Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c2
Nella seconda metà degli anni ’50,
la modifica dell’atteggiamento della CGIL in materia di politica contrattuale comporta
una maggiore attenzione alla presenza del sindacato sui luoghi di lavoro e alla
necessità di rilanciarla in forme organizzative nuove e più consistenti, appunto le
sezioni sindacali, la cui costituzione viene inclusa fra gli obiettivi principali della confederazione
[56]
. Nonostante ciò il mutamento di indirizzo confederale sembra ancora
incentrato prevalentemente sui problemi posti dalla articolazione della attività
contrattuale e dai contenuti di questa, piuttosto che sulla sua nuova strumentazione
organizzativa in azienda. Una simile valutazione si desume già dalle indicazioni del
tutto sommarie offerte sulla struttura e sui rapporti istituzionali con le altre istanze
del sindacato, che restano a lungo indefiniti
[57]
. Ma, soprattutto, essa risulta dall’evidente disinteresse ed esitazione
della CGIL, anche quando le indicazioni suddette si vanno chiarendo,
¶{p. 61}a prendere posizione precisa sulla posizione funzionale
dell’istituto, specie nei confronti della CI. Pur affermando anch’essa progressivamente
l’opportunità di circoscrivere i compiti di questa nell’ambito previsto dal suo accordo
istitutivo e, in particolare, di ridimensionarne l’intervento in materia contrattuale
[58]
, si continua a valorizzarne il rilievo del tutto prioritario nell’azione di
tutela collettiva in azienda e a riconoscerla come l’istituto cardine su cui puntare
anche per aumentare il potere contrattuale dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Tutt’al
più si cerca di attenuare il valore politico di tali affermazioni, giustificandole in
base a motivi prevalentemente contingenti, quali la persistente situazione di pluralismo
sindacale e la debolezza del sindacato di fronte alla controparte imprenditoriale, che
consigliano di non abbandonare, pur nella novità della politica contrattuale, l’uso di
strumenti provati dalla tradizione
[59]
. In corrispondenza con simili tesi, il problema della funzione della
sezione, di cui pure alcuni osservatori colgono l’importanza cruciale
[60]
, viene risolto in modo alquanto frettoloso, attribuendole genericamente
competenze su tutta l’attività sindacale in azienda, compresa l’elaborazione delle
¶{p. 62}politiche contrattuali, ma evitando in modo inequivocabile di
riconoscerle poteri decisori in materia
[61]
. Il che riduce drasticamente la novità effettiva della scelta organizzativa
operata dalla CGIL a favore dell’istituto, il quale, pur se accolto con nuove
motivazioni, resta una variante, appena più strutturata, dei vecchi comitati sindacali
di fabbrica
[62]
.
Ma comparando questi brevi cenni con
quanto detto più diffusamente sulle posizioni della CISL, devono essere ridimensionate
anche le differenze esistenti sotto questo profilo fra le tesi delle due confederazioni
nel periodo in esame, che di solito sono invece enfatizzate. Pur partendo da presupposti
generali diversi, e scontata l’iniziativa preminente della CISL nell’avviare
l’argomento, le soluzioni proposte convergono ben presto proprio sul punto cruciale
della funzione dell’istituto, di cui escludono ogni possibilità di decisione autonoma
nelle materie sindacalmente più rilevanti. In entrambi i casi la nuova struttura di base
nasce come mero fatto di decentramento organizzativo, privo di identità associativa, in
una prospettiva rigorosamente subordinata alle esigenze e al peso della tradizione
[63]
.
5. Prospettive di una nuova politica sindacale all’inizio degli anni ’60.
Il modello normativo della sezione
aziendale così delineato rimane acquisito, senza sostanziali varianti, nella teoria e,
si può ben dire, nella prassi delle maggiori ¶{p. 63}organizzazioni
sindacali italiane per tutti gli anni ’50. È solo alla fine del decennio che esso
comincia a palesare qualche segno di evoluzione in seguito a un progressivo ripensamento
teorico dei suoi presupposti istitutivi (ancora una volta avviato prevalentemente a
livello confederale). In ambedue le confederazioni tale rimeditazione dell’istituto
coincide e trae stimolo da una più ampia revisione dei problemi strutturali del
sindacato e da un consuntivo dei risultati ottenuti nell’esperienza fino allora
trascorsa.
Per entrambe il bilancio generale
degli anni ’50 appariva largamente deludente, sia sotto il profilo della crescita e del
rafforzamento dell’organizzazione, sia quanto all’attuazione della politica contrattuale
articolata.
L’espansione organizzativa era
palesemente in crisi, come attestava in modo esemplare l’andamento dei tesseramenti.
Stazionari nel periodo 51-55, essi registravano nella seconda metà del decennio una fase
di costante declino, tanto più preoccupante in quanto particolarmente accentuato, specie
per la CISL, nel settore industriale (sia pure, per questa organizzazione, con la
importante accezione dei metalmeccanici)
[64]
. La contrattazione aziendale, ¶{p. 64}a distanza di diversi
anni dalla sua teorizzazione, non era ancora riuscita a uscire dalla fase di iniziale
sperimentazione e, quando si attuava, era egemonizzata in larga misura dalle CI, contro
le esplicite direttive della CISL e ormai, sempre più di frequente, anche della CGIL
[65]
. Lo stesso perdurante successo ottenuto in quegli anni dalla CISL nelle
elezioni delle CI veniva interpretato da questa confederazione, alla stregua della nota
valutazione critica nei riguardi dell’istituto, come un fenomeno ambivalente, se non
negativo: in sostanza «il rovescio della medaglia è uno dei parametri più significativi»
di crisi del potere sindacale dei lavoratori
[66]
. Ciò sembrava trovare conferma nella constatazione che proprio nell’azienda
la politica di consolidamento organizzativo dei due maggiori sindacati denunciava
l’insuccesso più evidente. La sezione aziendale, da cui dipendeva tale consolidamento,
rivelava infatti, al di là delle cifre periodicamente fornite dagli organi ufficiali,
una diffusione e una vitalità appena embrionali, così da ¶{p. 65}essere
presentata ancora al torno degli anni ’50 più come «oggetto di dibattito, di
chiarificazione e di sensibilizzazione», che come una realtà concretamente operante
[67]
. Nella situazione tipica, l’istituto era in realtà inesistente o inattivo, e
l’azione sindacale in azienda si poggiava, oltre che sulle CI, su singoli o su gruppi
informali di attivisti, personalmente connessi con le organizzazioni territoriali.
A questa situazione di crisi delle
politiche e delle strutture confederali faceva riscontro un avvio degli anni ’60
caratterizzato da elementi nuovi nella generale situazione del paese tali da far
presagire una possibile svolta radicale nel nostro sistema di relazioni industriali, che
ponesse quanto meno le premesse per una sua «modernizzazione»
[68]
. Alle prime tensioni sul mercato del lavoro, che, specie in alcune regioni
italiane, consentivano un rafforzamento della posizione e delle spinte rivendicative
operaie, mentre frenavano la perdita di iscritti dei sindacati, si aggiungeva
¶{p. 66}un più propizio clima politico, che contribuiva a rendere il
sindacato, compresa in particolare la CGIL, progressivamente accettabile come legittimo
agente contrattuale e di politica economica. All’interno delle fabbriche si avvertivano
i primi palesi sintomi di risveglio dell’attività contrattuale e di lotta, in larga
parte spontaneo e non previsto dalle organizzazioni sindacali secondo le loro stesse ammissioni
[69]
. Tale risveglio doveva, com’è noto, segnare la caduta definitiva del
tradizionale sistema contrattuale italiano e il varo della contrattazione articolata,
quando le aspettative al riguardo sembravano ormai quasi frustrate
[70]
.
Note
[56] Tale riconoscimento, anticipato già al convegno confederale di organizzazione del 1954, è sancito ufficialmente e con maggior chiarezza al IV Congresso nazionale del 1956 (vedi, in particolare, la relazione di Possi e la risoluzione finale sui problemi organizzativi, in I congressi della CGIL, V, Roma, s.d., rispettivamente pp. 347 sgg. e 481).
[57] Nei documenti e nei commenti ufficiali del tempo, non si va di solito al di là di formule generiche, che qualificano l’istituto come «istanza di base del sindacato» in azienda, come sua «forma organizzativa più decentrata», di cui dovrebbero far parte tutti gli iscritti al sindacato (anche se questa menzione degli iscritti è appena accennata), ecc.: vedi, in generale, i testi citati nelle note precedenti e seguenti.
[58] Vedi, ad esempio, già Boni, Sul riconoscimento giuridico delle Commissioni interne, in «Rassegna sindacale», 1956, n. 9, pp. 285 sgg., precisando che attraverso le CI il sindacato realizza «soltanto gli aspetti aziendali della propria azione e le specifiche questioni di fabbrica» e che attraverso le sezioni deve invece svolgere «i compiti più generali di orientamento e di azione» che gli sono propri; ancor più chiaramente, le proposte della Commissione nazionale di organizzazione al comitato direttivo del 20 novembre 1956, ibidem, n. 20-21, p. 576, ove i compiti della CI sono identificati con quelli previsti dal suo accordo istitutivo; l’articolo di Trespidi, Le sezioni sindacali, strumento primo di una politica aziendale, ibidem, 1957, n. 2-3, pp. 61 sgg. Ma la portata di queste affermazioni va limitata alla stregua di quanto rilevato di seguito.
[59] Cfr., con queste motivazioni, e in diretta polemica con la CISL, soprattutto, Boni, La CGIL e la CISL di fronte all’azione sindacale, in «Rassegna sindacale», 1957, n. 8-9, pp. 220 sgg.; ma anche, sulle stesse posizioni di fondo, le proposte della Commissione nazionale di organizzazione citate alla nota precedente; nonché gli articoli di Giardini, citato a nota 55; e di Tatò, I regolamenti interni d’azienda, in «Rassegna sindacale», 1956, n. 7, pp. 219 sgg.
[60] Cfr., in particolare, Trespidi, Le sezioni sindacali, strumento primo di una politica aziendale, cit.
[61] La conclusione risulta da tutti i testi menzionati nelle note precedenti.
[62] Vedi, in questo senso, i rilievi critici di Trespidi, Le sezioni sindacali, cit.; e ora, anche se con minor decisione, la ricostruzione storica di Cella, Manghi, Pasini, La concezione sindacale della CGIL, cit., pp. 110 sgg.
[63] Non diversa nei risultati ultimi appare l’impostazione dell’istituto fatta propria dalla UIL, come, ad esempio, risulta dalle posizioni espresse a più riprese negli anni ’50 dal suo segretario generale (riportate in Il sindacato negli anni del miracolo, Roma, s.d. (ma 1960), pp. 120, 169, 262, 280, 350 sgg.) e dagli stessi compiti attribuiti ai nuclei aziendali dallo statuto confederale (artt. 4, 5), che sono ancora una volta limitati al proselitismo, alla raccolta dei contributi e al collegamento fra realtà aziendale e sindacato.
[64] Per la situazione all’interno della CISL, vedi la particolareggiata analisi della relazione al consiglio generale del 1963, Linee di politica organizzativa della CISL, cit., pp. 20 sgg.; nonché, per i metalmeccanici in specie, i dati raccolti e commentati nella ricerca della Beccalli, Scioperi e organizzazione sindacale, Milano, 1950-1970 (tav. 10 e n. 2), presentata al seminario organizzato dalla Facoltà di Economia e commercio di Ancona, su I sindacati nella economia e nella società italiana (28-30 ottobre 1970). A questa diminuzione nel settore industriale si accompagna per la CISL una analoga, anche se meno accentuata, perdita di iscritti nel settore agricolo e commerciale, mentre si riscontravano una crescita di adesioni nel pubblico impiego e una sostanziale stabilità nei servizi. La gravità della situazione è accresciuta dal fatto che la flessione del tesseramento è maggiore proprio nella zona del triangolo industriale, ove, nonostante gli intensi sforzi organizzativi profusi (cd. piano del triangolo), la CISL sembra scontare in modo particolarmente accentuato «la crisi di potere del sindacato nelle aziende, conseguente al ritardo nella concretizzazione della politica contrattuale articolata» (relazione citata, p. 25). All’interno della CGIL il bilancio dello stesso periodo non si presenta meno deludente, e palesa un marcato processo di logoramento della forza organizzativa confederale ormai in atto da diversi anni, che è pure oggetto di severe autocritiche pubbliche (basti ricordare l’intervento di Scheda al congresso del 1960, in I congressi della CGIL, VI, cit., pp. 338 sgg.). Neppure qui le categorie dell’industria sfuggono alla crisi (anche se per la CGIL non si verifica quella massiccia diminuzione riscontrata dalla CISL): basti pensare che, secondo i dati raccolti dalla Beccali, gli iscritti alla FIOM scendono fra il 1955 e il 1959, da 404.769 a 185.183.
[65] Questa, tendenza è documentata con sufficiente chiarezza dai primi studi, apparsi in quegli anni specie a cura della CISL, sullo sviluppo della contrattazione a livello d’azienda fino al 1960 (anno che costituisce anche sotto questo profilo il punto di inizio di una evoluzione decisiva): cfr., in particolare, i noti scritti di Ammassari-Scajola, Il 1960: anno di svolta della contrattazione collettiva, in «Il nuovo osservatore», 1961, n. 18, pp. 9 sgg., nonché La contrattazione integrativa aziendale nel 1961, ibidem, 1962, pp. 149 sgg. da cui risulta come la contrattazione con le sole CI, maggioritaria fino al 1956, sia ancora del 44,5% nel 1957 e del 31,7% nel 1960; e già i dati esposti nella relazione al III Congresso nazionale, Il sindacato democratico per lo sviluppo della società italiana ed europea, Roma, 1959, pp. 295 sgg. (pubblicata anche in «Politica aziendale», 1959, specialmente pp. 296 sgg.). Ma si tratta di rilevazioni che tengono conto della qualità formale di agente contrattuale e non escludono una ben più consistente influenza sostanziale dell’istituto anche nei casi in cui il contratto sia firmato congiuntamente dal sindacato provinciale. La stessa quantità della contrattazione aziendale si rivela alquanto modesta fino al termine degli anni ’50, e mostra un netto incremento solo a partire dal 1960.
[66] Linee di politica organizzativa della CISL, 1963, cit., p. 31.
[67] Vedi Linee di politica organizzativa della CISL, cit., p. 27, in sede di bilancio organizzativo relativo al periodo indicato. Secondo la stessa relazione il numero di SAS formalmente costituite nel 1961, nel settore industriale, ammonterebbe a 613, in altrettante aziende occupanti 188.030 lavoratori (su 2.981 aziende superiori a 100 dipendenti iscritte alla Confindustria). Ma si tratta di cifre scarsamente significative, anche ad ammetterne la esattezza, in quanto riferite a tutte le SAS che hanno eletto i loro direttivi in occasione del congresso confederale, cioè a un fatto poco più che formale, e comunque non sufficiente a indicare un’effettiva presenza organizzata del sindacato in azienda, come ammette la stessa relazione (in ciò ben più avvertita e critica rispetto alle indicazioni della relazione della segreteria al III Congresso confederale, cit., pp. 98 sgg., che riporta dati sulle SAS difficilmente credibili). Sul valore di un simile fatto vedi anche ampiamente nel cap. III al n. 5.
[68] Questi elementi di novità apportati dall’inizio degli anni ’60 sono largamente avvertiti dai più attenti osservatori (oltre che dalla stampa sindacale del tempo): cfr., fra gli scritti più generali in materia, ad esempio, Giugni, L’evoluzione della contrattazione collettiva nelle industrie siderurgica e metalmeccanica (1953-1963), Milano, 1964, pp. 25 sgg., 33 sgg.; e, da ultimo, Romagnoli, Appunti per una storia del movimento sindacale: gli anni 1960-1970, in appendice a Horowitz, Storia del movimento sindacale in Italia, cit., pp. 560 sgg., nonché la ricerca della Beccalli, Scioperi e organizzazione sindacale, cit., che sottolinea l’emersione, anche nella CGIL, in quegli anni, di un nuovo tipo di sindacato, sempre più caratterizzato come «soggetto di politica rivendicativa, invece che come nuovo centro di riferimento associativo e politico».
[69] Vedi, nella CISL, Linee di politica organizzativa, cit., pp. 42 sgg.; e, nella CGIL, le frequenti denunce sulla sproporzione esistente fra la ricchezza dei suggerimenti emersi da queste lotte e la scarsa capacità sindacale di coglierli e fissarli in termini organizzativi (così, per esempio, i rilievi di Lama e Boni, Dopo la grande lotta nel settore dell’elettromeccanica, in «Rassegna sindacale», 1961, n. 37, pp. 1783 sgg., e la introduzione di Scheda al convegno di Livorno nel 1961, ibidem, n. 43-44, pp. 2169 sgg. Negli eventi in questione si sono visti «segni inequivocabili di malcontento» della base operaia «per il rapporto che il sindacato aveva instaurato con essa e per il modo in cui il sindacato gestiva le sue rivendicazioni. Ma si era trattato di brevi scoppi d’ira, a cui erano seguiti silenzio e — sembrava — torpore; un silenzio e un torpore in cui i sindacati — ad eccezione della FIOM e della FIM — videro non già frustrazione e risentimento impotente, ma fuga dall’impegno e conferma della delega»: così Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in «Politica del diritto», 1970, p. 65.
[70] Certo il modo con cui la contrattazione di fabbrica veniva affermandosi appariva completamente diverso, soprattutto rispetto alle ipotesi prospettate dalla CISL nei primi anni ’50: «si affermava cioè come espressione di un forte risveglio di combattività operaia e si realizzava attraverso duri conflitti di classe, non certo quindi come espressione di un superiore ordine di pace sociale quale era stata prevista dai fondatori della CISL» (Sciavi, Le due CISL, in «Il Manifesto», 1969, n. 5-6, p. 24).