I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
L’inadeguatezza, tempestivamente percepita, della legge 741 motivò anche una rinnovata ipotesi di legislazione sui minimi, maturata, questa volta, in ambienti intellettuali vicini alla CISL
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. Anche in questo caso la proposta sarà lasciata rapidamente cadere, non avvertendosi la sua capacità di integrarsi funzionalmente nel nuovo assetto di relazioni industriali caratterizzato dall’avvio della contrattazione aziendale
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. Al contrario, si rafforzò la convinzione che fosse sufficiente puntare sulla capacità diffusiva della norma collettiva, giunta vicina a un punto di maturazione, per garantire condizioni minime di tutela all’insieme della forza-lavoro; e ciò anche a prescindere da un’estensione erga omnes della stessa, di cui, significativamente, da allora si parlerà sempre meno
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7. In luogo di una conclusione: materiali per una discussione sulle prospettive in Italia di una legislazione sui minimi
All’inizio degli anni ’70, con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, l’attenzione nei confronti della norma minima legale toccherà, forse, il suo punto più basso, non solo per il sostegno (indiretto) offerto dalla nuova legge alla contrattazione sindacale, ma anche per la presenza in essa di un disposto rivolto alla tutela di un settore tipicamente debole di forza-lavoro, quale quella impiegata nella esecuzione di pubblici appalti, con il quale l’ordinamento italiano si allineava, superando la frammentazione normativa preesistente, alla disciplina da lungo tempo operante nei principali paesi industrializzati
[211]
. Persino chi aveva sostenuto l’opportunità di integrare il sistema contrattuale articolato con una normativa sui minimi salariali a tutela delle fasce marginali di lavoro dipendente, a fronte di una norma, quale quella contenuta nell’art. 36 dello Statuto, non riuscirà a sottrarsi alla suggestione dell’avvenuta quadratura del cerchio, spingendosi ad affermare che «oggi, l’area a cui i contratti non arrivano è marginale oltre che ristretta: e l’articolo in esame... dovrebbe appunto, se non addirittura cancellar¶{p. 80}la, centrarne ancora più le dimensioni»
[212]
. A smentire l’attendibilità della previsione di Federico Mancini non vale tanto richiamare il carattere ambiguo della protezione accordata dal disposto statutario. Infatti, — e a prescindere dall’effettività dello stesso
[213]
— il rispetto dell’obbligo di applicazione della disciplina collettiva imposto dalla norma sembra da valutare alla stregua del criterio del conglobamento, legittimando, in tal modo, il discostamento in pejus da singole clausole del contratto di categoria, in ipotesi anche da quelle che regolano il trattamento economico
[214]
. Anche l’art. 36 dello Statuto, in altre parole, appartiene, come tutti i provvedimenti consimili, alla versione «debole» della politica del salario minimo legale
[215]
, rientrando a pieno titolo in quel lotto di strumenti cui, storicamente, si è fatto ricorso dai pubblici poteri, con l’obbiettivo (più o meno esplicito) di evitare un intervento diretto in materia salariale
[216]
. La diagnosi di Mancini — più che in questi rilievi
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— non trova conferma, però, soprattutto nei dati emergenti dalla realtà sociale, dove sempre più improbabile appare l’ipotesi che «lo sviluppo dell’industrializzazione, stimolando il senso della correttezza imprenditoriale, ...» possa ulteriormente limitare «... il numero dei lavoratori scoperti attraverso uno spontaneo adeguamento alla disciplina di categoria»
[218]
. L’analisi di Mancini, probabilmente, era forzata già nel momento in cui venne formulata
[219]
: farle carico di specifiche disattenzioni sarebbe, comun¶{p. 81}que, (quanto meno) ingeneroso. Il ritardo nell’osservazione dei processi di decentramento produttivo — vuoi nelle forme «sommerse» che in quelle «regolari» — accomuna infatti largamente gli studiosi di relazioni industriali e gli stessi sindacalisti
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e non è da escludere che abbia contribuito ad ingigantirne la portata. Come che sia, la rilevanza del fenomeno è attualmente indiscussa e, con essa, dei corollari connessi di segmentazione del mercato del lavoro e di «regressione del contratto collettivo (che) è oggi un serio problema per i sindacati e investe milioni di lavoratori»
[221]
. Le motivazioni del decentramento produttivo sono, notoriamente, molteplici, non riconducibili esclusivamente alla volontà di sottrarsi al rispetto dei livelli salariali posti dai contratti collettivi. In generale, anzi, è all’insieme dei vincoli legislativi e contrattuali che si mira a sottrarre l’azione dell’impresa nei rapporti coi dipendenti. Nel settore «sommerso», poi, è particolarmente accentuato l’obbiettivo di evasione dell’imposizione fiscale e previdenziale. Sembra indubitabile, comunque, che, in molti casi, accanto a queste ragioni sia presente anche quella di corrispondere salari, mediamente, più bassi
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Il decentramento produttivo, in ogni caso, costituisce soltanto parte del problema del sottosalario. Si ricordava all’inizio come ad alimentare il tasso di ineffettività della contrattazione contribuiscano, in misura non trascurabile, i mutamenti nella composizione della forza-lavoro, con l’accresciuto peso quantitativo di settori dove l’organizzazione sindacale è tradizionalmente debole. Sussistono poi intere categorie, anch’esse di consistenza non irrilevante, per le quali il contratto collettivo, stipulato da associazioni di infima rappresentatività, costituisce poco più che un pezzo di carta: si pensi ai casi notori degli insegnanti di scuole private e degli addetti a studi professionali
[223]
. A fronte di quest’ordine di problemi potrebbe venire la tentazione di riproporre la questione dell’estensione erga omnes dei contratti collettivi. Suggerimenti in tal senso, infatti, non sono mancati
[224]
: ma è (quanto meno) dubbio che, per questa strada, si possa giungere a qualche risultato. A parte il fatto che la contrattazione con efficacia generale lascerebbe irrisolto il problema per i settori eventualmente privi di tutela sindacale, come pure per quelli con organizzazione così de¶{p. 83}bole, da non garantire l’ottenimento neanche di livelli minimi accettabili, resta il rilievo assorbente che la prospettiva dell’erga omnes, sia pure da attuare, previa revisione costituzionale, con un meccanismo diverso da quello, sicuramente impraticabile, dell’art. 39, sembra comunque porsi in rotta di collisione con l’assetto della vigente costituzione materiale. La necessità, propria di qualsiasi sistema di contrattazione collettiva ad efficacia generale, di introdurre meccanismi di determinazione del soggetto sindacale, titolare del potere negoziale per ogni singola unità contrattuale
[225]
, appare tuttora contraddittoria col caratteristico assetto sindacale italiano. Ragionare in termini diversi sarebbe, forse, possibile se il processo di unità sindacale, avviato sul finire degli anni ’60, fosse giunto a compimento. Quel processo viceversa, dopo esser rimasto per lungo tempo cristallizzato nella forma della Federazione unitaria, ha manifestato segni preoccupanti di regressione
[226]
. Pur senza voler amplificare la portata delle più recenti tensioni, sembra indubitabile, ancor più dopo la frattura del febbraio ’84, che la regola regina dei rapporti fra le tre centrali sindacali sia destinata a rimanere quella che consacra il principio di «pari dignità» nell’azione contrattuale, quale che sia la composizione formale degli organismi sindacali unitari. La sola eventualità che questo principio non scritto, ma dotato di effettività assai maggiore di qualsiasi ipotizzabile disciplina legislativa della contrattazione, possa essere incrinato come conseguenza necessaria di una normativa sull’erga omnes, è tale da far ritenere del tutto inverosimile che i sindacati possano modificare un atteggiamen
¶{p. 84}to in proposito assolutamente consolidato. In futuro, si ripete, potrà essere la stessa centrale sindacale unificata a richiedere una regolamentazione legislativa dell’ambito di efficacia del contratto, se le circostanze ancora la faranno apparire opportuna; allo stato attuale simile intervento non potrebbe non essere visto come un’indebita interferenza in una sfera di rapporti che storicamente si è assestata, e ha mostrato di voler funzionare, al di fuori di costrizioni normative. L’ipotesi di una legislazione sui minimi salariali, al contrario, non sembra contenere controindicazioni specifiche e presenta il vantaggio ulteriore di non dipendere, per la sua fattibilità, da mutamenti nell’assetto dell’ordinamento sindacale, offrendosi come uno strumento realizzabile in tempi «politici». Salario minimo legale, dunque. Assodatane la praticabilità istituzionale, anche alla luce delle esperienze realizzate negli altri contesti industriali, resta da chiedersi dell’opportunità di simile intervento in un quadro congiunturale caratterizzato da elevati tassi di inflazione e disoccupazione. In realtà è proprio l’emergere di un costante trend inflazionistico, in misura più o meno accentuata, in tutti i paesi industrializzati, a segnalare l’opportunità di un intervento di tutela dei redditi più bassi. Tant’è vero che in nessuno dei paesi dove misure di salvaguardia dei salari minimi sono conosciute da tempo, esse sono state messe in discussione in conseguenza delle tensioni inflazionistiche: semmai, anzi, sono state irrobustite
[227]
. Per altri paesi «che ancora non avevano adottato tali disposizioni, l’accelerazione dell’inflazione è stata l’occasione per farlo»
[228]
. In generale è ovunque diffusa la consapevolezza dell’impraticabilità sociale di una strategia di rientro dall’inflazione, basata anche sulla compressione dei redditi delle categorie meno favorite
[229]
.
Note
[208] Si v. il noto articolo di Grandi, Prospettive in Italia per una legislazione sui minimi, in «Pol. sind.», 1962, p. 102 ss. Ma il favore nei confronti di una legislazione sui minimi era cominciato a maturare all’interno della CISL già in occasione del dibattito precedente l’approvazione della legge Vigorelli: cfr. Il progetto Vigorelli sui contratti, in «Pol. sind.», 1958, p. 375, nonché, in generale, le riflessioni di Treu, La CISL degli anni ’50, cit., p. 362 ss.
[209] Per un cenno in questo senso v. però Mancini, Libertà, cit., p. 152 ss.
[210] Non a caso una proposta avanzata in quello stesso periodo all’interno della CGIL (da Tatò, Ordinare la struttura della retribuzione secondo la logica e i fini del sindacato, in «Pol. ed econ.», 1961, p. 59 ss.) di introduzione di un salario minimo di sistema, da realizzare tramite la contrattazione interconfederale, troverà pessima accoglienza nel dibattito sulla politica salariale allora in corso in seno alla confederazione e sarà stroncata da Trentin (Obiettivi delle rivendicazioni salariali e autonomia dell’azione del sindacato, in «Pol. ed econ.», 1962, ora in Da sfruttati a produttori, cit., p. 67 ss.), fra l’altro, con la significativa motivazione che «essa viene a collocarsi di fatto in una logica che paralizza e non suscita l’iniziativa sindacale... Fatalmente il salario minimo generale diventerà la rivendicazione delle categorie meno retribuite, mentre gli altri strati di lavoratori vedranno in esso soltanto un freno alla loro lotta di classe». L’indicazione di Tatò, in altri termini, veniva respinta perché si temeva che potesse rappresentare una remora allo sviluppo dell’articolazione contrattuale. Eppure in essa vi erano delle intuizioni, quali l’idea che il salario minimo di sistema dovesse essere indifferenziato, superando le articolazioni zonali allora esistenti, che qualche anno dopo il movimento sindacale dovrà fare proprie. Per le valutazioni critiche del meccanismo costituzionale di cui all’art. 39, diffuse in quel torno di tempo, si v. Pera, op. ult. cit.; Giugni, La validità, cit.; Mancini, op. ult. cit., e, più avanti, Treu, Teorie e ideologie nel diritto sindacale (a proposito di un recente libro), in «Riv. trim. dir. e proc. civ.», 1968, p. 1640 ss.
[211] Anche questo problema si era riproposto dopo la caduta dell’ordinamento corporativo. Nel 1951 vennero emanate direttive ministeriali per l’inserimento nei capitolati d’appalto di opere pubbliche di clausole che impegnavano al rispetto dei contratti collettivi. L’anno seguente fu approvata la legge 2 agosto 1952, n. 1305, di ratifica della convenzione n. 94/1949 dell’OIL, recante disposizioni di segno analogo: cfr. Napoletano, Appalto di opere pubbliche e tutela dei diritti dei lavoratori, in «Riv. giur. lav.», 1953, I, p. 267 ss; Purpura, op. cit., p. 58 ss. Disposizioni specifiche saranno successivamente inserite non solo nella legislazione sui pubblici appalti, ma anche in quella sugli incentivi creditizi e finanziari alle imprese: cfr. Mancini, Commento sub art. 36, in Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, Bologna, Zanichelli, 1972, p. 544; da ultimo Romeo, Sul raccordo tra benefici all’impresa privata e tutela del lavoro, in «Riv. it. dir. lav.», 1983, I, p. 254 ss.
[212] Mancini, op. ult. cit., p. 546.
[213] Che sembra alquanto scarsa: significativi rilievi in proposito in Bortone, Commento sub art. 36, in Lo statuto dei lavoratori (a cura di Giugni), Milano, Giuffré, 1979, p. 646 ss.
[214] Cfr. Mancini, op. ult. cit., p. 555 e, ora, Ghezzi e Romangoli, op. cit., p. 178; contra Centofanti, Commento sub art. 36, in Commentario dello statuto dei lavoratori (a cura di Prosperetti), III, Milano, Giuffré, 1975, p. 1222, secondo cui il riferimento ai contratti collettivi implica una comparazione istituto per istituto. Ma è evidente come la stessa disparità di interpretazioni costituisce un indice della fragilità della norma e ne compromette il tasso di effettività.
[215] Uno spunto in questo senso in Centofanti, op. cit., p. 1201, che valuta il disposto statutario solo come un’anticipazione di una normativa sui minimi salariali.
[216] V. retro, parag. 3
[217] Di cui lo stesso autore è pienamente consapevole, al punto da definire la norma dello statuto «un palliativo» (p. 546).
[218] Mancini, op. ult. cit., p. 546.
[219] Secondo Foa, ad esempio, l’inizio dei fenomeni di decentramento produttivo, «in risposta a una pesante situazione di conflitto in fabbrica», va fatto risalire già alla fine degli anni ’60: cfr. Contrattazione collettiva, sindacato e classe operaia, in «Econ. e lav.», 1976, ora in Per una storia, cit., p. 203. Al fondo, comunque, non va dimenticato che la struttura industriale italiana ha sempre presentato tratti di accentuata frammentazione e in ciò sta la radice prima, mai recisa, della limitata sfera di efficacia della contrattazione e delle disuguaglianze salariali.
[220] Cfr. Rieser, op. cit., p. 62.
[221] Foa, op. ult. cit., p. 203; Id., Sul sindacato, in «Quad. piacentini», 69, 1978, p. 9, con pessimistici rilievi «sulla speranza, lungamente coltivata, di recuperare (il secondo mercato) al controllo sindacale e legale del mercato del lavoro salariato stabile». In quest’ordine di preoccupazioni Foa è stato fra i primi a rilanciare l’idea di un salario minimo legale a tutela delle fasce deboli del mercato del lavoro: cfr. La struttura del salario, Roma, Alfani, 1976, p. 16.
[222] D’obbligo il riferimento al saggio di Fuà, Occupazione e capacità produttive: la realtà italiana, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 38. Si v. anche la replica di Trentin, Considerazioni sopra un recente lavoro di Giorgio Fuà, in Da sfruttati a produttori, cit., p. CXLIX, con una certa sottovalutazione del peso della dimensione direttamente salariale fra le motivazioni del decentramento produttivo. Nell’ambito dell’imprenditoria minore sono, poi, da sempre note le condizioni di sottosalario praticate nel settore artigiano: da ultimo cfr. Romeo, Nota a Cass., 28 agosto 1980, n. 4991, in «Riv. giur. lav.», 1981, II, p. 59 ss. Ad esse non recò un rimedio, neppure provvisorio, la stessa legge Vigorelli, che pure aveva fra i suoi obiettivi di fondo proprio quello di offrire tutela ai lavoratori delle imprese artigiane. Infatti la Corte costituzionale, con due successive sentenze, stabilì che i decreti legislativi ex lege 741 non devono far riferimento ad una nozione ontologica di categoria, ma all’inquadramento stabilito in sede di contrattazione collettiva. Pertanto, se tale risulta la volontà dei soggetti stipulanti il contratto collettivo, le imprese artigiane possono restare escluse dalla sfera di applicazione dell’erga omnes (sent. n. 70/1963), mentre, in caso di concorrenza fra contratti collettivi aventi sfera di applicazione anche parzialmente identica (ad esempio per un determinato settore industriale e per la frazione artigiana di esso), nessuno dei due potrebbe essere esteso (sent. n. 106/1963): cfr. Giugni, Osservazioni sulle sentenze n. 70 e 106 della Corte costituzionale, in «Giur. cost.», 1963, I, p. 822 ss.; Pera, Sul campo di applicazione delle leggi delegate emanate per assicurare un trattamento minimo ai lavoratori, in «Lav. e sic. soc.», 1966, p. 97 ss; per un riesame della problematica v. ora Biagi, La dimensione dell’impresa nel diritto del lavoro, Milano, Franco Angeli, 1978, p. 367.
[223] Sulle condizioni dei dipendenti da scuole private v. da ultimo Zoppoli, Nota a Pretura di Napoli, 1 febbraio 1980, in «Riv. giur. lav.», 1980, II, p. 1115. Sono notori i casi aberranti, diffusi soprattutto al sud, di giovani insegnanti costretti a prestare attività a titolo gratuito negli istituti privati, pur di acquisire punti utili per essere inseriti nelle graduatorie previste per il conferimento degli incarichi nella scuola statale: è evidente che qui si versa in ipotesi del tutto diverse da quelle ammesse come legittime dalla prevalente dottrina di prestazioni gratuite di lavoro subordinato, su cui cfr., per tutti, Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1968, p. 63 ss.
[224] Cfr. ad es. Antignani, op. cit., p. 297; ed anche Fabris, Nuovi profili dell’autonomia sindacale, in «Riv. dir. lav.», 1980, I, p. 223 ss. La rivisitazione recente più approfondita della problematica relativa all’erga omnes è in Liebman. Rappresentatività del sindacato ed efficacia del contratto collettivo, in «Riv. it. dir. lav.», 1983, I, p. 435 ss.; si v. anche Mariucci, La contrattazione collettiva, Bologna, il Mulino, 1985, p. 454 ss.
[225] Cfr. in proposito la limpida analisi di Mancini, Libertà, cit., p. 139.
[226] Anche in condizioni di pluralismo sindacale — va detto, per completezza — non sarebbe impossibile progettare una qualche forma di estensione erga omnes dei contratti collettivi. Le soluzioni praticate in ordinamenti stranieri non offrono, peraltro, utili punti d’appoggio. Non convince, ad esempio, il modello tedesco, per l’eccessiva discrezionalità ivi assegnata all’autorità governativa. Men che meno potrebbe essere guardato con simpatia dai sindacati quello francese, dove, a seguito della legge 19 gennaio 1978, un contratto collettivo «anche firmato da una organizzazione minoritaria in un settore e contenente clausole non accettate dalle organizzazioni maggioritarie, ...potrà essere esteso»: Lyon-Caen e Camerlynck, Droit du travail, Parigi, Dalloz, 198010, p. 724. Non c’è bisogno di sottolineare le potenzialità divaricanti dell’azione sindacale unitaria di un meccanismo del genere. Su questa problematica, per un’analisi comparata recente, cfr. Aliprantis, La nature et les agents de la négociation collective, in «Rev. int. dr. comp.», 1979, p. 779 ss.
[227] È il caso della Francia, dove nel 1970 il sistema dello smig è stato trasformato in smic (salaire minimum interprofessionnel de croissance), per legare la misura del salario minimo non soltanto all’aumento del costo della vita, ma anche alla dinamica di crescita dell’economia nazionale ed evitare una divaricazione eccessiva con l’andamento dei salari medi: cfr. per tutti Lyon-Caen, Les salaires, Parigi, Dalloz, 19732, p. 5 ss. Più recentemente, nel ’77, un aumento notevole della misura del salario minimo si è avuto anche in Danimarca: cfr. Reynaud. Problemi, cit., p. 22.
[228] Reynaud, op. cit., p. 22, con riferimento ai casi del Belgio e dell’Olanda.
[229] Cfr. ILO, Minimum wage fixing, cit., p. 162.