Note
  1. Si tratta di testi ben noti, che segnano in modo decisivo e per lungo tempo gli orientamenti della CISL sull’azione sindacale a livello di azienda, di cui si sottolinea già il rilievo preminente per l’intera strategia rivendicativa. Nel primo documento, «posto l’obiettivo di incrementare nel processo di distribuzione del prodotto nazionale la quota del lavoro, proporzionalmente all’aumentata redditività del sistema», si individua quale strumento principale allo scopo, «l’applicazione di una politica salariale di settore o di azienda diversificata non solo per quanto riguarda l’ammontare delle richieste, ma anche... le modalità di richiesta», atta a diversificare «i livelli retributivi in funzione della sopportabilità reale dei settori e delle aziende, sopportabilità determinata dal loro grado di efficienza produttiva». Rilievo particolare è attribuito a una «prassi di accordi integrativi di azienda, per ciò che si riferisce all’inserimento nella retribuzione dell’elemento che esprime l’indispensabilità dell’apporto dei lavoratori agli sforzi diretti ad accrescere la produttività delle aziende» (così il testo della mozione finale di Ladispoli, in Documenti ufficiali dal 1950 al 1958, a cura della CISL, Roma, 1959, pp. 74 sgg.). Queste tesi sono inquadrate, dal secondo documento in questione (vedilo in «Bollettino di studi e di statistiche», 1955, pp. 12 sgg., 107 sgg. e quindi nel Quaderno, Le relazioni umane e sociali nelle aziende, a cura dell’ufficio studi CISL, Roma, 1956) nel più ampio problema della posizione del lavoratore nell’azienda e nella prospettiva di una sua partecipazione attiva alle responsabilità direzionali.
  2. Vedile riportate in appendice al presente volume da Documenti ufficiali dal 1950 al 1958, cit., pp. 102 e 107; e cfr. altresì i primi commenti di «Conquiste del lavoro», 7 agosto 1954, n. 31, p. 1 e di «Ragguaglio metallurgico», 1954, n. 9, p. 1. Anche in questo caso, come per le materie sopra ricordate delle politiche salariali e delle relazioni umane nelle aziende, alla base della risoluzione del Consiglio Generale sta un più ampio documento elaborato dall’ufficio studi confederale (che in quegli anni gioca un ruolo primario nella elaborazione delle tesi della CISL) su Il sindacato e l’organizzazione di fabbrica, Roma, 1955, ove le conclusioni circa la necessità pratica di una presenza organizzata del sindacato in azienda e le motivazioni della stessa emergono da un’analisi storico-critica dell’esperienza e dell’azione delle commissioni interne nella nostra tradizione sindacale.
  3. L’attenzione dedicata al problema, ad esempio, dal periodico nazionale della FIM «Ragguaglio metallurgico», e in genere dalla stampa dei sindacati di categoria, oltre a non essere neppure quantitativamente molto rilevante, si risolve per lo più in meri resoconti dei dibattiti, dei convegni o delle tesi confederali.
  4. Basti richiamare gli stessi documenti confederali menzionati nelle note precedenti, in particolare quello sulle relazioni umane e sociali nelle aziende, dove sono già presenti in forma organica i temi più significativi che caratterizzeranno per molti anni la politica sindacale della CISL: oltre all’idea di consultazione mista, di cui si dirà (nota 13), e alle proposte connesse di miglioramento dell’ambiente umano in azienda, delle comunicazioni e della gestione del personale in genere, si possono ricordare le prime richieste di sistemi contrattati di valutazione oggettiva delle mansioni, di una contrattazione sindacale delle tariffe di cottimo, di premi collettivi di produttività finalizzati a collegare il salario con i risultati tecnico-produttivi dell’azienda, e infine la prima chiara teorizzazione della contrattazione collettiva come unico strumento per l’avvio di tali politiche participazionistiche, con la conseguente ripulsa di ogni intervento legislativo in materia, ritenuto «fattore di dilazione, di ritardo o di ostacolo» (Le relazioni umane e sociali nelle aziende,cit., p. 33). Quest’ultima tesi, in particolare, doveva rimanere fino a tempi recentissimi uno dei tratti di fondo della concezione sindacale della CISL, espressione tipica del suo concetto di autonomia sindacale e di autotutela degli interessi collettivi, riflesso diretto di un più vasto concetto di separazione fra Stato e corpi sociali intermedi, proprio di larghi settori, non solo sindacali, della tradizione cattolica. Per indicazioni sul peso che tale ideologia ha avuto nella stessa cultura giuridica italiana basti rinviare al noto saggio di Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale, Milano, 1967, pp. 29 sgg. e al mio scritto Teorie e ideologie nel diritto sindacale (a proposito di un recente libro), in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1968, pp. 1631 sgg. e, in chiave critica, pp. 1662 sgg.
  5. Si tratta di un’opposizione che, iniziata dalla FIM all’inizio degli anni ’60 in posizione nettamente isolata, si è progressivamente estesa negli anni seguenti, specialmente fra altre federazioni industriali e in alcune grandi unioni del Nord, fino a giungere a un massimo nelle più recenti vicende, in particolare nel congresso federale del 1969, rivelando una profonda divisione all’interno della CISL su molte delle stesse concezioni fondamentali del sindacato.
  6. Così la Relazione al Consiglio generale, Linee di politica organizzativa della CISL, Roma, gennaio 1963, p. 66.
  7. Il rilievo svolto nel testo non contraddice, ma completa da un punto di vista diverso, quanto si accennava al n. 3 dell’introduzione. Se il momento organizzativo del sindacato (come di ogni gruppo organizzato) può ben ritenersi funzionale alla sua attività esterna, di lotta e di contrattazione, resta pur tuttavia, vero che esso è, per altro verso, preliminare e condizionante rispetto a tale attività esterna. Per cui, ad esempio, come si verificherà in seguito, le scelte organizzative adottate dal sindacato, e in particolare, la distribuzione dei poteri attuata fra i vari livelli della sua complessa articolazione, finiscono per influire in maniera determinante sul concreto atteggiarsi della struttura e dei contenuti contrattuali.
  8. Analisi esemplari di questa ben nota caratteristica del nostro sistema contrattuale, e in specie delle origini della tradizionale assenza organizzativa sindacale a livello di azienda, sono ancora quelle di Giugni, Prefazione a Perlman, Ideologia e pratica dell’azione sindacale, Firenze, 1956; e Esperienze corporative e post-corporative nei rapporti collettivi di lavoro in Italia, in «Il Mulino», 1956, n. 51-52, pp. 17 sgg. Vedi anche De Maria, Le basi storiche della struttura sindacale italiana, riprodotto in «Politica sindacale», 1958, pp. 252 sgg.
  9. Questa politica di decentramento organizzativo e contrattuale è stata al centro del dibattito interno alle organizzazioni sindacali fin dal periodo immediatamente seguente alla guerra e ha costituito, per diversi anni, com’era inevitabile, uno dei terreni di più evidente contrasto fra le diverse concezioni sindacali, specie delle due maggiori confederazioni. Essa incontrò all’inizio tenaci resistenze soprattutto all’interno della CGIL, ove più forte era sentita la esigenza di uno stretto coordinamento e di direzione politica, anche delle strategie contrattuali, da parte delle organizzazioni orizzontali, tradizionalmente privilegiate da questo sindacato in quanto espressione degli interessi generali della classe lavoratrice. Un riavvicinamento di posizioni fra le due confederazioni su questi temi si avvia solo nella seconda metà degli anni ’50 e può dirsi concluso nelle sue grandi linee solo all’inizio del decennio 1960. Lo sviluppo di tale processo storico all’interno della CGIL è oggetto di una ricerca organica nello studio citato di Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, Roma, s.d. (ma 1969), specialmente pp. 79 sgg., 107 sgg., ove si possono trovare ampi ragguagli critici. Quanto alla CISL, in mancanza di una simile analisi critica, si possono utilmente vedere i documenti ordinati nel volume Per una storia della CISL (1950- 1962), a cura dell’ufficio studi CISL, Roma, 1962, pp. 65 sgg., 102 sgg., nonché ulteriori indicazioni, anche bibliografiche, nel mio scritto L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 80 sgg., 160 sgg. Più in generale, fra gli studi più completi sul decentramento contrattuale nell’esperienza sindacale italiana postbellica, si possono ricordare Merli Brandini, Evoluzione del sistema contrattuale italiano nel dopoguerra, in «Economia e lavoro», 1967, pp. 67 sgg. (ove una chiara analisi del ruolo prevalente esercitato, soprattutto fino alla metà degli anni ’50, dalle confederazioni nella conduzione dell’intera politica contrattuale, in specie salariale); Momigliano, Sindacali, progresso tecnico, programmazione economica,Torino, 1966, specialmente pp. 46 sgg.; Archibugi, Le tendenze di fondo della contrattazione collettiva, in «Politica sindacale», 1958, pp. 13 sgg., e, da ultimo, l’appendice di Romagnoli, Appunti per una storia del movimento sindacale: gli anni 1960-1970, a Horowitz, Il movimento sindacale in Italia, Bologna, 19702, pp. 557 sgg.
  10. La revisione delle funzioni degli organismi orizzontali provinciali, conseguente all’accentramento nei sindacati provinciali di categoria di sempre più vaste competenze per la contrattazione aziendale, si rivelò in prospettiva anche più radicale di quella intervenuta rispetto alle funzioni della massima struttura confederale. Si giunse infatti a mettere, talora drasticamente, in discussione lo stesso ruolo di tali organismi e la loro capacità di adeguarsi alla nuova realtà sindacale, con un processo critico che trovò anche qui il suo pieno sviluppo, anzitutto nella CISL e poi nella CGIL, durante gli anni ’60. Si vedano fin d’ora, ad esempio, il dibattito al Congresso CGIL del 1965 (in I Congressi della CGIL, VI, Roma, 1966: Relazione di Novella, p. 50; intervento di Scheda, p. 222; mozione n. 4, pp. 633 sgg.), e, nella CISL, le relazioni alla Assemblea organizzativa del 1958, Nello sviluppo del sindacato l’avvenire dei lavoratori, pp. 65 sgg., e al Consiglio generale del 1965, Linee di politica organizzativa della CISL, cit., pp. 87 sgg. Altre citazioni in seguito.
  11. Il legame fra le nuove forme proposte di organizzazione sindacale aziendale e la politica contrattuale differenziata risulta espressamente da tutte le tesi confederali sopra richiamate. Così, in particolare, al momento dell’avvio ufficiale dell’istituto, nel Consiglio generale del luglio 1954, le SAS sono presentate da Storti come gli istituti essenziali «per applicare il dinamismo contrattuale articolato» e «per l’applicazione del programma sulle relazioni umane nelle fabbriche» (cfr. «Conquiste del lavoro», 7 agosto 1954, n. 31, p. 1); e, analogamente, le dichiarazioni dello stesso Storti a uno dei primi convegni per la diffusione di questi organismi, in «Conquiste del lavoro», 17 dicembre 1955, p. 4; nonché, in termini del tutto simili, la relazione Lucchese al convegno dei rappresentanti delle SAS e delle CI di Bologna (26-27 novembre 1955), in «Ragguaglio metallurgico», 1955, n. 12, p. 1. Vedi anche, fra i tanti, l’articolo Gli ostacoli allo sviluppo della contrattazione aziendale e le possibilità del loro superamento, in «Bollettino di studi e statistiche», 1957, pp. 145 sgg., ove fra gli ostacoli allo sviluppo della contrattazione aziendale si annoverano (oltre allo scarso potere contrattuale, alla preferenza imprenditoriale per le CI ecc.) soprattutto «il ritardo e la trascuratezza che si è posta nell’assicurare la vitalità delle SAS, nel farne uno strumento di qualificata espressione dei lavoratori all’interno dell’azienda e di raccordo con la guida operativa del sindacato provinciale». La medesima connessione si ritrova, ancora, nei noti scritti di Pastore, in I sindacati in Italia, Bari, 1955, pp. 144 sgg., 173 sgg., nel contesto di una più generale sistemazione delle funzioni e dei metodi del «nuovo sindacalismo», e di De Cesaris, L’esperienza e i problemi di un movimento sindacale democratico, in «Il Mulino», 1955, p. 667, ove si sottolinea il compito della CISL di «riproporre, secondo un nuovo modo di essere, la presenza del gruppo dei lavoratori all’interno dell’impresa, in funzione di una nuova struttura del rapporto di lavoro, fondato a sua volta su una nuova struttura del salario».
  12. Le relazioni umane e sociali nelle aziende, cit., p. 28.
  13. Ibidem, p. 26. Le derivazioni storico-culturali di tale prospettiva e gli equivoci dell’ideologia ad essa sottesa sono ormai sufficientemente noti: si vedano, per tutti, i rapidi cenni di Giugni, Introduzione a Romagnoli, Contrattazione e partecipazione, Bologna, 1968 (opera che costituisce un’attenta verifica critica di una delle poche esperienze aziendali in cui si è tentata l’applicazione concreta di simili tesi). Giugni sottolinea giustamente l’eterogeneità di tale ideologia rispetto ai fini istituzionali del movimento sindacale, ma la spiega storicamente «alla luce della drammatica situazione vissuta dal sindacalismo in quel decennio» e della necessità di trovare anche in esperimenti di consultazione mista «spiragli per sortire da una condizione di isolamento» (p. 13). Sul punto vedi ora anche Pirzio Ammassari, Ricerca sugli studi di relazioni industriali in Italia, I parte, La CISL, Roma, 1970 (ciclostilato), pp. 8 sgg., che ritiene coesistere nelle tesi della CISL del tempo motivazioni politico-ideologiche di fondo e atteggiamenti meramente tattici. Va detto peraltro che, anche a ritener valida questa seconda componente, essa sembra aver pesato in modo alquanto rilevante sull’intera strategia della confederazione per lungo tempo, condizionandola di fatto largamente, nonostante da alcuni settori della stessa CISL si avvertissero sempre più chiaramente le possibili deviazioni di una politica produttivistica e i pericoli di una sua troppo acritica accettazione da parte del sindacato.
  14. Così Pastore (I sindacati in Italia, cit., p. 173), esplicitando anche i nessi di tale idea del salario con gli altri elementi sopra indicati della concezione sindacale della CISL. «Se il salario deve esprimere l’apporto dei lavoratori al processo produttivo, nessuno può negare ai lavoratori il titolo a concorrere a disporre le migliori condizioni di utilizzo di tale apporto» (p. 173). E ancora: attraverso un simile interesse «immediato e inconfutabile» della classe lavoratrice italiana «a determinare anche le migliori condizioni del suo apporto al processo produttivo» essa «finisce inevitabilmente abilitata a concrete assunzioni di responsabilità sul piano aziendale ed extraaziendale, mediante i sempre nuovi strumenti di rappresentanza del lavoro organizzato» (p. 146).
  15. «Poiché senza alcun dubbio la società moderna e ancor più le sue linee di sviluppo dimostrano che il sindacato è lo strumento rappresentativo della volontà dei lavoratori per tutti gli aspetti delle relazioni di lavoro, l’imprenditore non può sottrarsi al riconoscimento di questa realtà e deve convenire a trattare con il sindacato la istituzione di questi strumenti idonei alla realizzazione di una migliore cooperazione aziendale e di buone relazioni umane»: La politica salariale della CISL: le relazioni umane nell’industria, in «Bollettino di studi e statistiche», 1955, p. 12 (e analogamente gli autori citati a nota 11). In questa cooperazione «il conflitto tra il tradizionale “lealismo” sindacale del lavoratore e il “lealismo” di questi nei riguardi dell’impresa» deve progressivamente cessare e far posto a «una positiva convivenza» (Le relazioni umane e sociali nelle aziende, cit., p. 67).
  16. Così ancora lo scritto di Pastore, cit., sintetizzando in questo tema della «reintegrazione», un’idea centrale dell’interclassismo cattolico e applicandola nel momento essenziale dell’azione sindacale. Cfr. anche De Cesaris, Per un sindacalismo democratico, in «Cronache sociali», 1949, n. 7, pp. 18 sgg. Per una iniziale valutazione di queste tesi nel più vasto contesto dell’ideologia della CISL, vedi ora il saggio della Pirzio Ammassari, Ricerca sugli studi di relazioni industriali in Italia, cit., pp. 4 sgg.
  17. Ciò resta vero nonostante il marcato declino registrato dalla CGIL, proprio a cominciare da questi anni, nelle elezioni di CI (e del resto nello stesso numero di iscritti). Vedine una considerazione critica, ad esempio, nello scritto di Neufeld, Appunti sul funzionamento delle commissioni interne, in «Il diritto del lavoro», 1956, I, specialmente pp. 349 sgg.; e in Horowitz, Il movimento sindacale italiano, cit., pp. 481 sgg., 488 sgg.
  18. Queste posizioni della CGIL sono da ultimo sottoposte a un’efficace analisi critica da Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, cit., pp. 114 sgg.; vedi, altresì, Paglioni, L’istituto della commissione interna e la questione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, cit., pp. 182 sgg., e anche, per più generali valutazioni, Momigliano, Sindacati, progresso tecnico, programmazione economica, cit., pp. 105 sgg.
  19. Cfr., ad esempio, le tesi espresse in Il sindacalo e l’organizzazione di fabbrica, cit., cap. 10, che restano per lunghi anni esemplari per la concezione dell’istituto propria della CISL.
  20. Così, la relazione al Consiglio generale del gennaio 1963, Linee di politica organizzativa della CISL, cit., p. 31. Il pericolo di una simile eventualità era reso tanto più plausibile dalla circostanza che, in quegli stessi anni, ai crescenti consensi ottenuti dalla CISL nelle elezioni di CI faceva riscontro una sostanziale stagnazione o addirittura un declino delle iscrizioni al Sindacato (vedi oltre n 8). L’affermazione delle CI sembrava così presentarsi di per sé come «uno dei parametri di crisi più significativi» del potere sindacale, confermando le tesi confederali più pessimistiche sul carattere sindacalmente equivoco della Commissione interna. (Ibidem, p. 31, e, analogamente, la relazione al III Congresso confederale del 1959, pp. 132 sgg., in Per una storia della CISL, cit., p. 90). L’eco della stessa preoccupazione è largamente presente nella stampa periodica del tempo: cfr., ad esempio, fra i tanti, il primo commento all’istituzione delle SAS, in «Ragguaglio metallurgico», 1954, n. 9 e la relazione della Segreteria al II Congresso nazionale della FIM, ibidem, n. 11, p. 2; l’editoriale di «Bollettino di studi e statistiche», 1955, n. 11, p. 2 (406); e di «Politica sindacale», 1958, n. 3, pp. 241 sgg. (Commissioni interne e potere del sindacato); nonché la relazione della segreteria al II congresso confederale (1955), Il futuro organizzativo e contrattuale del movimento sindacale, in «Bollettino di studi e statistiche», 1955, n. 6, pp. 11 (203) sgg. Già nel dibattito intervenuto a questo congresso appare peraltro evidente la presenza di posizioni differenziate sui rapporti fra CI e SAS, conseguenza di una incertezza teorica di fondo che sarà per lungo tempo rilevabile all’interno della confederazione (vedi oltre n. 6). Cfr., ad esempio, le nette riserve espresse da alcuni (Donat Cattin) nei riguardi di una eccessiva svalutazione della CI, e delle proposte, pure avanzate, di una sua progressiva abolizione, contro cui si ribadisce la necessità di «difendere il rafforzamento della CI e di collegare la nostra rappresentanza proprio attraverso la sezione sindacale di fabbrica» (Atti del II congresso, Roma, 1955, pp. 88 sgg.). A questi interventi l’on. Pastore replica assicurando che non si è «mai attribuita alla sezione aziendale la funzione di limitare i diritti e i compiti delle Commissioni interne», in quanto al contrario la SAS deve «divenire lo strumento che sorregga e protegga, in un momento tremendamente delicato, la Commissione interna sia dalle insidie del mondo padronale che del sindacato comunista» (ibidem, p. 149, ove è ancora evidente l’impostazione difensiva sopra discussa nel testo). Riserve su una interpretazione eccessivamente restrittiva del ruolo della CI appaiono pure in diversi interventi di attivisti a un dibattito aperto da «Ragguaglio Metallurgico», 1957, n. 3, p. 2 e n. 5.
  21. Le citazioni sono dalla relazione al consiglio generale, del 1963, Linee di politica organizzativa della CISL, cit., rispettivamente pp. 17 e 65.
  22. Così già la risoluzione sui problemi di organizzazione approvata al II congresso unitario della CGIL (Genova, 1949), in I congressi della CGIL, III, Roma, 1952, p. 381, riferendosi ai «Comitati degli attivisti sindacali» (collettori), di cui si sottolinea la necessità per «coordinare e dirigere il lavoro [dei collettori] allo scopo di unificare le iniziative, orientare i lavoratori, i membri delle commissioni interne e dei consigli di gestione aderenti alla CGIL e realizzare nell’azienda le direttive del sindacato locale». L’impegno alla costituzione di questi organismi aziendali (chiamati «comitati sindacali di fabbrica») è ulteriormente specificato e reso vincolante nelle delibere del successivo congresso di Napoli (1952). Ma sostanzialmente immutata e sommaria resta l’analisi delle esigenze che li motivano e soprattutto invariati rimangono i loro compiti. Il comitato «non stipula contratti né tratta direttamente le vertenze sindacali, ma realizza il reclutamento, effettua la propaganda, indirizza e dirige l’agitazione ed orienta i lavoratori sul luogo di lavoro in base alle direttive ricevute dall’organizzazione sindacale, e assicura la direzione di tutta l’attività sindacale nell’azienda verso i membri unitari delle commissioni interne, dei CRAL e dei consigli di gestione ecc.» (così la risoluzione organizzativa in I congressi della CGIL, IV, Roma, s.d., p. 241). Si tratta in definitiva degli stessi compiti caratteristici degli attivisti sindacali, di cui il comitato è l’espressione collettiva unitaria (vedi la stessa risoluzione sopra citata, ove si ribadisce pure la centrale importanza di una fitta rete di attivisti per la linea politica sindacale, in quanto la «loro attività e il loro numero danno la misura della democrazia esistente nell’organizzazione» e del suo legame alla massa dei lavoratori. Per un commento a queste iniziali tesi organizzative della CGIL, vedi, ampiamente, Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, cit., pp. 109 sgg., che ne sottolineano in particolare la stretta connessione con le politiche rivendicative della confederazione.
  23. L’urgenza di questo motivo è quasi sempre in primo piano: ma vedi, con particolare enfasi, il primo commento all’avvio dell’istituto, in «Ragguaglio metallurgico», II, 1955, n. 9, p. 1; e gli scritti anonimi nello stesso periodico, 1955, n. 1, p. 1; e 1956, n. 4, p. 3.
  24. Per una simile prospettiva, peraltro di solito appena accennata e svolta in prevalente funzione difensiva o di polemica contro la CGIL e le commissioni interne, cfr., il documento più volte citato, Il sindacato e l’organizzazione di fabbrica, pp. 71 sgg.; la relazione della segreteria al II congresso CISL, cit., pp. 11 sgg.; gli articoli, Gli ostacoli allo sviluppo della contrattazione aziendale, cit., pp. 145 sgg.; CI e potere del sindacato, cit., pp. 241 sgg.; e quello di Fantoni, su «Conquiste del lavoro», 1 marzo 1958, n. 7, p. 5; il dibattito al Congresso nazionale dei rappresentanti sindacali di fabbrica (11-12 ottobre 1958), riportato in «Conquiste del lavoro», 15 ottobre 1958, pp. 6-7, nonché gli stessi testi degli autori citati a nota 11.
  25. Vedi, i testi citati a nota 11, cui adde la relazione alla III Assemblea organizzativa CISL, cit., p. 118 (secondo cui la SAS «rappresenta il risultato dell’adeguamento funzionale alla base della organizzazione sindacale ai nuovi compiti e responsabilità»), nonché l’esplicito riconoscimento, in chiave storico-critica, della relazione al consiglio generale, 1963, Linee di politica organizzativa della CISL, cit., p. 17 (da cui la citazione).
  26. L’analisi sulla distribuzione delle competenze rispettive fra le strutture inferiori e superiori in ordine al raggiungimento degli interessi dell’organizzazione, risulta così in larga misura pregiudiziale per intendere correttamente le caratteristiche funzionali dei singoli gruppi minori.
  27. Così la relazione alla III Assemblea organizzativa del 1958, cit., pp. 44 e 119, aggiungendo peraltro significativamente che l’esclusività delle competenze della SAS deve confluire «attraverso questo, nel sindacato di categoria».
  28. Cfr., fra i tanti, già la delibera costitutiva dell’istituto del luglio 1954, più volte citata; e in generale i testi indicati nelle note 20 e 24.
  29. Relazione alla III Assemblea organizzativa, cit., p. 120.
  30. L’art. 36 dispone: «Sul piano aziendale possono costituirsi in accordo con i sindacati provinciali, sezioni aziendali. La sezione aziendale è composta dai lavoratori iscritti alla FIM nell’azienda ed eleggerà un proprio consiglio, composto da 5 a 15 membri, e prenderà le sue deliberazioni a maggioranza di voti. L’elezione del consiglio avverrà per votazione diretta e segreta da parte dell’assemblea dei soci. Il consiglio aziendale rimarrà in carica un anno e nominerà, d’intesa con il direttivo provinciale, un responsabile aziendale. I membri di commissione interna eletti nelle liste FIM fanno parte di diritto del Consiglio di azienda con voto deliberativo».
  31. Così lo schema di regolamento delle SAS approvato dalla III assemblea organizzativa, cit., p. 119 (e sostanzialmente confermato dalla delibera del Consiglio generale del 20-22 luglio 1958, in Documenti ufficiali, cit., p 186). Tale schema fu proposto come modello per tutte le organizzazioni di categoria.
  32. Analogamente lo schema di regolamento citato nella nota precedente.
  33. Così lo schema di regolamento citato, riferendosi apparentemente agli organi del sindacato provinciale di categoria. Si tratta naturalmente di un vincolo e di una responsabilità endo-associativa, cioè che riguarda il soggetto nella sua qualità di iscritto al sindacato e non di membro di CI. Quest’ultima posizione si fonda esclusivamente sull’elezione da parte dei lavoratori dell’azienda (anche non iscritti), conformemente alla natura dell’istituto, irriducibile alla posizione di organo o emanazione del sindacato. Su questa tematica della natura giuridica della CI in rapporto al sindacato, che, com’è noto, ha impegnato tradizionalmente la dottrina giuridica, vedi, per tutti, De Cristofaro, Funzione e poteri delle Commissioni interne, in «Rivista di diritto del lavoro», 1965, I, pp. 135 sgg.
  34. La loro validità, ad esempio, è riconfermata dalla FIM-CISL, ancora all’Assemblea organizzativa di Novara (1964), ove si prevede anche un generale obbligo dei commissari di CI di «relazionare costantemente gli organi direttivi della SAS e (di) seguirne le indicazioni» (così la mozione conclusiva); nello statuto e nel regolamento approvati al congresso di Brescia (1965), rispettivamente agli artt. 54 e 47, 50. il primo dei quali confermato al congresso del 1969. Norme simili non risultano presenti all’interno della CGIL, dove del resto il problema non risulta esplicitamente considerato in questa prospettiva.
  35. Cfr., ad esempio, oltre alle indicazioni della nota 20, le precisazioni di Storti al congresso confederale del 1959 (Atti, p. 55), e le tesi svolte alla III Assemblea organizzativa, cit., pp. 55 sgg., che, pur nella precisa riconferma delle posizioni teoriche tradizionali della CISL sul carattere subordinato della CI rispetto al sindacato, ribadiscono palesemente l’importanza cruciale dell’istituto per la stessa affermazione della politica della CISL e l’impegno organizzativo ed elettorale della confederazione per il suo controllo. Le posizioni confederali ridiventano peraltro univoche di fronte all’eventualità, più volte presentatasi a partire dagli anni ’50, di un riconoscimento legislativo delle CI. Esso avrebbe rischiato di frustrare definitivamente ogni speranza di ridimensionare i compiti dell’istituto, e di renderne più difficile l’inserimento in una prospettiva sindacale, quale ipotizzata dalla CISL. Per questi argomenti, inseriti nella più generale ostilità della CISL a interventi legislativi in materia sindacale, vedi, lo stesso dibattito al congresso del 1959 e, in sintesi, l’editoriale di «Politica sindacale», 1960, n. 4, p. 1 sgg.
  36. La necessità di maggiore chiarezza al riguardo, sia a livello programmatico sia soprattutto nella concreta politica sindacale, che di fatto subisce largamente la situazione esistente, è ribadita ritualmente nei documenti ufficiali e nei congressi: vedi ad esempio, al III congresso confederale del 1959, il documento della III Commissione sulla politica organizzativa (Atti, Roma, 1960, p. 312); al IV Congresso confederale del 1962), la relazione Storti (Atti, Roma, 1963, pp. 73, 91); e ancora al Congresso della FIM del 1965 (Atti, pp. 121, 154 sgg.).
  37. Così, con particolare chiarezza, la III Assemblea organizzativa, cit., p. 46.
  38. Ibidem.
  39. Anche le citazioni sopra riportate sono della III Assemblea organizzativa, rispettivamente pp. 46 sgg., 25, che peraltro non fa che ribadire, sul punto, le tesi già espresse dalla delibera istitutiva della SAS del luglio 1954, e quindi ampiamente riprese da tutti i documenti e dalla stampa ufficiale.
  40. Così Il sindacato e l’organizzazione di fabbrica, cit., p. 72. Analogamente la mozione finale del primo convegno nazionale delle SAS e CI delle grandi industrie metalmeccaniche, in «Ragguaglio metallurgico», 1955, cit.; la relazione al II Congresso federale (1955), secondo cui il nuovo organismo dovrà servire a «trasferire gli indirizzi propri della nostra azione sindacale e salariale dai livelli dove... si formano sino alla base», in «Bollettino di studi e statistiche», 1955, cit., p. 12 nonché, più in generale, l’editoriale La politica salariale della CISL. La CGIL di fronte ai suoi errori, in «Bollettino di studi e statistiche», 1955, n. 11, pp. 406 sgg.
  41. Relazione alla III Assemblea organizzativa, cit., p. 49.
  42. Il sindacato e l’organizzazione di fabbrica, cit., p. 73. La menzione dell’Unione provinciale si spiega per l’ampio intervento di supplenza operato dalle strutture orizzontali nell’attività contrattuale fino all’affermarsi, ormai negli anni ’60 di un’effettiva capacità di iniziativa autonoma in materia da parte dei sindacati provinciali di categoria (vedi nota 10) cui pure la competenza contrattuale veniva dalla CISL già allora teoricamente riconosciuta.
  43. Relazione alla III Assemblea organizzativa, cit., p. 45, anche qui ribadendo tesi consolidate fin dall’origine.
  44. Il tema dell’aziendalismo e delle sue deviazioni è fra i più insistiti in tutti i documenti sindacali degli anni ’50; e gli eventi del tempo non mancano di offrire, anche (e soprattutto) per la CISL, esempi vistosi dell’attualità del pericolo. È naturale che la proposta di introduzione del nuovo istituto sindacale, per la stessa collocazione di questo, lo riproponga in primo piano, col risultato peraltro di bloccare il dibattito sulle sue funzioni in termini largamente stereotipati e in definitiva angusti. Invero le tesi iniziali sopra indicate della CISL sulla prospettiva partecipazionistica dell’azione sindacale in azienda erano atte ad aggravare obiettivamente il pericolo suddetto, ben più di quanto lo potesse essere una accentuazione dei poteri decisionali dell’istituto. Quanto alla CGIL, è noto come proprio le possibili deviazioni corporativo-aziendalistiche siano fra i motivi più consueti dell’iniziale rifiuto di strutture sindacali aziendali (vedi i documenti citati a nota 22 e nelle note seguenti).
  45. Cfr. il mio scritto L’organizzazione sindacale, I, cit. (in generale cap. I e II), anche per una dimostrazione di come gli elementi accennati valgano ad escludere i connotati essenziali secondo il diritto statale a riconoscere la natura associativa dei gruppi.
  46. Si tratta delle formule più usate dai primi documenti ufficiali sul nuovo organismo, per indicare sia la sua posizione strumentale rispetto alle strutture sindacali territoriali, sia in particolare la generale finalità di collegamento e di controllo che esso doveva rendere possibile a queste nei riguardi della realtà aziendale: cfr., ad esempio, i testi citati a nota 40; cui adde, per la FIM, la mozione finale al III Congresso del 1959, che si riferisce alla SAS come all’«espressione del sindacato nell’azienda, strumento... per l’attuazione di una politica sindacale integrativa» e la relazione al IV Congresso (1962) ove si parla dello stesso istituto come di «propaggine del sindacato di categoria» (Atti, p. 137). Per altre indicazioni statutarie vedi il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 185 sgg., ove anche un parallelo fra una simile concezione strumentale dell’istituto e l’ordinamento francese, in cui essa è stata assunta come tale dalla legge 27 dicembre 1968, che riconosce la sezione appunto quale emanazione non autonoma del sindacato territoriale, con preminenti fini di collegamento fra questo e i lavoratori dell’azienda.
  47. Così la mozione finale del primo convegno nazionale delle SAS e delle CI delle grandi aziende metalmeccaniche, in «Ragguaglio metallurgico», 1955, cit.
  48. Una simile impostazione discendente nell’intendere i rapporti fra le strutture sindacali ai diversi livelli e fra i relativi gradi di contrattazione è tuttora diffusa nella nostra cultura giuridica: vedi i cenni nel mio saggio L’organizzazione sindacale, I, cit., specialmente pp. 65 sgg. (anche con indicazioni sui precedenti storici dell’ordinamento corporativo) e più in generale, le affermazioni, con implicita autocritica, di Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in «Politica del diritto», 1970, pp. 63 sgg.
  49. Così, con evidente preoccupazione, il commento di «Ragguaglio metallurgico», 1954, n. 7, p. 1 alla decisione del consiglio confederale istitutiva delle SAS.
  50. I dibattiti di quegli anni sulla distribuzione dei poteri in materia di contrattazione hanno come obiettivo storicamente più urgente di riaffermare in genere il ruolo contrattuale primario del sindacato di categoria nei riguardi alle strutture orizzontali, che allora lo detengono di fatto (vedi note 9-10), e a livello decentrato, la esclusiva competenza di questo rispetto alle CI e alle SAS. Il problema della ripartizione di competenze fra sindacati provinciali e strutture nazionali nell’ambito della contrattazione c.d. articolata diventa attuale solo coll’inizio degli anni ’60 con ravviarsi effettivo di questa. Ma la concezione della struttura contrattuale cui si accenna nel testo risulta implicitamente fin dalle tesi originarie della CISL, ove la differenziazione contrattuale appare sempre come il risultato di un decentramento di livelli, chiaramente programmato e diretto dall’alto. In tal senso sono, com’è noto, già i primi tentativi di realizzazione dell’idea nei riguardi della controparte: vedi, ad esempio, le posizioni espresse ufficialmente dalla confederazione nel 1961 alla Confindustria e allo stesso Ministro del lavoro, pubblicate in «Politica sindacale», 1961, pp. 240 sgg.; e altre indicazioni nei paragrafi seguenti.
  51. Un simile modo di travisare il senso dell’istituto è infatti alquanto diffuso nell’opinione comune, come rileva, denunciandone i pericoli, Fantoni, in «Conquiste del lavoro», 1 marzo 1958, n. 7, p. 5.
  52. Questo sarebbe stato, secondo l’espressione di Baglioni, L’istituto della commissione interna e la questione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, cit., p. 181, uno dei motivi dominanti del lancio dell’istituto da parte della CISL negli anni ’50.
  53. Un simile giudizio di inopportunità storica nei confronti della costituzione di istituti sindacali aziendali, nella precaria situazione sindacale italiana, è già nella relazione di Lama sui problemi dell’organizzazione, al II Congresso confederale del 1949 (I congressi della CGIL, III, cit., p. 285).
  54. Così, in particolare, Cella, Manghi, Pasini. La concezione sindacale della CGIL, cit., specialmente capp. IV-V.
  55. Vedi, in generale, la relazione Lama citata a nota 53; al congresso confederale del 1952, le relazioni di Bitossi sulla politica salariale e contrattuale e di Novella sulla politica organizzativa (in I congressi della CGIL, IV, cit., rispettivamente pp. 63 sgg. e 103 sgg.; e ancora gli articoli di Montagnana, Unità della CI per la difesa delle libertà nelle aziende, in «Rassegna sindacale», 1955, n. 1, pp. 9 sgg.; e di Giardini, Sulla nostra azione a livello aziendale, ibidem, 1956, n. 5, pp. 157 sgg. (nonostante l’autore sottolinei l’importanza del nuovo strumento di rappresentanza sindacale in azienda).
  56. Tale riconoscimento, anticipato già al convegno confederale di organizzazione del 1954, è sancito ufficialmente e con maggior chiarezza al IV Congresso nazionale del 1956 (vedi, in particolare, la relazione di Possi e la risoluzione finale sui problemi organizzativi, in I congressi della CGIL, V, Roma, s.d., rispettivamente pp. 347 sgg. e 481).
  57. Nei documenti e nei commenti ufficiali del tempo, non si va di solito al di là di formule generiche, che qualificano l’istituto come «istanza di base del sindacato» in azienda, come sua «forma organizzativa più decentrata», di cui dovrebbero far parte tutti gli iscritti al sindacato (anche se questa menzione degli iscritti è appena accennata), ecc.: vedi, in generale, i testi citati nelle note precedenti e seguenti.
  58. Vedi, ad esempio, già Boni, Sul riconoscimento giuridico delle Commissioni interne, in «Rassegna sindacale», 1956, n. 9, pp. 285 sgg., precisando che attraverso le CI il sindacato realizza «soltanto gli aspetti aziendali della propria azione e le specifiche questioni di fabbrica» e che attraverso le sezioni deve invece svolgere «i compiti più generali di orientamento e di azione» che gli sono propri; ancor più chiaramente, le proposte della Commissione nazionale di organizzazione al comitato direttivo del 20 novembre 1956, ibidem, n. 20-21, p. 576, ove i compiti della CI sono identificati con quelli previsti dal suo accordo istitutivo; l’articolo di Trespidi, Le sezioni sindacali, strumento primo di una politica aziendale, ibidem, 1957, n. 2-3, pp. 61 sgg. Ma la portata di queste affermazioni va limitata alla stregua di quanto rilevato di seguito.
  59. Cfr., con queste motivazioni, e in diretta polemica con la CISL, soprattutto, Boni, La CGIL e la CISL di fronte all’azione sindacale, in «Rassegna sindacale», 1957, n. 8-9, pp. 220 sgg.; ma anche, sulle stesse posizioni di fondo, le proposte della Commissione nazionale di organizzazione citate alla nota precedente; nonché gli articoli di Giardini, citato a nota 55; e di Tatò, I regolamenti interni d’azienda, in «Rassegna sindacale», 1956, n. 7, pp. 219 sgg.
  60. Cfr., in particolare, Trespidi, Le sezioni sindacali, strumento primo di una politica aziendale, cit.
  61. La conclusione risulta da tutti i testi menzionati nelle note precedenti.
  62. Vedi, in questo senso, i rilievi critici di Trespidi, Le sezioni sindacali, cit.; e ora, anche se con minor decisione, la ricostruzione storica di Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, cit., pp. 110 sgg.
  63. Non diversa nei risultati ultimi appare l’impostazione dell’istituto fatta propria dalla UIL, come, ad esempio, risulta dalle posizioni espresse a più riprese negli anni ’50 dal suo segretario generale (riportate in Il sindacato negli anni del miracolo, Roma, s.d. (ma 1960), pp. 120, 169, 262, 280, 350 sgg.) e dagli stessi compiti attribuiti ai nuclei aziendali dallo statuto confederale (artt. 4, 5), che sono ancora una volta limitati al proselitismo, alla raccolta dei contributi e al collegamento fra realtà aziendale e sindacato.
  64. Per la situazione all’interno della CISL, vedi la particolareggiata analisi della relazione al consiglio generale del 1963, Linee di politica organizzativa della CISL, cit., pp. 20 sgg.; nonché, per i metalmeccanici in specie, i dati raccolti e commentati nella ricerca della Beccalli, Scioperi e organizzazione sindacale, Milano, 1950-1970 (tav. 10 e n. 2), presentata al seminario organizzato dalla Facoltà di Economia e commercio di Ancona, su I sindacati nella economia e nella società italiana (28-30 ottobre 1970). A questa diminuzione nel settore industriale si accompagna per la CISL una analoga, anche se meno accentuata, perdita di iscritti nel settore agricolo e commerciale, mentre si riscontravano una crescita di adesioni nel pubblico impiego e una sostanziale stabilità nei servizi. La gravità della situazione è accresciuta dal fatto che la flessione del tesseramento è maggiore proprio nella zona del triangolo industriale, ove, nonostante gli intensi sforzi organizzativi profusi (cd. piano del triangolo), la CISL sembra scontare in modo particolarmente accentuato «la crisi di potere del sindacato nelle aziende, conseguente al ritardo nella concretizzazione della politica contrattuale articolata» (relazione citata, p. 25). All’interno della CGIL il bilancio dello stesso periodo non si presenta meno deludente, e palesa un marcato processo di logoramento della forza organizzativa confederale ormai in atto da diversi anni, che è pure oggetto di severe autocritiche pubbliche (basti ricordare l’intervento di Scheda al congresso del 1960, in I congressi della CGIL, VI, cit., pp. 338 sgg.). Neppure qui le categorie dell’industria sfuggono alla crisi (anche se per la CGIL non si verifica quella massiccia diminuzione riscontrata dalla CISL): basti pensare che, secondo i dati raccolti dalla Beccali, gli iscritti alla FIOM scendono fra il 1955 e il 1959, da 404.769 a 185.183.
  65. Questa, tendenza è documentata con sufficiente chiarezza dai primi studi, apparsi in quegli anni specie a cura della CISL, sullo sviluppo della contrattazione a livello d’azienda fino al 1960 (anno che costituisce anche sotto questo profilo il punto di inizio di una evoluzione decisiva): cfr., in particolare, i noti scritti di Ammassari-Scajola, Il 1960: anno di svolta della contrattazione collettiva, in «Il nuovo osservatore», 1961, n. 18, pp. 9 sgg., nonché La contrattazione integrativa aziendale nel 1961, ibidem, 1962, pp. 149 sgg. da cui risulta come la contrattazione con le sole CI, maggioritaria fino al 1956, sia ancora del 44,5% nel 1957 e del 31,7% nel 1960; e già i dati esposti nella relazione al III Congresso nazionale, Il sindacato democratico per lo sviluppo della società italiana ed europea, Roma, 1959, pp. 295 sgg. (pubblicata anche in «Politica aziendale», 1959, specialmente pp. 296 sgg.). Ma si tratta di rilevazioni che tengono conto della qualità formale di agente contrattuale e non escludono una ben più consistente influenza sostanziale dell’istituto anche nei casi in cui il contratto sia firmato congiuntamente dal sindacato provinciale. La stessa quantità della contrattazione aziendale si rivela alquanto modesta fino al termine degli anni ’50, e mostra un netto incremento solo a partire dal 1960.
  66. Linee di politica organizzativa della CISL, 1963, cit., p. 31.
  67. Vedi Linee di politica organizzativa della CISL, cit., p. 27, in sede di bilancio organizzativo relativo al periodo indicato. Secondo la stessa relazione il numero di SAS formalmente costituite nel 1961, nel settore industriale, ammonterebbe a 613, in altrettante aziende occupanti 188.030 lavoratori (su 2.981 aziende superiori a 100 dipendenti iscritte alla Confindustria). Ma si tratta di cifre scarsamente significative, anche ad ammetterne la esattezza, in quanto riferite a tutte le SAS che hanno eletto i loro direttivi in occasione del congresso confederale, cioè a un fatto poco più che formale, e comunque non sufficiente a indicare un’effettiva presenza organizzata del sindacato in azienda, come ammette la stessa relazione (in ciò ben più avvertita e critica rispetto alle indicazioni della relazione della segreteria al III Congresso confederale, cit., pp. 98 sgg., che riporta dati sulle SAS difficilmente credibili). Sul valore di un simile fatto vedi anche ampiamente nel cap. III al n. 5.
  68. Questi elementi di novità apportati dall’inizio degli anni ’60 sono largamente avvertiti dai più attenti osservatori (oltre che dalla stampa sindacale del tempo): cfr., fra gli scritti più generali in materia, ad esempio, Giugni, L’evoluzione della contrattazione collettiva nelle industrie siderurgica e metalmeccanica (1953-1963), Milano, 1964, pp. 25 sgg., 33 sgg.; e, da ultimo, Romagnoli, Appunti per una storia del movimento sindacale: gli anni 1960-1970, in appendice a Horowitz, Storia del movimento sindacale in Italia, cit., pp. 560 sgg., nonché la ricerca della Beccalli, Scioperi e organizzazione sindacale, cit., che sottolinea l’emersione, anche nella CGIL, in quegli anni, di un nuovo tipo di sindacato, sempre più caratterizzato come «soggetto di politica rivendicativa, invece che come nuovo centro di riferimento associativo e politico».
  69. Vedi, nella CISL, Linee di politica organizzativa, cit., pp. 42 sgg.; e, nella CGIL, le frequenti denunce sulla sproporzione esistente fra la ricchezza dei suggerimenti emersi da queste lotte e la scarsa capacità sindacale di coglierli e fissarli in termini organizzativi (così, per esempio, i rilievi di Lama e Boni, Dopo la grande lotta nel settore dell’elettromeccanica, in «Rassegna sindacale», 1961, n. 37, pp. 1783 sgg., e la introduzione di Scheda al convegno di Livorno nel 1961, ibidem, n. 43-44, pp. 2169 sgg. Negli eventi in questione si sono visti «segni inequivocabili di malcontento» della base operaia «per il rapporto che il sindacato aveva instaurato con essa e per il modo in cui il sindacato gestiva le sue rivendicazioni. Ma si era trattato di brevi scoppi d’ira, a cui erano seguiti silenzio e — sembrava — torpore; un silenzio e un torpore in cui i sindacati — ad eccezione della FIOM e della FIM — videro non già frustrazione e risentimento impotente, ma fuga dall’impegno e conferma della delega»: così Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in «Politica del diritto», 1970, p. 65.
  70. Certo il modo con cui la contrattazione di fabbrica veniva affermandosi appariva completamente diverso, soprattutto rispetto alle ipotesi prospettate dalla CISL nei primi anni ’50: «si affermava cioè come espressione di un forte risveglio di combattività operaia e si realizzava attraverso duri conflitti di classe, non certo quindi come espressione di un superiore ordine di pace sociale quale era stata prevista dai fondatori della CISL» (Sciavi, Le due CISL, in «Il Manifesto», 1969, n. 5-6, p. 24).
  71. Con ciò non si vuole evidentemente instaurare un nesso causale esclusivo fra gli insuccessi registrati dalle maggiori confederazioni alla fine degli anni ’50 e le politiche organizzative da queste seguite. Su tali insuccessi pesano fattori complessi, molti dei quali esterni, come la pesante situazione del mercato del lavoro, con la conseguente maggiore facilità di discriminazioni imprenditoriali, e il venir meno o il trasformarsi degli scopi originari del movimento sindacale, che ne avevano determinato l’accentuata caratterizzazione politica e di massa nell’immediato dopoguerra. Un’indicazione iniziale di questi fattori è avanzata dalla Beccalli, nella ricerca citata alla nota 64. L’autrice, pur non essendo in grado di valutarne adeguatamente il peso relativo, avanza l’ipotesi che esso sia stato dominante per la CGIL e che sia di converso sopravvalutata dagli osservatori l’influenza, pur esistente, delle politiche sindacali seguite da questa confederazione e del ritardo con cui esse si sarebbero adeguate alla nuova situazione emergente. Una simile ipotesi sembra in parte avvalorata da quanto si è sostenuto nel testo, cioè che la differenza fra le politiche delle due centrali sindacali circa la presenza organizzata in azienda è meno consistente di quanto comunemente si pensi. Nello stesso senso depone il fatto che, in ogni caso, l’articolazione organizzativa e contrattuale propugnata dalla CISL nel 1953-1954 è rimasta per tutti gli anni ’50 a livello poco più di proposta (rendendosi così scarsamente avvertibile nella concreta azione sindacale come fattore discriminante nei riguardi della CGIL).
  72. Linee di politica organizzativa della CISL, cit., p. 69.
  73. «L’insufficiente ritmo di espansione delle adesioni, la difficoltà di adeguare quantitativamente e qualitativamente la nostra classe dirigente ad ogni livello, l’aggravarsi del problema finanziario, la lentezza estrema con cui la struttura si verticalizza, la innaturale contrapposizione fra impegno organizzativo e impegno contrattuale per cui se si porta avanti l’uno si lascia indietro l’altro, l’insufficiente livello di vita democratica delle strutture e degli organi, alla base e al vertice, sono manifestazioni sintomatiche di una situazione di debolezza che ha il suo centro nevralgico in una. precaria vita associativa di base» (ibidem, p. 69). Una simile diagnosi radicale è la conseguenza coerente dell’intera della relazione, che rappresenta una delle più rigorose teorizzazioni dell’ideologia sindacale associativa della CISL, ove il fatto associativo è visto come «l’unico modo di organizzare l’autotutela» (p. 54), «l’unica alternativa del lavoratore alla disintegrazione della sua persona, l’unica possibilità di restituirsi un ruolo di responsabilità, di diventare un soggetto anziché un oggetto di decisioni, l’unica roccaforte di difesa dal risucchio integrazionistico dell’azienda moderna» (p. 70), mentre d’altra parte il sindacato «mostra in concreto di non avere niente altro da offrire che questo» (p. 54).
  74. Linee di politica organizzativa della CISL, cit., p. 71; e allora, si continuava a rilevare, «se la scelta è fra paternalismo padronale e quello sindacale, non dobbiamo meravigliarci né scandalizzarci se il lavoratore opta per il primo, vale a dire sceglie il rapporto paternalistico immediato piuttosto che quello mediato» (p. 70).
  75. Ibidem, p., 67 e pp. 73 sgg.
  76. Nello sviluppo del sindacato l’avvenire dei lavoratori, relazione alla III Assemblea organizzativa, cit., p. 44.
  77. Linee di politiche organizzativa della CISL, cit., p. 71; secondo cui solo così la sezione può realizzare la funzione attribuitale di rappresentare «la chiave di volta di una autentica rivoluzione nella concezione delle fonti del potere sindacale» (p. 27), esprimendo un valido collegamento, non solo discendente del sindacato ai lavoratori, ma «allo stesso modo dei lavoratori al sindacato» (relazione alla III Assemblea organizzativa, cit., p. 47).
  78. Questa posizione è già chiara alla III Assemblea organizzativa del 1958, cit., pp. 52 e 122 ed è ripresa, sia pure cautamente, nel regolamento delle assemblee precongressuali applicato al III Congresso del 1959, il quale, dopo aver affidato (art. 1) ai sindacati locali di categoria l’elezione dei delegati ai precongressi provinciali (di federazione e di USP), suggerisce «come indicazioni di massima, e orientamento generale, il maggior rispetto possibile della esistenza delle SAS e delle leghe, le quali verranno chiamate quindi a svolgere esse stesse — nei casi che ciò sia indicato dagli statuti o consigliato dalla situazione di fatto — le assemblee precongressuali, o quanto meno a svolgere assemblee preparatorie, in tutti gli altri casi» (in Atti, cit., Appendice n. 1, p. 343). Con più decisione, il regolamento applicato al congresso confederale del 1962 riserva l’elezione dei delegati al precongresso provinciale di categoria alle assemblee precongressuali da tenersi in tutte le SAS o Leghe esistenti di fatto, comunque costituite (artt. 2-3), comprendendo automaticamente fra i delegati i membri eventualmente eletti negli organi direttivi degli stessi istituti (art. 3). Per la FIM, vedi le conclusioni della I Assemblea organizzativa del 1964 (pp. 34 e 73 sgg.) e quindi l’art. 53 dello statuto federale, allora proposto e approvato al congresso del 1965.
  79. Queste direttive sono sottoposte all’approvazione delle strutture verticali del sindacato della III Assemblea organizzativa del 1958, cit., pp. 52 e 120 (da cui le prime due citazioni) e dalla relazione al consiglio generale del 1963, cit., p. 72 (da cui la terza citazione). Esse si ritrovano pressoché testuale nella relazione sulle Strutture del sindacato alla I Assembleaorganizzativa della FIM, cit., pp. 32 sgg. e nelle relative conclusioni (pp. 74 sgg.). Nella medesima prospettiva di allargare la partecipazione di base alle decisioni del sindacato provinciale vanno comprese le proposte, pur avanzate in quest’ultima assemblea (pp. 34, 74) di costituire altri organismi a livello di zona (le leghe zonali), rappresentative di tutte le SAS, con funzioni di coordinamento delle stesse, di stimolo e di assistenza alla loro attività, di iniziativa e di promozione organizzativa, nonché di compiti consultivi agli organi direttivi provinciali.
  80. Cfr., soprattutto, la relazione al consiglio generale del 1963, cit., pp. 74 sgg., che individua proprio in questa materia e nel modo in cui è stata tradizionalmente impostata «il terreno sul quale in maniera specifica alligna e imperversa il fenomeno del paternalismo sindacale». Ma l’indicazione proposta dovrà attendere a lungo per essere raccolta dalle organizzazioni interessate (vedi oltre). Del resto in quel tempo la questione finanziaria era oggetto di aspre dispute a livello ben più alto, cioè fra le confederazioni e alcune federazioni, segnatamente quella dei metalmeccanici, che rivendicavano più ampi margini di autonomia amministrativa e più favorevoli criteri di riparto dei contributi fra strutture verticali e orizzontali. Vedi, al riguardo, le tesi della FIM alla I Assemblea organizzativa, cit., pp. 58 sgg.
  81. Queste affermazioni della relazione al consiglio generale del 1963, cit., pp. 73 sgg. (ma vedi analogamente le conclusioni al IV Congresso nazionale della FIM del 1962, p. 148) sintetizzano ancora una volta con efficacia le più rigorose tesi dell’ideologia associativa della CISL, cercando altresì di valorizzarne le potenzialità democratiche. È significativo, in particolare, come si sottolinei a più riprese che il fattore dinamico dell’associazione nasce da una dialettica con i rapporti economici aziendali e con gli interessi relativi, propri come tali di tutti i lavoratori (e non dei soli iscritti). Non a caso si ribadisce l’importanza della «comunanza degli interessi che si ricollega in linea diretta e immediata alla categoria, e, nell’ambito della categoria, a quel centro primario e irripetibile di interessi categoriali che è l’azienda» (p. 73). Si tratta peraltro di accenni non sempre chiari, di cui non sembrano cogliersi (o svolgersi) tutte le implicazioni, talora resi ambivalenti da indicazioni opposte che sembrano alludere a un’idea sterile e autosufficiente dell’associazionismo (v. nota 73). Sono questi del resto fra i punti ancora meno risolti dell’impostazione sindacale, non solo della CISL, il cui peso si renderà sempre più grave negli eventi del ’68-’69 (vedi n. 1 del cap. III e in fine).
  82. Vedi, ad esempio, la relazione alla III Assemblea organizzativa, cit. pp. 48 sgg., 51 sg.; la relazione al consiglio generale del 1963, cit., pp. 73, 76 sgg.; la relazione Storti al IV Congresso nazionale del 1962, cit., p. 79; le conclusioni del IV Congresso nazionale della FIM, 1962, p. 148.
  83. Così, le conclusioni al IV Congresso FIM, loc. cit.
  84. Le procedure tipo di risoluzione delle controversie individuali e collettive di lavoro previste dalla nostra contrattazione collettiva presentano com’è noto, un notevole grado di staticità nel tempo, rimanendo tradizionalmente fondate su un doppio esame della materia controversa da parte degli agenti sopra indicati rispettivamente con la direzione e con le associazioni imprenditoriali (locali o nazionali a seconda dei casi). Neppure le procedure speciali introdotte nella contrattazione collettiva all’inizio degli anni ’60, specie per controversie su cottimi e qualifiche, introducono modifiche sostanziali al riguardo, riducendosi a poco più che a parafrasi del procedimento generale. La prevalenza degli organismi sindacali territoriali in sede di composizione delle controversie di lavoro è del resto tradizionalmente sostenuta dalla CISL; vedi, ad esempio, il volume a cura dell’ufficio studi, Conciliazione ed arbitrato nelle controversie di lavoro, Roma, 1958, specialmente pp. 68 sg. Per un rapido esame critico della normativa contrattuale nel periodo in questione, cfr., in particolare, Giugni, L’evoluzione della contrattazione collettiva nell’industria mineraria e siderurgica, cit., pp. 58 sgg.
  85. Così la relazione al consiglio generale del 1963, cit., p. 74, affermando che operare tale scissione è come «chiedere alla gente di rafforzare uno strumento senza che poi in concreto ne possa sperimentare autonomamente la indispensabilità e l’efficacia».
  86. Dallo studio, più volte citato, di Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, pp. 111 sgg.
  87. Così, testualmente, Le conclusioni di A. Novella al convegno di Livorno, in «Rassegna sindacale», 1961, n. 43-44, p- 210 (riportate in appendice), indicando proprio in questa impostazione l’unico modo di per far sfuggire l’istituto ai pericoli sempre incombenti di aziendalismo (conclusioni che su questo e altri punti di seguito menzionati riprendono in larga misura un intervento di Scheda allo stesso convegno). In termini analoghi, cfr., ad esempio, Nicosia, L’azienda primo fronte del sindacato di classe, ibidem, n. 43-44, p. 2121.
  88. Le conclusioni di Novella al convegno di Livorno, cit., p. 2170.
  89. Così Didò, Per una verifica critica del lavoro di rafforzamento organizzativo del sindacato, in «Rassegna sindacale», 1962, n. 57-60, p. 16, nonché i testi citati nelle note precedenti e, più tardi, la relazione generale di Trentin, al XIV Congresso nazionale della FIOM (Rimini, 1964), in «Sindacato moderno», 1964, n. 1-3, pp. 61 sg. Sotto tale profilo l’istituto si qualifica, anche per la CGIL, non solo come espressione di «autonomia» e democrazia operaia, ma più specificamente, come «fatto associativo» atto anzitutto a «garantire una giusta vita democratica agli iscritti»: così Egoli, Appunti per una definizione dei compiti delle SSA, in «Rassegna sindacale», 1961, n. 39, p. 1934.
  90. Le conclusioni di Novella al convegno di Livorno, cit., p. 2171. Da taluni si accenna anzi alla necessità che le più importanti decisioni sulla politica contrattuale in azienda scaturiscano da questo confronto e dall’analisi della assemblea di tutti i lavoratori: cfr., ad esempio, Egoli, op. loc. cit.
  91. Cfr., soprattutto, Egoli, op. loc. cit., rilevando come i due aspetti, lungi dall’essere in contrasto, siano entrambi essenziali per una corretta concezione dell’istituto.
  92. Questo nesso è giustamente sottolineato da Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, cit., p. 113.
  93. Così Egoli, op. loc. cit.; nonché, la relazione di Novella al congresso confederale del 1960 (in I congressi della CGIL, VI, cit., pp. 55 sg.), e più tardi, la mozione n. 4 al congresso del 1965 (ibidem, VII, p. 635).
  94. La tesi ricorre con poche varianti in tutti i documenti già menzionati.
  95. Vedi qualche accenno nei testi citati di Novella e di Nicosia, ma, soprattutto, le affermazioni della relazione di Trentin, al XIV Congresso FIOM, cit., pp. 62 sgg. e la relativa risoluzione generale, n. 14 e n. 15, pp. 428 sg.
  96. Vedi la significativa analisi critica contenuta nel dibattito su Il rapporto tra diritti sindacali e potere contrattuale, con la partecipazione di Scheda, Trentin, Degli Esposti, Giannetta, Andriani, riportato su «Quaderni di Rassegna sindacale», 1968, n. 21, specialmente pp. 20 sgg., ove fra le ragioni prevalenti dell’ancora scarsa vitalità della sezione si annovera appunto la circostanza che essa è stata prevalentemente configurata secondo una concezione discendente dei rapporti intrasindacali, senza che si cogliesse in pieno il mutamento implicito nella sua valorizzazione. Per analoghe critiche sul fatto che non si sia dato «spazio sufficiente all’autonomia» delle SSA e degli organismi periferici in genere, cfr. il dibattito al convegno nazionale degli attivisti di base della CGIL (Genova, 25-26 novembre 1966) e il documento finale, in «Quaderni di Rassegna sindacale», 1966, n. 15, specialmente pp. 157 sg.
  97. Cfr., ad esempio, Egoli, Appunti per una definizione dei compiti delle sezioni sindacali d’azienda, cit., p. 1936.
  98. Cfr., fra le molte prese di posizioni al riguardo, Tatò, La strada che stanno aprendo i metallurgici italiani, in «Rassegna sindacale», 1962, n. 57-60, pp. 2 sgg., ove anche analoghe osservazioni critiche sull’idea di introdurre clausole contrattuali vincolanti l’azione di sciopero; e in generale, il dibattito al XIV Congresso nazionale della FIOM, sintetizzato nella risoluzione generale, cit. Vedi anche la rapida ricostruzione storica di Giugni, L’evoluzione della contrattazione collettiva, cit., p. 43, ove si sottolinea come tale impostazione della CGIL abbia talora dato luogo ad apprezzamenti positivi, specie nei riguardi della soluzione contrattuale nell’industria metalmeccanica a partecipazione statale, «anche come reazione alla ben più rigida posizione dei datori di lavoro privati». È noto inoltre che tale atteggiamento della CGIL fu ritenuto troppo arrendevole e duramente criticato da diversi settori della sua sinistra: cfr., in particolare, le tesi del gruppo facente capo alla rivista «Quaderni rossi».
  99. Vedi il dibattito citato a nota 96, e altre indicazioni al n. 1 del cap. III.
  100. L’adesione alla logica tradizionale è del tutto prevalente nelle tesi del congresso FIM del 1962 (Atti, cit., pp. 135 sgg.). Esse rilevano una palese preoccupazione di riprendere il controllo della contrattazione collettiva aziendale esplosa negli ultimi mesi, non solo per prevenire il sempre temuto pericolo dell’aziendalismo, ma per coordinarla e razionalizzarla, programmando «un ordinato svolgimento delle azioni sindacali, sia su un piano economico, prevedendo quali siano i diversi incrementi salariali da perseguire a seconda dei diversi andamenti produttivistici dei settori e delle aziende, sia sul piano normativo, stabilendo quali siano gli obiettivi di ordine generale, quali i contenuti della contrattazione integrativa a seconda delle diverse realtà» (p. 138). Analoghe sono le motivazioni addotte negli anni seguenti dalla stampa ufficiale per giustificare il principio dei «rinvii», se non la ristrettezza della sua applicazione (vedi note seguenti).
  101. Così Morelli, Ricercare nuove idee per l’azione sindacale, in «Dibattito sindacale», 1965, n. 1, p. 25.
  102. Morelli, loc. cit., ma l’osservazione è comune.
  103. La tendenza alla standardizzazione è già chiaramente rilevabile nelle prime esperienze applicative, per tutti gli istituti previsti nel rinvio, ed è tale da snaturarne la stessa natura. Così è, ad esempio, nel caso del premio di produzione, che tende sempre più a trasformarsi in una forma di «incremento salariale» generale, riproposto a metà del periodo di vigore del contratto, perdendo anche per questo progressivamente i propri caratteri dinamici connessi alla produttività aziendale: vedi, per tutti, Giugni, L’evoluzione della contrattazione collettiva, cit., pp. 33 e 108 sg., che sottolinea giustamente come su questa standardizzazione influisca in modo decisivo, oltre alla quasi contemporaneità delle trattative nelle varie aziende, «la coincidenza dei negoziatori dalla parte dei lavoratori (sindacati provinciali)». La tendenza alla uniformità della contrattazione nazionale dura fino a tempi recentissimi: vedi, ad esempio nel 1968, le denunce al convegno nazionale FIM di Torino (marzo 1968) su La contrattazione articolata, Milano 1969, pp. 22 sgg.
  104. I primi bilanci sulla applicazione degli impegni di contrattazione articolata stabiliti nel 1962-63 per l’industria metalmeccanica, mostrano infatti altissime percentuali di violazioni persino negli obblighi più elementari assunti dagli imprenditori (ad esempio, obblighi di comunicazione dei sistemi di cottimo, delle «mansioni nuove»). Vedi al riguardo i dati esposti da Morelli, La contrattazione articolata, in «Dibattito sindacale», 1965, n. 2, pp. 7 sgg., da cui risulta già come l’unico istituto contrattato in modo rilevante sia il premio di produzione, e anche in questo caso in poco più del 50% delle aziende. Si può dunque convenire che il sistema dei rinvii avviato nel 1962 ha avuto fin dall’inizio scarso effetto nell’incentivare e indicare i contenuti della nuova contrattazione. Sotto questo profilo la sua crisi è endemica, e l’equilibrio contrattuale e di tregua da esso instaurato appare essersi rotto prima ancora di instaurarsi concretamente: così, da ultimo, P. Santi, in un intervento al II Convegno di studio dell’AISRI, cit.
  105. Le citazioni sono dalla relazione della segreteria nazionale al V Congresso della FIM (1965), III parte, p. 119.
  106. Così, ancora, la relazione, cit., al V Congresso FIM, con esemplificazioni abbastanza restrittive.
  107. «Oggi, più che mai, dobbiamo impegnare ogni attenzione ed ogni energia per una piena applicazione del contratto di lavoro... Nello stesso tempo tuttavia occorre sottolineare l’importanza del «rispetto dei patti» da parte del sindacato; una efficace gestione del contratto pretende da parte nostra una piena responsabilità, se vogliamo combattere — con piena giustizia — gli imprenditori inadempienti. Tanto più che il nuovo contratto ha aperto un esteso campo d’intervento sindacale nelle fabbriche». Così si esprime la relazione generale approvata al comitato direttivo nazionale di Varazze nel novembre 1963 (ribadita dal congresso del 1965: vedi relazione, p. 91-93), allineandosi qui pienamente con le tesi tradizionali della CISL (ma anche della stessa cultura giuridica e politica del tempo) in materia di clausole di tregua.
  108. Così l’intervento di De Nardini al convegno nazionale FIM sulla contrattazione articolata (Torino, 1968), cit., p. 29.
  109. Queste proposte sono elaborate dalla FIM in diversi documenti a partire dalla metà degli anni ’60: vedi, già qualche cenno in Morelli, Ricercare nuove idee per l’azione sindacale, cit., p. 26 e in Di Nardo, I rapporti con le altre organizzazioni sindacali, in «Dibattito sindacale», 1965, n. 1, p. 40 (peraltro con molta cautela e insieme a tesi più tradizionali); ormai chiaramente la relazione della segreteria al V Congresso nazionale (1965), cit., pp. 120 sgg.; e, ancora, il dibattito e le conclusioni della II Assemblea organizzativa nazionale di Genova (Milano, 1968), pp. 13 sgg., 66 sgg.; e anche, ma con maggiori aperture, la relazione di Antoniazzi, al direttivo della FIM milanese del novembre 1966, in «Dibattito sindacale», 1967, n. 1, p. 19.
  110. A un simile riconoscimento avrebbe dovuto far riscontro l’attribuzione alla sezione e ai suoi rappresentanti delle garanzie già spettanti ai membri di CI (aspettative, permessi, tutela dai licenziamenti) e inoltre di una più ampia gamma di «diritti sindacali» atti a rendere concretamente operante la presenza sindacale in azienda (diritto di riunione, di raccolta di contributi, ecc.). Si tratta di diritti di cui si comincia già a proporre un riconoscimento legislativo attraverso lo «Statuto dei lavoratori», ma che la CISL e la FIM ritengono ancora, secondo le ben note posizioni tradizionali, doversi affermare in via esclusivamente contrattuale. Anche al loro interno peraltro cominciano a manifestarsi le prime opinioni favorevoli a nuove forme di intervento legislativo nei rapporti di lavoro: (vedi, per apprezzamenti positivi sull’intervento in materia di licenziamenti individuali, la relazione di Antoniazzi, citata nella nota precedente, e, più in generale, Merli, Brandini, Un rapporto costruttivo tra legge e contratto, in «Dibattito sindacale», 1967, n. 1, pp. 15 sgg.).
  111. Un simile punto viene ribadito ripetutamente dalla relazione al congresso nazionale del 1965, cit., e ancora alla II Assemblea organizzativa, cit., appunto per sottolineare la continuità delle tesi in esame rispetto alle impostazioni tradizionali.
  112. In tal senso vedi la relazione al Congresso nazionale del 1965, cit., p. 122.
  113. I primi accenni a una simile modifica, nel senso di ammettere «una maggiore attribuzione di poteri contrattuali», oltre che organizzativi, alle sezioni aziendali, si avvertono a livello confederale nella assemblea dei quadri dirigenti tenutasi a Montecatini nel giugno 1967, ove lo stesso Storti rileva, a giustificazione di tale conclusione, come non si debba consentire che «per timore di un male eventuale (aziendalismo) le sezioni sindacali d’azienda soffrano di un male certo (la scarsa presenza in azienda)»; vedine il resoconto in «Conquiste del lavoro», 1967, n. 25-26, pp. 31 sg., e, da parte della CGIL, il commento di Soffientini, La CISL recupera e rilancia le SSA, in «Rassegna sindacale», 1967, n. 118-119, p. 8, che valuta positivamente tale nuovo atteggiamento sottolineando il ruolo rilevante esercitato al riguardo dalle posizioni anticipatrici della FIM. Le incertezze e i limiti delle indicazioni così abbozzate risultano peraltro palesi dal seguente ampio dibattito apertosi in argomento su «Conquiste del lavoro». Insieme a voci apertamente favorevole a una piena valorizzazione funzionale della sezione in materia contrattuale, si registrano interventi ancora del tutto legati alla concezione originaria, meramente strumentale-organizzativa dell’istituto (vedi ad esempio, quelli di Falcone, di Sironi, in «Conquiste del lavoro», 1967, n. 49, pp. 8-9; di Ravizza, ibidem, n. 46). Molti degli interventi più autorevoli, fra cui lo stesso Storti (ibidem, 1968, n. 17-18, pp. 12 sg.), ritengono che i poteri contrattuali di cui a Montecatini si è auspicato il riconoscimento alla SAS vadano intesi soprattutto come poteri di amministrazione del contratto e di adeguamento delle sue norme alle diverse realtà aziendali, piuttosto che di creazione di nuove norme; o, tutt’al più, come poteri di partecipare, in stretto collegamento col sindacato provinciale, alla contrattazione su punti ben definiti (dai rinvii del contratto nazionale di categoria o dell’accordo quadro). Cfr., analogamente, Scalia, ibidem, pp. 11 sg., nonché, Fantoni, ibidem, 1967, n. 44, pp. 4 sg., il quale precisa che ogni estensione di poteri della SAS deve intendersi «entro» rapporto di identificazione dell’istituto alle direttive del sindacato e deve essere il risultato di «una delega espressa» da parte di questo.
  114. La giustificazione più radicale del superamento di tale «legalitarismo contrattuale» viene vista nel fatto che «ogni convenzione è discutibile se non risponde, o non risponde più alle esigenze reali che l’avevano provocata; i problemi originati dal rapporto di lavoro non sono un’invenzione; essi vanno risolti dove e quando sorgono»: così, fra i molti, Caviglioli, Meno burocrazia e paternalismo, in «Dibattito sindacale», 1968, n. 3-4, p. 51. Il ruolo frenante del principio di tregua per la generale azione del sindacato è stato di recente ampiamente discusso nella relazione di Romagnoli al citato convegno dell’AISRI (Roma 28-29 novembre 1970), (Romagnoli, Il contratto collettivo «difficile», in «Politica del diritto», II (1971), pp. 71 sgg. Secondo l’autore, tale clausola, nata come «corrispettivo del consenso prestato dagli imprenditori ad accettare un modello dinamico di relazioni industriali», nel lungo periodo sarebbe stata da questi sfruttata per «risolvere a proprio vantaggio... l’ambiguità intrinseca a tale tendenza di politica contrattuale, per costruirsi un interlocutore cosiddetto valido, cioè «responsabile ed efficiente», omogeneo al sistema capitalistico e quindi capace di compensare largamente gli aumenti del costo di lavoro connessi all’apertura di un fronte di lotta a livello dell’unità produttiva» (pp. 12 sg.).
  115. Il contratto nazionale può costituire uno strumento idoneo a definire un plafond uniforme di tutela per l’intera categoria — in particolare per le piccole aziende — su alcuni istituti economici e sociali fondamentali, a «stabilire le linee generali di politica contrattuale» e di collegamento della contrattazione aziendale» nonché, per altro verso, a premere «per un processo più generale di trasformazione della nostra società, che deve partire dalla trasformazione della fabbrica». Di contro il contratto aziendale costituisce la sede naturale e più valida per la trattazione di tutti «gli aspetti del rapporto di lavoro che si presentino comunque con caratteristiche particolari nelle varie aziende». Per queste citazioni vedi rispettivamente, Per una strategia di attacco, relazione della segreteria al congresso nazionale della FIM del 1969, pp. 31 e 33; e le tesi precongressuali della FIM milanese, in «Dibattito sindacale», 1968, n. 5, p. 56. Simili tesi emergono da una ampia discussione avviata ai vari livelli dell’organizzazione, i cui documenti più significativi sono raccolti nel Dossier su La struttura contrattuale, ibidem, 1968, n. 3-4, pp. 35 sgg., e, negli atti del convegno nazionale di Torino (marzo, 1968) su La contrattazione articolata, cit. Cfr. altresì, sullo stesso argomento, l’articolo di Merli Brandini, Per una nuova strategia contrattuale, in «Dibattito sindacale», 1968, n. 2, pp. 5 sgg.
  116. Questo rovesciamento di prospettiva circa i rapporti fra i diversi gradi contrattuali risulta sempre più netto nelle prese di posizione della FIM: vedi, oltre alla relazione al congresso nazionale e a diversi interventi dei dibattiti citati nella nota precedente, la relazione di Carniti al VI congresso provinciale della FIM milanese, ove sono sottolineati con particolare vigore i temi caratterizzanti della nuova strategia contrattuale inseriti in una prospettiva di trasformazione della azienda e più in generale delle stesse strutture sociali. Vedi, pure, l’articolo di Bentivogli, La contrattazione aziendale nel Veneto, in «Dibattito sindacale», 1968, n. 6, pp. 15 sgg., vari interventi al Dibattito sul contratto, ibidem, pp. 19 sgg., e sulla centralità dell’azienda anche per il ruolo politico del sindacato, Antoniazzi, Lotta politica e lotta sindacale nella fabbrica, in «Dibattito sindacale», 1968, n. 5, pp. 27 sgg.
  117. Cfr. diversi interventi nel convegno di Torino su La contrattazione aziendale, cit.; le tesi precongressuali della FIM milanese, cit., e la mozione n. 4 approvata allo stesso congresso, in «Dibattito sindacale», 1969, n. 1, p. 42; quasi tutti gli interventi nel Dossier, Democrazia nel sindacato, ibidem,1968, n. 5, pp. 33 sgg.; e, da ultimo, la mozione al congresso nazionale del 1969, parte I, in fine (pp. 8 sg.), ove si sottolinea specificamente che «la SAS è il sindacato in fabbrica che elabora e realizza le proprie politiche organizzative e contrattuali in armonia con le linee di politica generale della federazione, non in via delegata, ma traendo dal proprio congresso tale potere». A livello confederale un cenno in questo senso è nella mozione della lista n. 1 (minoritaria), al congresso del luglio 1969, in Il contributo degli «amici di Firenze» alle politiche della CISL e del movimento sindacale italiano, Roma, 1969, p. 228, n. 14. Per ulteriori indicazioni, relative ad altre federazioni della CISL, vedi il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 190 sgg.
  118. Nella stessa prospettiva di ampliare le possibilità di partecipazione delle strutture aziendali alla direzione della politica sindacale e di facilitare il loro coordinamento rientrano i tentativi di rendere più vitali le leghe zonali, di recente rilanciate (vedi nota 79), di avviare effettivamente una iniziale autonomia finanziaria delle sezioni da tempo proposta (nota 80) e di inserire negli organi direttivi del sindacato provinciale rappresentanti eletti direttamente dalle sezioni sindacali più grosse: così, ad esempio, lo statuto della FIM-CISL di Brescia; e quello di Milano (luglio 1968), art. A (quest’ultimo per le sezioni superiori a 500 iscritti).
  119. Per questi giudizi vedi già Antoniazzi, Evoluzione delle strutture sindacali d’azienda, cit., p. 18.
  120. Cfr., ad esempio, Manghi, La democrazia è nella natura del sindacato, in «Dibattito sindacale», 1968, n. 5, p. 34 e Ramella, Il futuro è soprattutto aziendale, ibidem, n. 3-4, p. 65, entrambi sottolineando come la presenza in azienda di sezioni dotate di poteri contrattuali autonomi debba rendere possibile al sindacato un confronto con tutti i lavoratori attraverso il nuovo strumento dell’assemblea, «a cui il sindacato si rivolge non per comunicare direttive, ma per mettere in discussione idee e consigli» (Ramella, op. cit., p. 65); nonché, più tardi, la mozione finale al congresso nazionale FIM del 1969, parte I, (pp. 8 sg.). Per. generali accenni critici sul significato del fondamento associativo del sindacato e sulla necessità di superarne una interpretazione chiusa vedi Cella, Manghi, Per una nuova formazione sindacale,in «Dibattito sindacale», 1968, n. 6, pp. 59 sgg.
  121. Così Manghi, La democrazia è nella natura del sindacato, cit., 386.
  122. Una organica enunciazione di queste tesi, destinate ad essere ulteriormente sviluppate nelle più recenti prese di posizione della FIM (vedi n. 1 del cap. III e in fine) si trova, ad esempio, in Antoniazzi, Evoluzione delle strutture sindacali d’azienda, cit., pp. 19 e 41.
  123. Tale espansione si traduce in un aumento degli iscritti da circa 84.000 del 1959 a 170.479 nel 1968 e 208.184 nel 1969; di contro all’aumento della FIOM da 185.183 a 271.408 e 327.020 (vedi la ricerca citata della Beccalli, Scioperi e organizzazione sindacale, Milano, 1950-1970). In certe zone industriali del nord come, ad esempio, a Milano e a Torino gli iscritti si triplicano dal 1959 al ’68, e a Treviso arrivano addirittura a decuplicarsi (vedi ulteriori dati nella II parte). Il ricambio dei quadri di fabbrica, pur in mancanza di stime esatte, viene attendibilmente nello stesso periodo, in misure superiori al 40%.
  124. Così Sclavi, Le due CISL, cit., p. 24. L’importanza di questi fattori di rinnovo, sia generazionale, sia professionale, della classe operaia per spiegare il nuovo tipo di conflittualità e di azione sindacale scoppiato alla fine del periodo in esame è rilevata anche nella relazione di Pizzorno, Appunti di discussione sugli aspetti politici dell’azione sindacale, presentata (oralmente) al seminario di Ancona, I sindacati nell’economia e nella società italiana, cit. L’autore menziona altresì la particolare posizione e incisività dell’azione della FIM in questo contesto, sottolineando, fra l’altro, il rilievo del suo carattere di organizzazione con la «memoria corta, derivantegli appunto dalle sue caratteristiche strutturali. Vedi ora, dello stesso a., Sull’azione politica dei sindacati, in «Problemi del socialismo», 1970, spec. pp. 884 sgg. Qualche accenno in tal senso si può rinvenire anche in Castellina, La scoperta della politica, in «Il Manifesto», 1970, n. 10-11. pp. 19 sgg. (commento al convegno della FIM del luglio 1970).
  125. Scalvi, Le due CISL, loc. cit., con esemplificazioni specifiche di proposte contrattuali avanzate nel periodo dalla FIM e direttamente legate a questa sua particolare attenzione politica.