria dell’azione sindacale, Roma, Ediz. Lavoro, 1980 (ma 1956), p. 3.
[15] Dobb, Storia del pensiero economico, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 27. Nello stesso senso si v. Roll, Storia del pensiero economico, Torino, Boringhieri, 1967, p. 352 ss., con particolare riferimento a Nassau Senior, «sulle cui convinzioni fondamentali nulla getta una luce maggiore che la sua violenta opposizione al sindacalismo operaio» (ivi p. 355).
[16] Cfr. Dobb, I salari, cit., p. 98 ss., 125 ss. Assolutamente esplicite al riguardo le tesi di Mountifort Longfield: nelle sue «Lectures on political economy» tenute a Dublino nel 1833 egli afferma l’impossibilità di «regolare complessivamente i salari, sia con l’organizzazione dei lavoratori, sia con misure legislative» giacché «l’ammontare dei profitti e dei salari è chiuso entro confini che nessun corpo legislativo, con l’esercizio diretto della propria autorità, può estendere. Le leggi e l’organizzazione dei lavoratori possono solo provocare danni, mai vantaggi»: citazioni da Dobb, Storia, cit., p. 27, 105 ss. È appena il caso di ricordare che quando Longfield tiene le sue «Lectures» il parlamento inglese aveva da non molto tempo cessato di legiferare in materia salariale: nel 1813, infatti, erano state abrogate le ultime leggi che regolamentavano il livello massimo dei salari. L’abrogazione, peraltro, sopravveniva quando la funzione sociale dell’istituto era già da tempo esaurita: con essa si giungeva a suggellare, con ritardo, la realtà di un capitalismo «divenuto abbastanza forte da render tanto inattuabile quanto superflua una regolamentazione legale del salario»: così Marx, Il capitale, I t. 2, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 803 (ivi ampi ragguagli sugli interventi legislativi sui massimi salariali dal XIV secolo in poi). Per una valutazione più completa delle teorie tradizionali dei salari si deve tener conto che non tutte presentano un pari grado di rigidità: l’interpretazione marshalliana, ad esempio (che peraltro è espressa in forma compiuta sul finire del secolo: i «Principles» sono pubblicati nel 1890), è sicuramente meno schematica e più aperta ad ammettere l’influenza dell’azione sindacale. Non a caso di Marshall è stato detto che si trattava di «un riformista liberale: sebbene non intendesse rinunciare ad alcun argomento che la moderna scienza economica potesse offrire in difesa del capitalismo, egli era anche restio a sbarrare la strada a tutte le proposte di riforme»: Roll, Storia, cit., p. 408.