Tiziano Treu
Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c2
A questa situazione di crisi delle politiche e delle strutture confederali faceva riscontro un avvio degli anni ’60 caratterizzato da elementi nuovi nella generale situazione del paese tali da far presagire una possibile svolta radicale nel nostro sistema di relazioni industriali, che ponesse quanto meno le premesse per una sua «modernizzazione» [68]
. Alle prime tensioni sul mercato del lavoro, che, specie in alcune regioni italiane, consentivano un rafforzamento della posizione e delle spinte rivendicative operaie, mentre frenavano la perdita di iscritti dei sindacati, si aggiungeva
{p. 66}un più propizio clima politico, che contribuiva a rendere il sindacato, compresa in particolare la CGIL, progressivamente accettabile come legittimo agente contrattuale e di politica economica. All’interno delle fabbriche si avvertivano i primi palesi sintomi di risveglio dell’attività contrattuale e di lotta, in larga parte spontaneo e non previsto dalle organizzazioni sindacali secondo le loro stesse ammissioni [69]
. Tale risveglio doveva, com’è noto, segnare la caduta definitiva del tradizionale sistema contrattuale italiano e il varo della contrattazione articolata, quando le aspettative al riguardo sembravano ormai quasi frustrate [70]
.
In tale contesto, che richiedeva palesemente una revisione autocritica di tutte le soluzioni fino allora perseguite, il problema delle strutture organizzative e dei rapporti fra queste viene a porsi per la prima volta al centro del dibattito interno delle confederazioni [71]
. {p. 67}All’interno della CISL, i tentativi di riconsiderare le impostazioni tradizionali sulla funzione della SAS, presenti per accenni già all’assemblea nazionale organizzativa del 1958, che rappresenta un primo sforzo di valutare in prospettiva tutta la politica organizzativa confederale, trovano la loro espressione più organica in una ampia relazione, preparata nel ’63 per il Consiglio generale. Analizzando i presupposti base della concezione dell’istituto, si comincia con l’avvertire che le insufficienze di sviluppo da esso palesate negli ultimi anni non sono riducibili solo a fattori esterni o a mere deficienze nella tecnica organizzativa, ma sono «particolarmente gravi e preoccupanti» proprio perché «investono le fondamenta stesse del sindacato» [72]
, e possono quindi superarsi solo con un intervento a questo livello. Più precisamente, il punto cruciale cui devono ricondursi tutti gli aspetti della precaria situazione politico-organizzativa denunciata, viene individuato nella mancata coerenza della CISL con il postulato centrale della propria concezione sindacale, cioè nel non aver attuato all’interno delle strutture una vita associativa di base sufficientemente intensa [73]
. E fra {p. 68}gli ostacoli di fatto all’avvio di una simile vita associativa è annoverata, in particolare, «la scarsa articolazione democratica» delle diverse strutture interne sindacali, a cominciare da quelle aziendali, dove la partecipazione dei soci alla vita associativa dovrebbe trovare logicamente il suo inizio. Troppo spesso, si osserva, tale vitalità democratica è soffocata, specie a questo livello, da «un diffuso paternalismo nei rapporti fra dirigenti e soci, fra vertice e base», per cui «gli indirizzi di azione, le volontà, le elaborazioni rivendicative maturano al vertice e quindi si opera per acquisire ad esse il consenso, più o meno consapevole, della base» [74]
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Di qui la necessità di attuare «un diverso sistema di equilibrio nella gerarchia dei centri di decisione e di potere all’interno del sindacato» [75]
a tutti i livelli, che reimposti su basi nuove il rapporto fra le diverse strutture e il ruolo di ciascuna di esse nella gestione degli interessi collettivi rappresentati dal sindacato. Nel caso della sezione sindacale ciò significa mettere in dubbio la qualificazione dell’istituto come mero «strumento di politica contrattuale» e «sede funzionale di decentramento» di poteri e attività procedenti originariamente dalle strutture superiori, per sottolineare il valore di organismo che si radica e giustifica all’interno dell’azienda in quanto organizzazione democratica dei lavoratori iscritti al sindacato. Se questi {p. 69}lavoratori iscritti sono «i soggetti primi delle scelte che si propongono da una parte al sindacato, dall’altra a tutti i lavoratori dell’azienda» [76]
, la SAS non può essere ridotta a «un punto di collegamento dei lavoratori al sindacato» ma deve assumere «un valore assoluto», esprimendosi come «la fonte dell’autogoverno dei lavoratori, l’incarnazione più significativa dell’alternativa sindacale» propria della CISL [77]
.
Da questa rimeditazione sul significato di principio dell’istituto, improntata a una lucidità critica non più eguagliata a livello confederale e contrastante con il trionfalismo di solito ricorrente nella stampa ufficiale, si derivano diverse conseguenze sul piano strutturale. Ad essa si ispirano le modifiche statutarie e regolamentari, proposte già alla fine degli anni ’50 e subito adottate dalla FIM, che attribuiscono alla SAS (e ove mancante alla lega) il carattere «di prima istanza congressuale del sindacato di categoria» [78]
, riconoscendola così come la {p. 70}sede naturale ove si formano i mandati di rappresentanza per la costituzione del massimo organo decisionale del sindacato provinciale e quindi quale nucleo originario della complessa struttura rappresentativa, su cui si fonda il potere sindacale ai vari livelli. Il legame istituzionale stabilito da queste norme risponde però nel contempo a un’altrettanto evidente esigenza di integrare strettamente la SAS al sindacato di categoria, corrispondente alla preoccupazione già rilevata di evitare sbandamenti aziendalistici e rotture dell’unità di indirizzo politico di tutta l’organizzazione garantita da quest’ultimo.
Nella medesima prospettiva di ampliare la partecipazione delle strutture aziendali alle decisioni sindacali si inseriscono le proposte, pure avanzate in quegli anni, ma realizzate solo più tardi, di costituire consigli provinciali di SAS che «mediante periodiche convocazioni decise dal direttivo del sindacato provinciale «lo assistano» nello svolgimento della sua attività; l’indirizzo dato agli organi esecutivi e direttivi dello stesso sindacato di valersi obbligatoriamente «della collaborazione e della consulenza della SAS… tutte le volte che l’esame e la soluzione dei problemi aziendali lo richiedano»; e, più in generale, le direttive di valorizzare e regolarizzare il momento elettivo degli organi delle SAS, in piena autonomia «al di fuori di ogni disposizione, investitura, o interferenza» [79]
.
Così pure la politica di potenziamento dell’iniziativa delle SAS indica ancora la necessità di superare progressivamente la situazione esistente in cui esse sono del tutto
{p. 71}prive di entrate patrimoniali regolari e devono provvedere in modo episodico alle proprie necessità, dipendendo anche per questo dall’intervento del sindacato territoriale. In base al riconoscimento che ogni autonomia di iniziativa è vanificata in partenza se manca «l’autonoma disponibilità dei mezzi e delle risorse che all’associazione occorrono per vivere e per funzionare» si propone di garantire alle sezioni «un’autonoma gestione amministrativo-finanziaria a copertura delle ordinarie esigenze connesse al loro funzionamento» facendole partecipare al riparto delle entrate sindacali non in via straordinaria e aggiuntiva ma in modo ordinario [80]
.
Note
[68] Questi elementi di novità apportati dall’inizio degli anni ’60 sono largamente avvertiti dai più attenti osservatori (oltre che dalla stampa sindacale del tempo): cfr., fra gli scritti più generali in materia, ad esempio, Giugni, L’evoluzione della contrattazione collettiva nelle industrie siderurgica e metalmeccanica (1953-1963), Milano, 1964, pp. 25 sgg., 33 sgg.; e, da ultimo, Romagnoli, Appunti per una storia del movimento sindacale: gli anni 1960-1970, in appendice a Horowitz, Storia del movimento sindacale in Italia, cit., pp. 560 sgg., nonché la ricerca della Beccalli, Scioperi e organizzazione sindacale, cit., che sottolinea l’emersione, anche nella CGIL, in quegli anni, di un nuovo tipo di sindacato, sempre più caratterizzato come «soggetto di politica rivendicativa, invece che come nuovo centro di riferimento associativo e politico».
[69] Vedi, nella CISL, Linee di politica organizzativa, cit., pp. 42 sgg.; e, nella CGIL, le frequenti denunce sulla sproporzione esistente fra la ricchezza dei suggerimenti emersi da queste lotte e la scarsa capacità sindacale di coglierli e fissarli in termini organizzativi (così, per esempio, i rilievi di Lama e Boni, Dopo la grande lotta nel settore dell’elettromeccanica, in «Rassegna sindacale», 1961, n. 37, pp. 1783 sgg., e la introduzione di Scheda al convegno di Livorno nel 1961, ibidem, n. 43-44, pp. 2169 sgg. Negli eventi in questione si sono visti «segni inequivocabili di malcontento» della base operaia «per il rapporto che il sindacato aveva instaurato con essa e per il modo in cui il sindacato gestiva le sue rivendicazioni. Ma si era trattato di brevi scoppi d’ira, a cui erano seguiti silenzio e — sembrava — torpore; un silenzio e un torpore in cui i sindacati — ad eccezione della FIOM e della FIM — videro non già frustrazione e risentimento impotente, ma fuga dall’impegno e conferma della delega»: così Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in «Politica del diritto», 1970, p. 65.
[70] Certo il modo con cui la contrattazione di fabbrica veniva affermandosi appariva completamente diverso, soprattutto rispetto alle ipotesi prospettate dalla CISL nei primi anni ’50: «si affermava cioè come espressione di un forte risveglio di combattività operaia e si realizzava attraverso duri conflitti di classe, non certo quindi come espressione di un superiore ordine di pace sociale quale era stata prevista dai fondatori della CISL» (Sciavi, Le due CISL, in «Il Manifesto», 1969, n. 5-6, p. 24).
[71] Con ciò non si vuole evidentemente instaurare un nesso causale esclusivo fra gli insuccessi registrati dalle maggiori confederazioni alla fine degli anni ’50 e le politiche organizzative da queste seguite. Su tali insuccessi pesano fattori complessi, molti dei quali esterni, come la pesante situazione del mercato del lavoro, con la conseguente maggiore facilità di discriminazioni imprenditoriali, e il venir meno o il trasformarsi degli scopi originari del movimento sindacale, che ne avevano determinato l’accentuata caratterizzazione politica e di massa nell’immediato dopoguerra. Un’indicazione iniziale di questi fattori è avanzata dalla Beccalli, nella ricerca citata alla nota 64. L’autrice, pur non essendo in grado di valutarne adeguatamente il peso relativo, avanza l’ipotesi che esso sia stato dominante per la CGIL e che sia di converso sopravvalutata dagli osservatori l’influenza, pur esistente, delle politiche sindacali seguite da questa confederazione e del ritardo con cui esse si sarebbero adeguate alla nuova situazione emergente. Una simile ipotesi sembra in parte avvalorata da quanto si è sostenuto nel testo, cioè che la differenza fra le politiche delle due centrali sindacali circa la presenza organizzata in azienda è meno consistente di quanto comunemente si pensi. Nello stesso senso depone il fatto che, in ogni caso, l’articolazione organizzativa e contrattuale propugnata dalla CISL nel 1953-1954 è rimasta per tutti gli anni ’50 a livello poco più di proposta (rendendosi così scarsamente avvertibile nella concreta azione sindacale come fattore discriminante nei riguardi della CGIL).
[72] Linee di politica organizzativa della CISL, cit., p. 69.
[73] «L’insufficiente ritmo di espansione delle adesioni, la difficoltà di adeguare quantitativamente e qualitativamente la nostra classe dirigente ad ogni livello, l’aggravarsi del problema finanziario, la lentezza estrema con cui la struttura si verticalizza, la innaturale contrapposizione fra impegno organizzativo e impegno contrattuale per cui se si porta avanti l’uno si lascia indietro l’altro, l’insufficiente livello di vita democratica delle strutture e degli organi, alla base e al vertice, sono manifestazioni sintomatiche di una situazione di debolezza che ha il suo centro nevralgico in una. precaria vita associativa di base» (ibidem, p. 69). Una simile diagnosi radicale è la conseguenza coerente dell’intera della relazione, che rappresenta una delle più rigorose teorizzazioni dell’ideologia sindacale associativa della CISL, ove il fatto associativo è visto come «l’unico modo di organizzare l’autotutela» (p. 54), «l’unica alternativa del lavoratore alla disintegrazione della sua persona, l’unica possibilità di restituirsi un ruolo di responsabilità, di diventare un soggetto anziché un oggetto di decisioni, l’unica roccaforte di difesa dal risucchio integrazionistico dell’azienda moderna» (p. 70), mentre d’altra parte il sindacato «mostra in concreto di non avere niente altro da offrire che questo» (p. 54).
[74] Linee di politica organizzativa della CISL, cit., p. 71; e allora, si continuava a rilevare, «se la scelta è fra paternalismo padronale e quello sindacale, non dobbiamo meravigliarci né scandalizzarci se il lavoratore opta per il primo, vale a dire sceglie il rapporto paternalistico immediato piuttosto che quello mediato» (p. 70).
[75] Ibidem, p., 67 e pp. 73 sgg.
[76] Nello sviluppo del sindacato l’avvenire dei lavoratori, relazione alla III Assemblea organizzativa, cit., p. 44.
[77] Linee di politiche organizzativa della CISL, cit., p. 71; secondo cui solo così la sezione può realizzare la funzione attribuitale di rappresentare «la chiave di volta di una autentica rivoluzione nella concezione delle fonti del potere sindacale» (p. 27), esprimendo un valido collegamento, non solo discendente del sindacato ai lavoratori, ma «allo stesso modo dei lavoratori al sindacato» (relazione alla III Assemblea organizzativa, cit., p. 47).
[78] Questa posizione è già chiara alla III Assemblea organizzativa del 1958, cit., pp. 52 e 122 ed è ripresa, sia pure cautamente, nel regolamento delle assemblee precongressuali applicato al III Congresso del 1959, il quale, dopo aver affidato (art. 1) ai sindacati locali di categoria l’elezione dei delegati ai precongressi provinciali (di federazione e di USP), suggerisce «come indicazioni di massima, e orientamento generale, il maggior rispetto possibile della esistenza delle SAS e delle leghe, le quali verranno chiamate quindi a svolgere esse stesse — nei casi che ciò sia indicato dagli statuti o consigliato dalla situazione di fatto — le assemblee precongressuali, o quanto meno a svolgere assemblee preparatorie, in tutti gli altri casi» (in Atti, cit., Appendice n. 1, p. 343). Con più decisione, il regolamento applicato al congresso confederale del 1962 riserva l’elezione dei delegati al precongresso provinciale di categoria alle assemblee precongressuali da tenersi in tutte le SAS o Leghe esistenti di fatto, comunque costituite (artt. 2-3), comprendendo automaticamente fra i delegati i membri eventualmente eletti negli organi direttivi degli stessi istituti (art. 3). Per la FIM, vedi le conclusioni della I Assemblea organizzativa del 1964 (pp. 34 e 73 sgg.) e quindi l’art. 53 dello statuto federale, allora proposto e approvato al congresso del 1965.
[79] Queste direttive sono sottoposte all’approvazione delle strutture verticali del sindacato della III Assemblea organizzativa del 1958, cit., pp. 52 e 120 (da cui le prime due citazioni) e dalla relazione al consiglio generale del 1963, cit., p. 72 (da cui la terza citazione). Esse si ritrovano pressoché testuale nella relazione sulle Strutture del sindacato alla I Assemblea organizzativa della FIM, cit., pp. 32 sgg. e nelle relative conclusioni (pp. 74 sgg.). Nella medesima prospettiva di allargare la partecipazione di base alle decisioni del sindacato provinciale vanno comprese le proposte, pur avanzate in quest’ultima assemblea (pp. 34, 74) di costituire altri organismi a livello di zona (le leghe zonali), rappresentative di tutte le SAS, con funzioni di coordinamento delle stesse, di stimolo e di assistenza alla loro attività, di iniziativa e di promozione organizzativa, nonché di compiti consultivi agli organi direttivi provinciali.
[80] Cfr., soprattutto, la relazione al consiglio generale del 1963, cit., pp. 74 sgg., che individua proprio in questa materia e nel modo in cui è stata tradizionalmente impostata «il terreno sul quale in maniera specifica alligna e imperversa il fenomeno del paternalismo sindacale». Ma l’indicazione proposta dovrà attendere a lungo per essere raccolta dalle organizzazioni interessate (vedi oltre). Del resto in quel tempo la questione finanziaria era oggetto di aspre dispute a livello ben più alto, cioè fra le confederazioni e alcune federazioni, segnatamente quella dei metalmeccanici, che rivendicavano più ampi margini di autonomia amministrativa e più favorevoli criteri di riparto dei contributi fra strutture verticali e orizzontali. Vedi, al riguardo, le tesi della FIM alla I Assemblea organizzativa, cit., pp. 58 sgg.