I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
Quanto alla forma da attribuirgli nell’ordinamento italiano, è nostra convinzione che il salario minimo legale debba essere determinato a livello nazionale, intercategoriale e presentare il maggior grado di uniformità possibile per l’insieme della forza lavoro. Si è visto che le funzioni attribuibili alla norma minima sono storicamente molteplici: misura di sollievo dei redditi più bassi, strumento di regolazione della concorrenza, ma anche elemento della politica economica governativa. Ora, chi ha avuto la pazienza di seguirci sino in fondo, avrà intuito che proprio a quest’ultima finalità noi attribuiamo particolare importanza. E non v’è dubbio — le esperienze straniere in proposito sono uniformi
[243]
— ch’essa possa essere soddisfatta assai meglio da un salario minimo gene{p. 88}rale piuttosto che da una normativa differenziata per settori. Non a caso proprio l’accentuazione delle finalità di politica economica ha determinato, in paesi già influenzati dal modello britannico, una tendenza evolutiva verso un salario minimo nazionale
[244]
. Nello stesso Regno Unito, del resto, i minimi fissati dai vari wage councils inclinano, da tempo, ad oscillare all’interno di una fascia salariale piuttosto ristretta
[245]
; mentre in Francia, dove l’utilizzo dello smig in chiave di politica economica è sempre stato presente, la sottolineatura di questo connotato dell’istituto, operata dalla riforma del 1970
[246]
, ne ha significativamente indotto una più marcata uniformizzazione, con l’abolizione delle differenze zonali e l’allineamento del salario minimo agricolo
[247]
.
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I pochi autori italiani che si sono occupati del problema sono, sostanzialmente, concordi nella preferenza per un salario minimo intercategoriale
[248]
, di cui si rileva anche la maggiore congruenza con le direttive costituzionali
[249]
. Una posizione diversa è quella di Gino Giugni che, nel dibattito suscitato dall’approvazione della legge Vigorelli, sostenne la pericolosità di un minimo nazionale uniforme e, viceversa, l’opportunità di una differenziazione per settori e per zone
[250]
. Ma l’analisi di Giugni, oltreché riferita ad un’esperienza, quale quella consacrata nella legge 741/1959, di fissazione di livelli salariali distinti per qualifica
[251]
, appare troppo strettamente legata ai caratteri, poi superati, delle relazioni industriali negli anni ’50, per offrire indicazioni utilizzabili per le esigenze di oggi.
I caratteri che noi riteniamo coessenziali al salario minimo legale escludono che si possa tener conto, nella determinazione di esso, del profilo familiare della retribuzione. Ad esso, del resto, non sono rapportati, se non per implicito e secondo valutazioni medie, neanche i livelli salariali collettivi, e la stessa giurisprudenza sulla retribuzione sufficiente evita, correttamente, di farvi riferimento
[252]
. La Cotte costituzionale, al contrario, ha valorizzato in un paio di occasioni il riferimento alla famiglia contenuto nell’art. 36 Cost., con decisioni, peraltro, assai infelici, oltreché nel meri¶{p. 90}to
[253]
, anche sul piano di una corretta esegesi della norma. Dai lavori preparatori della costituzione infatti emerge con nettezza, anche negli interventi degli esponenti di parte cattolica, sicuramente più sensibili alla specifica tematica
[254]
, la convinzione che quel riferimento non implichi affatto una determinazione del salario secondo le particolari esigenze dei singoli nuclei familiari, cui si dovrà provvedere con strumenti più appropriati, quali, tipicamente, gli assegni familiari
[255]
. Eliminare il riferimento nella Carta alle condizioni familiari sarebbe probabilmente servito ad evitare deplorevoli confusioni nell’interpretazione della norma: resta fermo, comunque, che — a meno di vanificare il significato di qualsivoglia politica salariale, necessariamente ispirata a valori standard — di esse non si possa tenere conto né in sede di contrattazione sindacale, né attraverso una legislazione sui minimi.
Nella fissazione del salario minimo legale non si potrà prescindere dalla considerazione del nesso salario-orario di lavoro, sia riferendo la garanzia del minimo ad una prestazione giornaliera di durata standardizzata, al di là della quale opereranno le maggiorazioni per lavoro straordinario
[256]
, sia determinando una misura oraria del salario minimo, per evitare di entrare in rotta di collisione con la diffusione, sempre maggiore, di lavori a tempo parziale. Anche tenendo conto del vincolo costituzionale di proporzionalità fra retribuzione e quantità del lavoro
[257]
, la misura settimanale e/o mensile del salario minimo dovrà essere assicurata a quei lavoratori la cui prestazione part-time sia accompagnata da un ob¶{p. 91}bligo di esclusività imposto dal datore di lavoro
[258]
. Nella generalità dei casi, invece, a prestazioni lavorative ad orario ridotto non potrà non corrispondere una misura ridotta del salario minimo, peraltro sempre suscettibile di essere elevata dalla contrattazione collettiva. Soluzioni diverse non sembrano realisticamente praticabili; dietro l’apparenza di una tutela rafforzata, esse finirebbero, nei fatti, per frapporre indebiti ostacoli alla dinamica dei rapporti sociali, con effetti controproducenti per gli stessi lavoratori.
Centrale in tutte le esperienze di fissazione di un salario minimo legale è l’individuazione di un meccanismo per adeguarne la misura agli aumenti del costo della vita. Il modello americano, in cui si rende necessario ricorrere a successivi emendamenti della legge originaria, è stato criticato per la sua scarsa flessibilità
[259]
. Assai più funzionale, e più facilmente innestabile nel nostro sistema di relazioni industriali, appare quello francese, basato sul funzionamento di un congegno di scala mobile, legato all’andamento dell’indice dei prezzi al consumo. Al salario minimo dovrebbe essere assicurata una copertura piena dalla svalutazione monetaria, riservando, poi, al governo la possibilità di stabilire aumenti ulteriori (magari previa consultazione con le confederazioni sindacali) in connessione ad obiettivi specifici di politica economica.
La credibilità delle legislazioni sui minimi riposa ovunque sulla consistenza degli apparati di controllo e sulla qualità delle sanzioni previste in caso di inadempimento. Basti pensare che negli Stati Uniti, dopo le prime sentenze della Corte Suprema che invalidarono, negli anni ’20, alcune leggi statali sui minimi, fu sufficiente alle autorità degli altri Stati bloccare il flusso di risorse finanziarie necessarie al funzionamento degli apparati operativi e di controllo delle minimum wage laws per paralizzarne l’effettività, senza bisogno di ricorrere ad una formale abrogazione delle stesse
[260]
. Un certo tasso di ineffettività della legislazione sociale in ¶{p. 92}genere (ivi comprese ovviamente le leggi sui minimi) si riscontra ancor oggi: più accentuato nei paesi in via di sviluppo, ma non trascurabile neppure nei contesti industriali avanzati, come hanno dimostrato i risultati di numerose inchieste
[261]
. Anche nei primi peraltro prevale la convinzione che «una legge sui minimi parzialmente applicata» è «preferibile all’assenza di intervento»
[262]
in questo campo. Piuttosto la constatazione di un livello, più o meno elevato, di disapplicazione delle normative sui minimi ha suggerito ovunque proposte di riforma: dall’inasprimento delle sanzioni alla pubblicizzazione ampia delle sentenze di condanna, dalla restrizione del diritto di appello per il datore di lavoro, al far gravare su di lui l’onere della prova. Altrove, più radicalmente, le controversie in materia sono state sottratte alla competenza delle corti ordinarie e affidate ad organismi speciali che danno maggiori garanzie di tempestività decisionale
[263]
.
Le funzioni di controllo sono assegnate, in genere, agli ispettori del lavoro; talora sono però previsti funzionari ad hoc (sul modello dei wage inspectors inglesi). Agli ispettori, in parecchi casi, è attribuita la titolarità dell’azione giudiziale contro le violazioni delle leggi sui minimi
[264]
: il suggerimento potrebbe essere utilmente accolto anche da noi, con l’avvertenza, però, che si tratta di un’indicazione ancora parziale. Resta sempre vero, infatti, che «anche i più efficienti ispettori possono fare ben poco se i lavoratori per loro conto non hanno il coraggio di denunciare ai medesimi le trasgressioni della legge»
[265]
. Il rilievo richiama l’esigenza, presente anche nella raccomandazione n. 135/1970 dell’OIL
[266]
, di un’adeguata protezione dei singoli contro le azioni di rappresaglia dei datori di lavoro, segnatamente il licenziamento. Anche per ¶{p. 93}questo riguardo, in altre parole, una normativa sui minimi, nel contesto italiano, mostra la sua attitudine ad integrarsi in forme più ampie di intervento sui rapporti di lavoro, saldandosi alle proposte, che sembrano ormai mature, di estensione della disciplina protettiva dei licenziamenti alle unità produttive minori.
Le normative sui minimi appaiono quasi ovunque assistite da sanzioni penali pecuniarie. In proposito è stata giustamente segnalata l’opportunità di un tempestivo adeguamento del valore monetario delle multe, per evitare che il corso dell’inflazione ne attenui l’efficacia deterrente
[267]
. L’entità della sanzione potrebbe essere prevista in cifra fissa, periodicamente rivalutabile, o in misura pari all’importo delle somme non corrisposte (o multipla di esso). Si potrebbe anche opportunamente predeterminarne la destinazione, per esempio al finanziamento della cassa unica assegni familiari.
L’introduzione nell’ordinamento di una normativa sui minimi manterrebbe la sua ragion d’essere — come si accennava — anche qualora venisse realizzato un meccanismo di estensione erga omnes dell’efficacia dei contratti collettivi. Come attestano esperienze straniere, in cui i due strumenti coesistono, la norma minima legale conserverebbe la sua funzione di tutela per i lavoratori dei settori privi di contratto collettivo e, più in generale, continuerebbe ad offrire una base d’appoggio alla contrattazione (con efficacia generale). Per altro verso l’attuazione per via legale del principio di retribuzione sufficiente non è detto che toglierebbe definitivamente spazio alla giurisprudenza ex art. 36: questa, probabilmente, potrebbe continuare ad operare valorizzando appieno l’altra direttiva, di proporzionalità, contenuta nella norma costituzionale. La corresponsione del salario minimo legale, in altre parole, non dovrebbe, di per sé, impedire al giudice di far riferimento alle tariffe collettive per adeguare in melius la retribuzione di lavoratori, non coperti da contratto collettivo, di qualifica superiore a quelle, marginali, cui la tutela offerta dalla legge sarebbe più specificamente rivolta
[268]
.
Si diceva all’inizio dell’attenzione assolutamente marginale riservata ai problemi di tutela dei più bassi redditi da lavoro dipen
¶{p. 94}dente nel dibattito sulla riforma della struttura del salario. La disdetta, nel giugno dell’82, dell’accordo sulla scala mobile è sembrata, più recentemente, coniugarsi nella Confindustria con una rinnovata sensibilità in proposito. Senonché la proposta di istituire un salario sociale nazionale
[269]
, oltreché per una certa genericità di formulazione e per il contesto in cui è stata inserita, lascia, quanto meno, perplessi per la discrepanza fra l’intento dichiarato (di protezione delle fasce marginali di forza-lavoro) e lo strumento indicato (se non abbiamo frainteso, in un accordo interconfederale). Quand’è di tutta evidenza che anche un accordo interconfederale non potrebbe valicare i limiti di efficacia che gli sono propri, lasciando al palo di partenza l’esigenza per cui si dovrebbe porlo in essere. Fatto è che, se hanno fondamento le analisi che vedono nei fenomeni di decentramento produttivo un anello imprescindibile dell’attuale dinamica di ristrutturazione del capitalismo italiano, è possibile che la determinazione degli industriali di muovere verso un sistema di protezione salariale di efficacia generalizzata sia meno ferrea di quanto si vorrebbe lasciar intendere.
Note
[243] Cfr. ILO, op. cit., p. 80.
[244] Cfr. Starr, op. cit, p. 22, con riferimento soprattutto alle esperienze della Giamaica e dell’India.
[245] Cfr. McCormick e Turner, The legai minimum wage, employers and trade unions: an experiment, in «Manchester school of economic and social studies», vol. XXV, 1957, p. 288. Da tempo, peraltro, il sistema dei consigli salariali è sottoposto a critiche, sostenendosi ch’esso presenta elementi non trascurabili di vischiosità istituzionale. I consigli, in altre parole, avrebbero tendenza a sussistere anche quando le condizioni che ne avevano giustificato la costituzione nel settore specifico siano venute meno. Proprio per questo la più recente riforma dell’istituto, attuata nel 1975, ha previsto la conversione, in circostanze determinate, di un wage council in uno statutory joint industrial council, imitativo delle strutture negoziali private, con abolizione quindi del terzo pubblico, per favorire lo sviluppo della contrattazione diretta fra le parti: cfr. Starr, op. cit., p. 75. Una recente proposta di introduzione nell’ordinamento inglese di un salario minimo legale generale è stata formulata da Pond e Winyard, The case for a national minimum wage, Londra, Low Pay Unit, 1982.
[246] Il funzionamento pratico del nuovo smic, fra l’altro, ha determinato una crescita del salario minimo in misura superiore a quella del salario medio (fra il ’70 e il ‘75 lo smic è aumentato del 131%, mentre il tasso medio dei salari si è elevato solo del 108%: cfr. Courthéoux, Principes, cit., p. 282), provocando un restringimento dei differenziali salariali, almeno all’interno delle qualifiche inferiori, e smentendo le affermazioni troppo rigide di chi aveva sostenuto che le normative legali sui minimi, per questo riguardo, non possano avere conseguenze apprezzabili: in questo senso cfr. Roberts, Mise en question des methodes traditionnelles de détermination des salaires, in Détermination des salaires (a cura dell’Ocde), Parigi, 1974, p. 376.
[247] Queste due misure, invero, furono prese nel ’68 all’indomani degli accordi di Grenelle e, successivamente, inglobate nella riforma dello smic. Nei sistemi di salario minimo generale la tendenza verso l’abolizione di vari tipi di differenziazioni (zonali, settoriali ecc.) è, comunque, dappertutto crescente: cfr. Starr, op. cit., p. 55.
[248] Oltre a quelli citati in nota 3 si v. anche Perone, Su un ‘eventuale disciplina legale dei minimi retributivi, in «Dir. lav.», 1971, I, p. 387 ss. L’unico autore che ha proposto una normativa sui minimi ispirata al modello inglese dei wage councils è Becca, Le categorie non protette dal contratto collettivo di lavoro, in «Riv. giur. lav.», 1959, I. p. 231 ss.
[249] Così Treu, Commento sub art. 36, cit., p. 97.
[250] Nel più volte citato saggio su La validità erga omnes, p. 89.
[251] L’analisi di Giugni, oltre tutto, poggiava su un riferimento alla teoria marginalista dei salari assai discutibile. Il marginalismo, infatti, è difficilmente utilizzabile a sostegno di un’ipotesi di legislazione sui minimi di qualche significato: si ricordi, ad esempio, la polemica fra il Lester ed autori americani di scuola marginalista all’indomani dell’approvazione del Pair Labor Standards Act, per i cui termini cfr. Tiano, L’action syndicale ouvrière et la théorie économique du salaire, Parigi, Génin, 1958, p. 93. Pur con le riserve che suscita, lo scritto di Giugni resta, per approccio interdisciplinare, quanto di meglio sia stato prodotto dalla dottrina giuslavorista italiana sui problemi della norma minima.
[252] Cfr. Pera, La determinazione, cit., p. 419; Riva-Sanseverino, Applicabilità, cit., p. 44; V. Spagnuolo Vigorita, Conguaglio per scala mobile dell’assegno familiare e retribuzione, in «Dir. lav.», 1968, I, p. 207.
[253] Corte cost., 4 maggio 1960, n. 30, in «Giur. it.», 1960, I, 1, c. 753; Corte cost., 26 aprile 1962, n. 41, in «Riv. dir. lav.», 1962, II, p. 437. Nel primo caso la Corte ritenne legittima la diversa misura dell’indennità di contingenza per i portieri, disposta dalla legge 4 febbraio 1958, n. 23, in relazione alla qualità di capo-famiglia dell’avente diritto. Nel secondo respinse l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’indennità di caropane. In entrambe le occasioni le argomentazioni della Corte risultano inconferenti, giacché riferite ad elementi retributivi la cui ratio non è affatto legata ai carichi familiari del lavoratore.
[254] Si v. ad esempio l’intervento dell’on. Gabrieli, in Atti, cit., p. 3803. Anche a seguito di queste precisazioni l’on. Foa rinunciò a svolgere un emendamento soppressivo dell’inciso «per sé e per la famiglia».
[255] Ghidini, in Atti, cit., p. 3806.
[256] Si ricorderà che tale indicazione era contenuta già nel d.d.l. 895/1954.
[258] Né vale richiamare in contrario la normativa prevista per il personale incaricato e supplente nelle scuole (come fa Morgera, La nozione di rapporto di lavoro a tempo parziale, in «Dir. lav.», 1981, I, p. 237), trattandosi di disposizioni viziate da patente incostituzionalità. Nel senso del testo si v. invece Loy, La disciplina giuridica del rapporto di lavoro a tempo parziale, in «Riv. giur. lav.», 1980, I, p. 338 ss.
[259] Cfr. Starr, op. cit., p. 121. Di fatto, nel periodo 1966-77, con la sola eccezione degli Stati Uniti, il valore reale dei salari minimi legali, nei contesti industriali avanzati, è sostanzialmente aumentato (ivi, p. 129, 133).
[260] Cfr. Cheyney, L’évolution de la législation sur les salaires minima aux Étas-Unis, in «Rev. internat. travail», 1938, Vol. XXXVIII, p. 29.
[261] Cfr. Starr, op. cit., p. 136 ss. con riferimento alle indagini condotte nel Regno Unito, negli USA e in Olanda.
[262] Starr, op. cit., p. 149.
[263] È il caso delle Filippine, dell’India e anche di alcune provincie del Canada.
[264] Negli Stati Uniti è diffuso fra gli ispettori il ricorso a tecniche, in senso lato, conciliative nel tentativo di risolvere le controversie in materia con strumenti informali di efficacia immediata. Simile approccio del resto era già praticato sin dagli anni ’30, in riferimento alle leggi statali sui minimi: cfr. Brandeis, op. cit., p. 539.
[265] Kahn-Freund, Labour and the law, cit., p. 10.
[266] Tale raccomandazione riguarda i sistemi di determinazione dei salari minimi con particolare riferimento ai paesi in via di sviluppo: la si può leggere in appendice a Starr, op. cit., p. 201.
[267] Starr, op. cit., p. 145.
[269] Del resto non particolarmente nuova: in essa infatti non era difficile avvertire suggestioni di idee già da tempo avanzate, ad esempio, da Sylos Labini, La riforma della scala mobile, in «Mondo operaio», 1981, 1, p. 29; Id., Un esercito del lavoro, in «la Repubblica», 22 dicembre 1981.