Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c2
Nel caso della CGIL, la
rimeditazione dell’istituto, avviata dal consuntivo degli anni ’50 e dall’esigenza di
tradurre in un rinnovamento delle politiche organizzative forte potenziale di lotte
aziendali espressosi all’inizio egli anni ’60, giunge questa volta a delineare, sotto
l’aspetto programmatico, un mutamento ben altrimenti sostanziale nel suo modello
normativo. Procedendo per accenni, anche perché la ricostruzione storica di questa fase
del pensiero della CGIL è già stata operata in termini largamente convincenti
[86]
, lo sviluppo del modello dell’istituto si manifesta pure qui anzitutto in un
ripensamento dei suoi caratteri strutturali, che già li delinea in termini diversi
rispetto a quelli consueti nella versione originaria e tuttora persistente nella CISL.
In particolare, si denuncia il pericolo di sopravvalutare gli aspetti meramente
«burocratici» dell’istituto, cioè il suo profilo di organismo elettivo o di «cartello di
organizzazioni o di rappresentanze di organizzazioni» e se ne sottolinea invece la
natura di «organizzazione di massa»
[87]
. Con questa affermazione non {p. 75}si giunge mai a negarne
la specificità sindacale, per cui esso «ha il suo centro nell’assemblea degli iscritti»
[88]
e d «è l’espressione della volontà organizzata dei lavoratori che hanno
scelto una linea di politica sindacale» distinta per i suoi contenuti da quella di altri sindacati
[89]
. Si ritiene però essenziale che, nonostante tale specificità sindacale, il
gruppo di iscritti realizzi costanti «rapporti con la massa dei lavoratori che non sono
iscritti attraverso delle assemblee generali di lavoratori» e si ponga quindi come
fattore propulsivo di «unità di azione fra tutti i lavoratori di tutte le tendenze
sindacali e politiche»
[90]
. Apertura alla generalità dei lavoratori e tensione all’unità sindacale
costituiscono, nel pensiero della CGIL, presupposti indispensabili per fare della
sezione un fattore propulsivo di democrazia non solo per la vita interna del sindacato
ma per tutta l’azione sindacale in azienda
[91]
. Appare evidente come, sottolineando tali presupposti, la CGIL sottolinei
nel modello dell’istituto le stesse caratteristiche centrali della sua generale
concezione del sindacato quale espressione unitaria della classe, che avevano
rappresentato i
¶{p. 76}punti di forza e la ragione tradizionale della
sua preferenza per la commissione interna
[92]
.
A un simile ripensamento dei
caratteri strutturali dell’istituto si accompagna una diversa visione del suo
significato funzionale, che porta a superarne l’accezione, fino allora prevalente, di
mero strumento organizzativo e a riconoscergli compiti sostanziali in tutte le
questioni sindacalmente rilevanti, a cominciare dalla «contrattazione collettiva su
tutta la gamma dei problemi relativi ai rapporti di lavoro e di produzione»
[93]
. Nei confronti della CI ciò è reso possibile e si spiega col definitivo
superamento, almeno teorico, delle tradizionali esitazioni a delimitare i compiti
reciproci dei due istituti. Si giunge così ad affermare in modo univoco il principio
dell’esclusività del potere sindacale in materia contrattuale, pur senza negare ancora
la possibilità e l’opportunità di eccezioni, e pur respingendo, in polemica con la CISL,
ogni accenno ad indebolire la CI nei suoi compiti di controllo della «legalità
contrattuale» e di difesa dei lavoratori sui posti di lavoro
[94]
. Nei rapporti con gli altri livelli dell’organizzazione questa
valorizzazione funzionale dell’istituto comporta una redistribuzione dei poteri
sindacalmente più rilevanti all’interno della gerarchia sindacale, in partico nei
confronti del sindacato territoriale di categoria.
Ciò e avvertito abbastanza
chiaramente nel suo significato di esigenza generica di dare maggiore ampiezza
all’autonomia di iniziativa della sezione. Si intuiscono talora anche le implicazioni
radicali che le nuove direttive possono portare nella stessa concezione di fondo dei
rapporti fra le varie strutture sindacali, per cui essi devono essere visti in modo
rispetto alla impostazione discendente tipica del passato e la sezione aziendale può
diventare il fondamento originario e il punto di riferimento di tutte le
¶{p. 77}politiche sindacali
[95]
. Ma in altre ipotesi tali implicazioni son meno chiare e si ha anzi
l’impressione che i poteri della organizzazione sindacale, pur quantitativamente
allargati, siano ancora subordinati nel loro fondamento ultimo, se non nel loro
esercizio, ai livelli superiori, conseguendo in definitiva, secondo la logica
tradizionale, in via di decentramento e non di autonomia
[96]
. In ogni caso è certo che il fondamento autonomo delle competenze
dell’istituto è fra i primi punti ad essere lasciati cadere nel seguito degli anni ’60,
e quindi fra i meno accentuati, sia nel dibattito interno alla confederazione, pure per
altri aspetti così ampio, sia nella polemica con la CISL. La discriminante fondamentale
con la concezione di quest’ultima, infatti, è vista spesso nella sua versione
separatista o «monopolistica» della sezione sindacale, che contrasta con la prospettiva
unitaria tradizionalmente perseguita dalla CGIL (cioè in un fatto che riguarda i
rapporti fra i due maggiori sindacati e la possibilità di un avvicinamento delle loro
strutture) e non sulla posizione funzionale da attribuire alla organizzazione sindacale
di base (separata o unitaria che sia). Nell’ipotesi di un abbandono da parte della CISL
di tale concezione separatista si ammette anzi esplicitamente che niente più osterebbe a
una convergenza di posizioni sul ruolo degli organismi di fabbrica
[97]
.¶{p. 78}
Il significato di queste tesi
sull’autonomia delle sezioni viene ulteriormente ridimensionato se si considera la
situazione sindacale in cui esse si collocano, a cominciare dall’assetto acquisito in
quegli anni dalla contrattazione articolata e dall’atteggiamento di fatto espresso dai
sindacati italiani, compresa la CGIL, sull’azione sindacale di fabbrica. Il sistema
contrattuale più generalmente in vigore, costruito com’è su una serie di rinvii dal
livello nazionale a quello aziendale e affidato alla gestione esclusiva del sindacato
territoriale, realizza una soluzione istituzionale incompatibile con una qualsiasi
iniziativa contrattuale della sezione aziendale e a maggior ragione con una concezione
originaria della sua competenza. Esso costituisce un ostacolo tanto più pesante a
realizzare questa concezione, in quanto la CGIL e la stessa FIOM, pur mantenendo fin
dall’inizio in proposito gravi riserve di principio, devono finire per accedere alla
soluzione raggiunta
[98]
, che rimarrà stabilmente consolidata per larga parte degli anni ’60. Un
condizionamento nello stesso senso è rappresentato dalla circostanza che, nonostante
l’indubbio intensificarsi della attività sindacale in quel tempo, la sezione sindacale
non accenna ad andare al di là dello stadio embrionale di evoluzione che l’ha sempre
contraddistinta, e la CI continua ad egemonizzare di regola una parte preminente
dell’azione rivendicativa in azienda. Quel che più importa, l’unica iniziativa adottata
dai sindacati territoriali della stessa CGIL per reagire a questa situazione e per
dirigere in modo sindacalmente ¶{p. 79}corretto la contrattazione
aziendale è di intensificare al riguardo i propri interventi diretti, quanto meno nelle
attività periodiche di contrattazione formale. Nessun tentativo di avviare un effettivo
intervento della sezione sindacale in materia viene mai seriamente avviato, neppure in
casi pilota e sotto controllo del sindacato provinciale, o nella forma ridotta della
partecipazione congiunta alle trattative. Così come non viene mai decisamente avanzata,
né dalla CISL né dalla CGIL, la richiesta di un riconoscimento formale della sezione
dalla controparte, rinviandosi ancora una volta ogni iniziativa in proposito a tempi
storicamente più maturi. Il che non può non inficiare la credibilità dello stesso
rinnovamento ideale proposto dalla CGIL in materia di organizzazione sindacale di
fabbrica. Non a caso le incertezze delle posizioni confederali al riguardo saranno
ancora oggetto di denuncia radicale negli anni ’68-69, quando una rinnovata attenzione
per l’argomento, in una mutata situazione storica, porterà a riesaminare l’esperienza
passata con accenti critici non dissimili da quelli del 1960
[99]
.
6. Il dibattito nella FIM: riflessione sulla contrattazione articolata e sull’esperienza unitaria.
Definito così nelle sue linee
principali il modello di organizzazione sindacale d’azienda elaborato dalle maggiori
confederazioni, l’attenzione va ora concentrata sulle posizioni manifestate in materia
dai metalmeccanici della CISL, oggetto specifico della restante parte dell’indagine.
Come già si diceva, un autonomo contributo teorico, oltre che operativo, da parte dei
sindacati di categoria alla soluzione dei maggiori problemi sindacali e organizzativi
comincia a profilarsi, specie all’interno della CISL, con il consolidamento progressivo
di questi sindacati all’inizio degli anni ’60. Nel caso della FIM, il significato e la
delicatezza del dibattito sono particolarmente accentuati, non solo per la importanza
centrale della categoria, ma ¶{p. 80}per la situazione interna del
sindacato, che proprio in quel periodo dà l’avvio a un rapido processo di rinnovamento
politico, portandosi in qualche anno in posizione del tutto peculiare e poi nettamente
polemica nei confronti della confederazione.
In una prima fase, convenzionalmente
estensibile fino a tutta la metà degli anni ’60 e comprensiva del dibattito al congresso
di Brescia del 1965, la verifica della FIM rispetto alle tesi confederali procede
essenzialmente da una riflessione sull’esperienza contrattuale scaturita dai contratti
del 1962-63 e condotta in modo unitario con la FIOM. Le critiche derivanti
immediatamente da tale esperienza unitaria e, frammiste ancora a difese d’ufficio di sistema
[100]
, si appuntano soprattutto sui suoi più evidenti difetti di funzionamento.
Si comincia a rilevare sempre più
chiaramente che l’espansione della contrattazione articolata, e persino la sua
attuazione nei limiti già contrattualmente previsti, trovano ostacolo non solo nella
situazione congiunturale e nell’opposizione padronale, ma nello stesso sistema di rinvii
relativi agli oggetti, ai tempi e alle procedure di contrattazione, il quale si traduce
in una serie «di schemi rigidi e binari obbligati» pesantemente limitativi
dell’iniziativa contrattuale decentrata
[101]
, come si era temuto dagli osservatori più avvertiti, specie della CGIL. Si
avverte che il sistema — costretto in tali schemi — rischia di
ripro
¶{p. 81}durre i difetti già denunciati di rigidità
dell’ordinamento precedente o addirittura di peggiorarli, dato che preclude
giuridicamente ogni possibilità di esperienze contrattuali aziendali spontanee, come
quelle pur episodicamente avviate negli anni precedenti in alcune situazioni pilota. In
ogni caso la contrattazione aziendale così programmata finisce per risultare
«differenziata solo nella forma» ma «generalizzata nella sostanza», perdendo le stesse
ragioni essenziali del suo esistere e della sua efficacia
[102]
. D’altra parte tali effetti negativi della rigidità del sistema, di cui
l’esperienza comincia a offrire testimonianze evidenti nella perdurante
standardizzazione dei contratti aziendali e nella attuazione minimale degli istituti
[103]
, non appaiono compensati neppure lontanamente dai previsti effetti positivi,
in quanto la speranza che il riconoscimento in sede nazionale della contrattazione
decentrata servisse a incentivarne e a normalizzarne il processo si concreta in misura
insoddisfacente o trascurabile nella esperienza applicativa
[104]
.{p. 82}
Note
[86] Dallo studio, più volte citato, di Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, pp. 111 sgg.
[87] Così, testualmente, Le conclusioni di A. Novella al convegno di Livorno, in «Rassegna sindacale», 1961, n. 43-44, p- 210 (riportate in appendice), indicando proprio in questa impostazione l’unico modo di per far sfuggire l’istituto ai pericoli sempre incombenti di aziendalismo (conclusioni che su questo e altri punti di seguito menzionati riprendono in larga misura un intervento di Scheda allo stesso convegno). In termini analoghi, cfr., ad esempio, Nicosia, L’azienda primo fronte del sindacato di classe, ibidem, n. 43-44, p. 2121.
[88] Le conclusioni di Novella al convegno di Livorno, cit., p. 2170.
[89] Così Didò, Per una verifica critica del lavoro di rafforzamento organizzativo del sindacato, in «Rassegna sindacale», 1962, n. 57-60, p. 16, nonché i testi citati nelle note precedenti e, più tardi, la relazione generale di Trentin, al XIV Congresso nazionale della FIOM (Rimini, 1964), in «Sindacato moderno», 1964, n. 1-3, pp. 61 sg. Sotto tale profilo l’istituto si qualifica, anche per la CGIL, non solo come espressione di «autonomia» e democrazia operaia, ma più specificamente, come «fatto associativo» atto anzitutto a «garantire una giusta vita democratica agli iscritti»: così Egoli, Appunti per una definizione dei compiti delle SSA, in «Rassegna sindacale», 1961, n. 39, p. 1934.
[90] Le conclusioni di Novella al convegno di Livorno, cit., p. 2171. Da taluni si accenna anzi alla necessità che le più importanti decisioni sulla politica contrattuale in azienda scaturiscano da questo confronto e dall’analisi della assemblea di tutti i lavoratori: cfr., ad esempio, Egoli, op. loc. cit.
[91] Cfr., soprattutto, Egoli, op. loc. cit., rilevando come i due aspetti, lungi dall’essere in contrasto, siano entrambi essenziali per una corretta concezione dell’istituto.
[92] Questo nesso è giustamente sottolineato da Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, cit., p. 113.
[93] Così Egoli, op. loc. cit.; nonché, la relazione di Novella al congresso confederale del 1960 (in I congressi della CGIL, VI, cit., pp. 55 sg.), e più tardi, la mozione n. 4 al congresso del 1965 (ibidem, VII, p. 635).
[94] La tesi ricorre con poche varianti in tutti i documenti già menzionati.
[95] Vedi qualche accenno nei testi citati di Novella e di Nicosia, ma, soprattutto, le affermazioni della relazione di Trentin, al XIV Congresso FIOM, cit., pp. 62 sgg. e la relativa risoluzione generale, n. 14 e n. 15, pp. 428 sg.
[96] Vedi la significativa analisi critica contenuta nel dibattito su Il rapporto tra diritti sindacali e potere contrattuale, con la partecipazione di Scheda, Trentin, Degli Esposti, Giannetta, Andriani, riportato su «Quaderni di Rassegna sindacale», 1968, n. 21, specialmente pp. 20 sgg., ove fra le ragioni prevalenti dell’ancora scarsa vitalità della sezione si annovera appunto la circostanza che essa è stata prevalentemente configurata secondo una concezione discendente dei rapporti intrasindacali, senza che si cogliesse in pieno il mutamento implicito nella sua valorizzazione. Per analoghe critiche sul fatto che non si sia dato «spazio sufficiente all’autonomia» delle SSA e degli organismi periferici in genere, cfr. il dibattito al convegno nazionale degli attivisti di base della CGIL (Genova, 25-26 novembre 1966) e il documento finale, in «Quaderni di Rassegna sindacale», 1966, n. 15, specialmente pp. 157 sg.
[97] Cfr., ad esempio, Egoli, Appunti per una definizione dei compiti delle sezioni sindacali d’azienda, cit., p. 1936.
[98] Cfr., fra le molte prese di posizioni al riguardo, Tatò, La strada che stanno aprendo i metallurgici italiani, in «Rassegna sindacale», 1962, n. 57-60, pp. 2 sgg., ove anche analoghe osservazioni critiche sull’idea di introdurre clausole contrattuali vincolanti l’azione di sciopero; e in generale, il dibattito al XIV Congresso nazionale della FIOM, sintetizzato nella risoluzione generale, cit. Vedi anche la rapida ricostruzione storica di Giugni, L’evoluzione della contrattazione collettiva, cit., p. 43, ove si sottolinea come tale impostazione della CGIL abbia talora dato luogo ad apprezzamenti positivi, specie nei riguardi della soluzione contrattuale nell’industria metalmeccanica a partecipazione statale, «anche come reazione alla ben più rigida posizione dei datori di lavoro privati». È noto inoltre che tale atteggiamento della CGIL fu ritenuto troppo arrendevole e duramente criticato da diversi settori della sua sinistra: cfr., in particolare, le tesi del gruppo facente capo alla rivista «Quaderni rossi».
[99] Vedi il dibattito citato a nota 96, e altre indicazioni al n. 1 del cap. III.
[100] L’adesione alla logica tradizionale è del tutto prevalente nelle tesi del congresso FIM del 1962 (Atti, cit., pp. 135 sgg.). Esse rilevano una palese preoccupazione di riprendere il controllo della contrattazione collettiva aziendale esplosa negli ultimi mesi, non solo per prevenire il sempre temuto pericolo dell’aziendalismo, ma per coordinarla e razionalizzarla, programmando «un ordinato svolgimento delle azioni sindacali, sia su un piano economico, prevedendo quali siano i diversi incrementi salariali da perseguire a seconda dei diversi andamenti produttivistici dei settori e delle aziende, sia sul piano normativo, stabilendo quali siano gli obiettivi di ordine generale, quali i contenuti della contrattazione integrativa a seconda delle diverse realtà» (p. 138). Analoghe sono le motivazioni addotte negli anni seguenti dalla stampa ufficiale per giustificare il principio dei «rinvii», se non la ristrettezza della sua applicazione (vedi note seguenti).
[101] Così Morelli, Ricercare nuove idee per l’azione sindacale, in «Dibattito sindacale», 1965, n. 1, p. 25.
[102] Morelli, loc. cit., ma l’osservazione è comune.
[103] La tendenza alla standardizzazione è già chiaramente rilevabile nelle prime esperienze applicative, per tutti gli istituti previsti nel rinvio, ed è tale da snaturarne la stessa natura. Così è, ad esempio, nel caso del premio di produzione, che tende sempre più a trasformarsi in una forma di «incremento salariale» generale, riproposto a metà del periodo di vigore del contratto, perdendo anche per questo progressivamente i propri caratteri dinamici connessi alla produttività aziendale: vedi, per tutti, Giugni, L’evoluzione della contrattazione collettiva, cit., pp. 33 e 108 sg., che sottolinea giustamente come su questa standardizzazione influisca in modo decisivo, oltre alla quasi contemporaneità delle trattative nelle varie aziende, «la coincidenza dei negoziatori dalla parte dei lavoratori (sindacati provinciali)». La tendenza alla uniformità della contrattazione nazionale dura fino a tempi recentissimi: vedi, ad esempio nel 1968, le denunce al convegno nazionale FIM di Torino (marzo 1968) su La contrattazione articolata, Milano 1969, pp. 22 sgg.
[104] I primi bilanci sulla applicazione degli impegni di contrattazione articolata stabiliti nel 1962-63 per l’industria metalmeccanica, mostrano infatti altissime percentuali di violazioni persino negli obblighi più elementari assunti dagli imprenditori (ad esempio, obblighi di comunicazione dei sistemi di cottimo, delle «mansioni nuove»). Vedi al riguardo i dati esposti da Morelli, La contrattazione articolata, in «Dibattito sindacale», 1965, n. 2, pp. 7 sgg., da cui risulta già come l’unico istituto contrattato in modo rilevante sia il premio di produzione, e anche in questo caso in poco più del 50% delle aziende. Si può dunque convenire che il sistema dei rinvii avviato nel 1962 ha avuto fin dall’inizio scarso effetto nell’incentivare e indicare i contenuti della nuova contrattazione. Sotto questo profilo la sua crisi è endemica, e l’equilibrio contrattuale e di tregua da esso instaurato appare essersi rotto prima ancora di instaurarsi concretamente: così, da ultimo, P. Santi, in un intervento al II Convegno di studio dell’AISRI, cit.