Note
  1. Vedi le indicazioni ai nn. 2 e 3, e più ampiamente nel mio scritto L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 190 sg., anche per più adeguati ragguagli sul significato giuridico del modello dell’istituto così elaborato.
  2. Le ricerche sulla tipologia, sulla conformazione effettiva di queste figure e sulla loro attività sono ancora agli inizi, data la novità del fenomeno, anche se si preannunciano numerosi. Basti ricordare per ora, fra i primi studi sui gruppi extra-sindacali, il contributo, peraltro di carattere prevalentemente valutativo, di Baglioni, Nuovi movimenti e azione sindacale, in «Dibattito sindacale», 1969, n. 5, pp. 53 sgg.; la relazione di Bellasi e Pellicciari, I «comitati unitari di base»: autogestione delle lotte e sociologia della partecipazione, ora pubblicata in «Studi di sociologia», 1970, n. 1-2, pp. 197 sgg. Fra la ricca pubblicistica politica, di varia natura, cfr., ad esempio, V. Foa, Note sui gruppi estremisti e le lotte sindacali, in «Problemi del socialismo», 1969, p. 658. Antoniazzi, Sindacati e contestazione, ivi, 1969, pp. 671 sgg.
  3. «Lo sviluppo della democrazia sindacale nei luoghi di lavoro passa in primo luogo per la costruzione e il rafforzamento della sezione sindacale aziendale, intesa come collettivo degli iscritti al sindacato, dotato di reali poteri di decisione, di una progressiva autonomia finanziaria e di un effettivo potere di contrattazione su tutti gli aspetti del rapporto di lavoro che dovranno essere determinati sul piano aziendale»: così le proposte per la discussione alla conferenza sulla democrazia sindacale di Sesto S. Giovanni, cit., I, 1, p. 8 (riportata in appendice). In termini analoghi si esprimono al riguardo gli altri documenti sopra menzionati: cfr., al VI Congresso della FIM (1969), la relazione della segreteria, cit., pp. 22 sgg., e la mozione conclusiva (riportata in appendice); al congresso della CGIL, soprattutto la relazione introduttiva di Novella, (in I congressi della CGIL, VIII, II, Roma, 1970, pp. 35, 64 sgg.), ove si accentua altresì il tema del riconoscimento contrattuale dell’istituto, perché esso si consolidi anche nei riguardi degli imprenditori come «il perno della nostra struttura organizzativa generale» (p. 67); nonché la mozione conclusiva (ibidem, p. 512). Sulla stessa linea vedi anche l’ampio dibattito su Il rapporto fra diritti sindacali e potere contrattuale, cit.; i commenti alla conferenza di Sesto S. Giovanni, di Scheda, Siamo entrati in una fase di rinnovamento, in «Rassegna Sindacale», 1969, n. 152-153, p. 24; Didò, Per contare di più nel sindacato e in fabbrica, in «Rassegna sindacale», 1969, p. 25; Accornero, Partecipazione e potere: la chiave è nella fabbrica, in «Rassegna sindacale», 1969, p. 27; e ancora diversi interventi (Didò, Giunti) alla tavola rotonda su I nuovi strumenti aziendali del rapporto sindacato-lavoratori,nel «Quaderno di rassegna sindacale», 1969, n. 24, cit., pp. 9 sgg.
  4. Così le proposte per la conferenza nazionale sulla democrazia sindacale, cit., I, 6, p. 11; e similmente i testi citati nella nota precedente. In essi si accenna anche all’impegno del sindacato di promuovere l’elezione di delegati di reparto, di cottimo ecc., ma intesi, conformemente alla logica qui discussa, come «emanazione diretta e unitaria degli iscritti ai diversi sindacati» o, in via subordinata «dei lavoratori su proposta dei sindacati» (vedi ancora la conferenza sulla democrazia sindacale, pp. 11 sgg.). Nel dibattito riemergono, sempre più decisamente (non solo all’interno della FIM, ma anche della FIOM), le tesi favorevoli a un totale superamento delle CI.
  5. In queste strutture, nonostante il loro carattere elementare e di occasionalità, si esprime il conflitto potenzialmente sempre presente fra collettività generale dei lavoratori, a livello aziendale o infraaziendale, e organizzazione sindacale. Il conflitto ha evidentemente fondamenti e manifestazioni più complesse del profilo qui accennato. In particolare non si pone solo fra forme organizzative della generalità dei lavoratori e strutture associative sindacali, ma anche fra forme di autogoverno operaio nell’azienda e sindacato, come organizzazione di lavoratori estesa oltre il confine della singola azienda. I termini di riferimento dell’antitesi sono peraltro sovente corrispondenti nei due casi, in quanto le forme organizzative aziendali tendono tipicamente a comprendere tutti i lavoratori (trovando il loro fattore unificante nell’appartenenza di questi alla stessa unità produttiva, piuttosto che nel legame associativo) e quelle extra-aziendali tendono viceversa a fondarsi su una più stretta coesione di gruppo. La sperimentazione di figure organizzative autonome della collettività aziendale (o di reparto) è dunque ben lungi dal chiudere, anzi lascia aperta in termini maggiormente problematici, la questione del loro collegamento con la organizzazione sindacale esterna. Sull’argomento vedi, fin d’ora, utili cenni in Romagnoli, Sviluppi recenti della contrattazione aziendale: i delegati, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», cit., pp. 616 sgg., il quale osserva giustamente come il costituirsi di queste nuove strutture organizzative riproponga con diverso valore storico la nota questione della pluralità degli strumenti di autotutela costituzionalmente garantiti per la difesa degli interessi dei lavoratori.
  6. Tale riconoscimento da parte del sindacato, che si esprime in un avallo ex post delle delibere di queste assemblee, o addirittura subordinando ad esse l’operatività di certe decisioni proprie, specie in materia contrattuale, emerge già nella più significativa contrattazione aziendale del 1968, per diffondersi poi più generalmente nel 1969, fino a quella nazionale (vedi anche più avanti al n. 6). Ma si tratta ancora, nel periodo della presente ricerca, di comportamenti sindacali di fatto, o anche di delibere formali, devianti dalle regole codificate negli statuti e in genere nella stessa legalità propria del gruppo e quindi insufficienti, per le ragioni già dette nel cap. I, a rendere le decisioni assembleari vincolanti come tali per l’ordinamento sindacale. Una simile condizione di extra-legalità andrà peraltro modificandosi rapidamente nei mesi seguenti, con l’evolversi di una sempre più chiara tendenza del sindacato a riconoscere anche formalmente tali forme (e poi i delegati) come proprie strutture di base (vedi in fine). Cenni di questa tendenza si avvertono già nella conferenza nazionale sulla democrazia sindacale di Sesto S. Giovanni, ove, pur attribuendosi priorità politica alla «decisione sovrana degli iscritti al sindacato» (cioè alle sezioni) nella contrattazione, si sottolinea la necessità di una «partecipazione reale e non solo consultiva» (come in passato) di tutti i lavoratori alla formazione degli obiettivi rivendicativi e alla definizione delle forme di lotta, che. si esprima nella proposizione di «scelte vincolanti» per gli organismi dirigenti del sindacato (vedi il documento citato, n. 1, 5, pp. 10-11).
  7. Una valutazione definitiva sulla natura giuridica di queste figure organizzative non è ancora possibile, data la ambiguità sia del loro assetto normativo, sia, ancora più, della loro iniziale esperienza operativa. Quanto all’assemblea, si può dire, fin d’ora, in negativo, che essa si pone come forma organizzativa elementare non solo originariamente esterna al sindacato e distinta dall’assemblea quale organo decisorio dell’associazione, ma altresì difficilmente inquadrabile negli schemi associativi noti al diritto statale. Basti menzionare, come prova di ciò, la rudimentalità o talora la totale assenza di una sua organizzazione interna, il suo carattere generalmente provvisorio e fluttuante (con la normale non identificazione dei partecipanti), lo scarsissimo o inesistente formalismo adottato per il suo funzionamento, la carenza di una disciplina minimamente costante nel tempo e quindi di prevedibilità nella sua azione. Sono tutti aspetti radicalmente diversi dai tratti essenziali della figura legale dell’associazione (riconosciuta o non), per cui si richiedono appunto una organizzazione, sia pure embrionale, unitariamente rilevante verso l’esterno, un vincolo giuridico contrattuale almeno tendenzialmente stabile fra soggetti individuati (entrambi dati che richiedono un certo grado di formalismo), nonché la presenza di un patrimonio autonomo. Per ulteriori indicazioni, cfr. il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 208 sgg.; e, circa i delegati, in fine al presente saggio.
  8. Pur essendo fra di essi sempre compresi soggetti con alta anzianità aziendale e sindacale, queste dichiarazioni presentano molte lacune e in qualche caso contraddizioni così gravi da renderle scarsamente attendibili. Tali imprecisioni non sono d’altra parte di solito correggibili con fonti di informazioni più sicure, ad esempio, di carattere documentale, data la quasi totale mancanza di «memoria scritta» risalente nel tempo, caratteristica di questi organismi (e degli stessi sindacati provinciali). Esse si ricollegano, e in parte si spiegano, col fatto che la percezione della continuità storica rimane, nella generalità dei casi, a livello individuale e non trova riscontro alcuno nella prassi delle strutture organizzative (vedi oltre nel testo). È infine comune che queste strutture presentino nel tempo andamenti irregolari, alternando periodi di relativo sviluppo a momenti di stasi o di quasi paralisi: il che ne rende ancora più precaria la continuità istituzionale. I casi più tipici riguardano, ad esempio, sezioni sindacali (almeno 7), la cui prima costituzione viene fatta risalire agli anni 1960-61, ma che in seguito sono pressoché scomparse come forme organizzate, per riemergere come tali solo negli ultimi tre-quattro anni. Un segno della particolare vitalità storica delle organizzazioni sindacali delle aziende sopra menzionate si può trovare nella stampa periodica nazionale, specie in «Ragguaglio metallurgico», che negli anni ’50 dedica di tanto in tanto cronache specifiche alla loro attività. I nomi che ricorrono più di frequente, per le provincie in esame, sono quelli dei gruppi o sezioni aziendali dell’Innocenti, Borletti, Alfa-Romeo, Face, M. Marelli, Redaelli, F. Tosi, OM (di Brescia).
  9. Paradigmatici al riguardo sono a Milano i casi dell’Alfa Romeo, dell’Innocenti e, in misura minore, della Borletti, caratterizzati allora da una situazione di intensa sindacalizzazione (fino al 95% degli operai all’Innocenti), da ampi poteri delle prime organizzazioni rappresentative (Commissioni interne e consigli di gestione). Particolarmente intensa è la vita organizzata sindacale in questo periodo in 2-3 aziende di Brescia (ad esempio, la Glisenti). Più tarda e difficile è la penetrazione della CISL nelle grandi aziende di Sesto S. Giovanni, caratterizzate fino dall’inizio da una fortissima prevalenza della CGIL (le prime a riscontrare una consistente presenza della FIM sono la Magneti e la Ercole Marelli, ma quest’ultima già alla fine degli anni ’50). Di formazione generalmente più recente (pure verso la fine degli anni ’50) è l’organizzazione della FIM, come la stessa industrializzazione, in provincia di Treviso.
  10. È significativo come fra gli attuali quadri dirigenti delle sezioni sindacali considerate nessuno ricoprisse posizioni di rilievo in periodo antecedente all’inizio degli anni ’60, e come quelli allora preminenti siano largamente emarginati. Una anzianità più consistente si riscontra in alcuni membri di commissione interna; si tratta peraltro di pochi casi (5-6), menzionati come del tutto anormali, e soggetti a continua riduzione negli ultimi anni. Sull’età media degli attivisti di sezione in provincia di Milano, vedi i dati forniti dalla relazione su La politica organizzativa, al VI Congresso provinciale della FIM milanese, n. 7, p. 19: su 383 attivisti considerati, appartenenti a 83 aziende oltre i 400 dipendenti ove la FIM è presente, 129 hanno meno di 25 anni, e 164 sono fra i 25 e i 35 anni. Analoghe proposizioni di ricambio sono del resto verificabili in media a livello di quadri dirigenti provinciali, secondo una tendenza già ricordata, che caratterizza queste strutture come particolarmente giovani o di «memoria corta».
  11. Si tratta per la FIM di un numero non trascurabile di unità produttive, in cui solo di recente essa si è affermata: vedi i dati, già di per sé significativi, delle tabelle 1A e 1B in appendice, sulla progressione degli iscritti a partire dal 1966, che indicano diverse aziende ove la presenza della FIM è appena incipiente. Sulla scarsa anzianità di costituzione delle sezioni sindacali vedi anche i risultati di una ricerca condotta a cura dell’ufficio formazione dell’unione CISL di Milano, alla fine del 1967 (nel Quaderno n. 4, La presenza del sindacato nei luoghi di lavoro). Su 48 sezioni riscontrate esistenti, in un campione di 100 aziende (di 6 settori diversi, e con 31 aziende metalmeccaniche), 34 risultano costituite da meno di 5 anni.
  12. La scarsa importanza o addirittura l’inutilità di una simile disciplina formale per le organizzazioni di fabbrica è sottolineata quasi con ostentazione dagli interessati, che del resto mostrano spesso di ignorarla. Per l’assetto generale dell’istituto (organi, finanziamento, potere disciplinare, rapporti con le strutture territoriali superiori) si ritiene semmai sufficiente la normativa generale dettata da queste ultime. Per lo svolgimento dell’azione sindacale e per il funzionamento concreto degli organi si decide con delibere di volta in volta o si procede in via di fatto, anche contrariamente alle regole generali (vedi, più avanti, gli esempi delle modalità di elezione degli organi e delle iniziative unitarie con le altre organizzazioni).
  13. Fra i sindacati provinciali in esame, la disciplina statutaria più elaborata, sia sul proprio funzionamento interno sia sulle SAS, è quella dettata dalla FIM di Brescia. Le varianti di maggior rilievo, comuni agli statuti di tutti questi sindacati, riguardano la possibilità, già prevista peraltro dalle direttive generali della federazione, per le sezioni sindacali superiori a certe dimensioni di eleggere direttamente uno o più rappresentanti del direttivo provinciale (vedi nota 39), il numero e la rappresentanza delle SAS nei consigli di zona (molto più consistenti, in tutte le province in esame, di quella prevista in generale dall’art. 59 del regolamento di attuazione dello statuto nazionale), l’incompatibilità delle cariche direttive provinciali, zonali ed esecutive aziendali (CI, SAS, CTP) con incarichi rappresentativi politici ed amministrativi e incarichi direttivi di partito a tutti i livelli.
  14. L’art. 51 del regolamento di attuazione dello statuto nazionale prevede un segretario, con la possibilità di eleggere uno o due vicesegretari nel caso di sezioni superiori a 500 iscritti.
  15. La tendenza al rafforzamento del segretario è particolarmente evidente nel regolamento della sezione dell’Alfa Romeo (vedilo riportato in appendice): al direttivo spetta di «promuovere le vertenze aziendali e di seguirne l’andamento» (art. 3), mentre il segretario ha il compito di condurle direttamente, assumendo «su delega del sindacato l’incarico di contrattualista» (art. 6) e usufruendo per tale fine di appositi permessi, retribuiti dall’azienda, ove possibile (il che è avvenuto, vedi nota 37), o altrimenti «sostenuti dal fondo della SAS». Secondo gli altri regolamenti in questione l’esercizio della contrattazione compete originariamente alla SAS, che l’esercita tramite un comitato composto dal Segretario e da una rappresentanza del direttivo da questo designata ad hoc (con la possibilità di intervento di un rappresentante del sindacato provinciale e, in accordo con la SAS, dell’unione sindacale provinciale). Questi nuovi compiti del segretario di SAS dovrebbero, secondo gli intervistati, esplicarsi anzitutto nella trattazione delle questioni sottoposte al comitato tecnico paritetico di accertamento (al riguardo l’esperienza è già avviata: vedi nota 60) e in secondo grado discusse con le competenti associazioni imprenditoriali; per allargarsi poi alla generalità delle vertenze di reparto e al limite al rinnovo di accordi riguardanti l’intera azienda.
  16. Così, ad esempio, l’art. 51 del regolamento d’attuazione dello statuto FIM-CISL (approvato nel 1965 e tuttora non abrogato), che indica nel segretario «il rappresentante del sindacato nell’azienda», cui «spetta la direzione della SAS» appunto «quale diretto delegato del sindacato di categoria, oltre che rappresentante dei lavoratori iscritti»; e analogamente il regolamento della sezione dell’Alfa Romeo. È la stessa concezione ambivalente che si trova nella legge francese del 27 dicembre 1968, per il delegato sindacale d’azienda e per la sezione sindacale.
  17. Le varianti più significative riguardano talora la presenza di un esecutivo intermedio fra il direttivo e la segreteria (così, ad esempio, all’Alfa Romeo, alla Ercole Marelli), il carattere collegiale della segreteria (così nelle aziende di Treviso e Pordenone).
  18. Così gli artt. 51 e 49 del regolamento di attuazione dello statuto nazionale, peraltro largamente disattesi non solo di fatto, come si vedrà, ma dalla stessa disciplina inferiore (il termine di durata in carica del direttivo è ad esempio allungato a 2 anni da regolamento della FIM di Brescia, art. 1; e da quello della sezione dell’Alfa Romeo, art. 10).
  19. Per un approfondimento di questi punti vedi il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 142 sgg. e 195. Particolarmente anomala sotto tale profilo è la norma sopra ricordata (art. 53 dello statuto nazionale) che attribuisce al direttivo provinciale la competenza di definire le modalità di costituzione e i compiti della sezione.
  20. Il rilievo vale in misura uguale, e talora maggiore, per la generalità dei sindacati italiani, che spesso mostrano anzi di ignorare del tutto la sezione sindacale nella normativa delle materie indicate: vedi indicazioni nel mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 147 sgg., 190 sg. (ove anche un’analisi interpretativa di tale disciplina).
  21. Casi di sanzioni disciplinari erogate ai soci negli ultimi anni sono ricordati dagli intervistati (di solito in modo alquanto vago), in non più di 1/3 delle aziende considerate (si tratta sempre di casi di espulsione per dissensi politici o sull’azione sindacale da svolgere). Le uniche questioni in materia di ammissione di soci riguardano poche ipotesi (non più di tre) di soggetti precedentemente espulsi dall’associazione o attivi in altri sindacati. La fattispecie di lavoratori che abbiano in passato ricoperto cariche in altre organizzazioni è prevista esplicitamente dallo statuto nazionale della FIM, all’art. 24, ult. co., che riserva la competenza per l’ammissione al comitato direttivo provinciale.
  22. Tale situazione non viene peraltro giudicata problematica, né limitativa dell’autonomia del gruppo, dalla generalità degli intervistati, sia per la scarsa importanza attribuita alla materia, sia per il fatto che essa non sembra aver mai dato origine a divergenze di giudizio o tantomeno a conflitti. Un consistente rilievo politico di questa materia si registra solo in alcune ipotesi in cui il potere disciplinare è usato nei confronti di dirigenti sindacali (qui di solito membri di CI: vedi nota 40).
  23. Come si è più diffusamente sostenuto altrove (L’organizzazione sindacale,. I, cit., pp. 139 sgg.) l’elemento decisivo per qualificare la natura, di un gruppo minore, va ricercato non nel profilo quantitativo di poteri da esso esercitati, ma nel fondamento da cui questi traggono origine. Nel caso di gruppi associativi, tale fondamento deve potersi ricondurre alla loro stessa autonomia contrattuale (e non a una derisione unilaterale dell’associazione superiore). Niente vieta in principio che il raggruppamento minore deleghi per decisione propria alcuni dei suoi poteri a organismi superiori (con il limite indicato alla nota seguente). Che si tratti di delega di poteri propri e non di mancanza di titolarità degli stessi va poi accertato di volta in volta, basandosi su indici di fatto (non sempre, invero, di significato facilmente accertabile).
  24. Nell’ipotesi in questione tale rilievo acquista un peso particolare, data la evidente importanza cruciale del potere disciplinare nella vita di qualsiasi gruppo organizzato. Ma esso può usarsi come indice generale di valutazione in molti altri casi di distribuzione di poteri giuridici fra i vari gradi di organizzazioni complesse. I poteri di intervento o di sostituzione delle associazioni più ampie sui gruppi minori possono essere compatibili con la natura associativa di questi solo nel limite, sopra indicato, che non li privino dei poteri indispensabili al loro funzionamento. Vedi, più avanti (nota 27), un’applicazione dello stesso principio con riguardo alla posizione patrimoniale dei gruppi aziendali.
  25. A una autonomia di gestione dell’istituto sembra alludere esplicitamente lo statuto provinciale della FIM di Brescia, laddove ribadisce che le sue strutture (fra cui la sezione) «hanno ciascuna una sua amministrazione distinta» (art. 22), escludendo inoltre qualsiasi assunzione di responsabilità della federazione nei confronti delle stesse SAS (art. 21). Dal medesimo statuto si prevede anche per la federazione provinciale la possibilità, peraltro inattuata come in genere queste norme, di concordare con «le singole SAS altre quote contributive per la costituzione di fondi di resistenza aziendale» (art. 18).
  26. Per altri dati su questo decentramento finanziario, vedi la relazione organizzativa al VI Congresso della FIM milanese (gennaio 1969), cit., pp. 19 sg.
  27. Che questo sia il requisito minimo sufficiente, ma anche necessario, per affermare l’autonomia associativa di ogni gruppo, si intende facilmente se si considera — con l’opinione prevalente — che il patrimonio è posto dal nostro ordinamento come requisito essenziale delle associazioni non riconosciute, in quanto strumentale alla loro vitalità e alla capacità di perseguire i loro fini. In tale prospettiva non è richiesto che il gruppo abbia un fondo proprio (cioè in proprietà), potendo beneficiare anche di fondi altrui, purché però la disponibilità di tali mezzi, per i suoi caratteri di stabilità, di non revocabilità, e in genere per le modalità concrete del suo esplicarsi, sia garantita al gruppo in modo certo, oltre che quantitativamente sufficiente. Ma la conclusione non sarebbe probabilmente diversa, ove si ritenesse che il fondo comune è richiesto nelle associazioni non riconosciute come garanzia dei creditori sociali. Nel caso in esame, la disponibilità di cui si è fatto cenno non è esclusa in principio, potendosi ritenere che i sindacati provinciali siano comunque vincolati con le norme sopra menzionate a garantire ai gruppi aziendali il minimo indispensabile al loro funzionamento. Ma la totale confusione dei patrimoni e la esclusiva iniziativa delle associazioni territoriali in materia patrimoniale rendono precaria tale affermazione e comunque la privano di concreto valore qualificatorio. Per maggiori ragguagli sul problema e per una verifica del suo significato pratico in relazione a diverse strutture sindacali, in particolare ai sindacati divisi in «settori», vedi il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 105 sgg., 173 sgg.
  28. Per le sezioni numericamente più consistenti e più attive lo stesso impegno finanziario del sindacato provinciale è nettamente maggiore della media. Paradigmatico, ad esempio, a Milano il caso delle sezioni dell’Alfa Romeo, che hanno tradizionalmente goduto di quote o contributi straordinari ben superiori a quelli usuali. Secondo le norme sopra ricordate, a tali sezioni avrebbero dovuto spettare L. 1.140.000 annue che, per un insieme di 2850 iscritti, permettono poco più che spese di ordinaria amministrazione (volantini, giornali ecc.). Ed è proprio nelle medesime sezioni (particolarmente di Milano) che il problema dell’autonomia finanziaria appare percepito con coscienza più viva e si pone realisticamente con maggiore immediatezza (anche se da
    tutti si denuncia genericamente la necessità di maggiore ampiezza di fondi). In alcune di esse (Alfa Romeo, Siemens ecc.) la prospettiva di rendere più consistente la propria autonomia è avvertita dagli intervistati fino al punto di ipotizzare un auto-finanziamento, da parte di una o più sezioni riunite (nella zona), degli operatori sindacali (a pieno tempo o a tempo parziale). Questi potrebbero così essere direttamente ed esclusivamente collegati alle aziende per cui agiscono e non al sindacato provinciale (di cui costituiscono un essenziale centro di potere). Il problema si pone in termini diversi a Treviso, data l’influenza ben più decisiva che le aziende esaminate esercitano sullo stesso sindacato provinciale.
  29. La frequenza usuale oscilla sulle 20-30 persone, secondo una media largamente costante in quasi tutte le aziende. In poche sezioni (non più di 6), fra le più attive e numerose, si riscontrano assemblee con la presenza di 60-100 soci, ma anche qui limitatamente ai rinnovi delle cariche o in occasione di dibattiti contrattuali di particolare rilievo. Vedi, ad esempio, la prassi della Innocenti (1175 iscritti nel 1969), ove è tradizionale lo svolgimento, con partecipazione consistente, di due convegni-assemblee annuali, uno organizzativo e uno sindacale, il primo per eleggere il direttivo della SAS, il secondo prima delle elezioni della Commissione interna o a fini contrattuali.
  30. Le possibilità di raggiungere efficacemente tutti i soci in queste (e in altre) occasioni sono rese precarie, oltre che in molti casi dai fattori ambientali esterni (più avanti indicati), dalla tradizionale mancanza di accesso della SAS all’interno dell’azienda (conseguente al suo non riconoscimento), che rende meno utilizzabili anche mezzi di comunicazione relativamente agevoli, come avvisi murali e simili. Solo in due e tre casi risulta che la sezione si sia potuta riunire sfruttando di fatto i locali della commissione interna, mentre nelle restanti ipotesi le riunioni avvengono nelle sedi sindacali di zona. Le forme normali di contatto con tutti i soci restano quindi, oltre alle comunicazioni personali, valide solo in gruppi ristretti, i volantini, i giornali di fabbrica (ove esistono: vedi nota 61) e gli avvisi distribuiti tramite la posta. Questi ultimi risultano usati a fini di convocazione assembleare, ma dato il loro costo, solo per le assemblee annuali più importanti sopra ricordate. Di qui la difficoltà di superare lo stato di «semiclandestinità» della sezione sindacale nei riguardi dei soci e tanto più degli altri lavoratori. Sotto questo profilo la situazione appare sostanzialmente cambiata a partire dalla fine del 1969 con il riconoscimento, prima in via contrattuale, poi nella legge 20-5-1970, n. 300 (statuto dei lavoratori), di più ampi diritti di diffusione della stampa sindacale in azienda, e soprattutto della possibilità per le organizzazioni sindacali aziendali di riunirsi in locali messi a disposizione dell’azienda (vedi art. 18 parte comune c.c n.l. per l’industria metalmeccanica a partecipazione statale, e poi artt.. 25, 27 della legge n. 300). Su questi punti vedi anche oltre al n. 2 del cap. IV.
  31. Per una simile modifica vedi l’art. 10 della sezione dell’Alfa Romeo e l’art. 1 del regolamento per l’elezione delle SAS della FIM provinciale di Brescia. In oltre la metà dei casi (17 aziende su 31 per cui si hanno dati), il direttivo esistente è indicato dagli intervistati come il primo formalmente eletto, o in assoluto o dopo precedenti tentativi, risalenti però all’inizio degli anni ’60 (e di esso non si è avuto ancora modo di operare il rinnovo). In altre 6 ipotesi il numero dei soci attivi è così ridotto e le attività svolte così semplici e informali che non si è avuta neppure elezione del direttivo. Viene meno il requisito minimo considerato necessario, anche nelle stime ufficiali dei sindacati (invero spesso approssimative), per ritenere la SAS formalmente costituita. Cfr. questi dati con quelli esposti nella ricerca condotta a cura dell’Unione CISL di Milano, cit., secondo cui delle 48 sezioni sindacali risultate esistenti nel 1967, 33 sarebbero state formalmente elette e 15 costituite solo di fatto. Il campione non era peraltro selezionato con il criterio qui seguito di scegliere programmaticamente le sezioni più sviluppate. Secondo i dati riportati nella relazione, La politica organizzativa, al VI Congresso provinciale della FIM milanese (gennaio 1969), su 83 aziende oltre i 400 dipendenti ove la FIM è presente, esisterebbero 44 sezioni funzionanti, di cui 22 formalmente costituite (n. 7, p. 19). Va comunque sottolineato che la differenza sostanziale fra i due gruppi di casi, già di per sé non sempre chiaramente definibile, tende ad annullarsi in presenza di scarsa partecipazione dei soci all’elezione e alle assemblee (vedi oltre).
  32. Un simile sistema risulta usato in 14 delle sezioni considerate.
  33. La competenza delle zone ad organizzare assemblee precongressuali, prevista dai regolamenti provinciali sussidiariamente alle SAS, è largamente esercitata. L’esigenza di sviluppare la zona come fondamentale struttura intermedia fra le sezioni e il sindacato provinciale si è andata sempre più concretando nelle politiche organizzative dei sindacati in esame; specie di quello di Milano, ove la dimensione dell’organizzazione provinciale rende particolarmente necessaria la presenza di sedi più circoscritte di coordinamento fra le SAS e di decentramento di funzioni ora proprie del livello provinciale (vedi, in proposito, la relazione sulla Politica organizzativa, al VI Congresso provinciale, cit., n. 6, pp. 17 sg.). In una simile prospettiva, che appare largamente condivisa da quasi tutti gli intervistati, rientra, ad esempio, il rafforzamento dell’autonomia finanziaria di questa struttura, il riconoscimento alla stessa della possibilità di eleggere rappresentanti nel direttivo provinciale, l’inserimento in questo organo, con voto consultivo, di 10 persone elette da ciascuna zona, con il prevalente fine di farle beneficiare dei permessi contrattualmente stabiliti. Nonostante la ricerca non sia diretta espressamente su questo punto, il funzionamento effettivo delle zone appare alquanto ineguale. Piuttosto scarso a Treviso e a Brescia (pur essendo anche qui avviato), sembra sufficientemente sviluppato in 3 zone milanesi (su 6 considerate), con elezioni regolari biennali del consiglio di zona, riunioni frequenti dello stesso e consistente attività, specie organizzativa, di informazione e di coordinamento. La struttura appare peraltro destinata a progredire più rapidamente in relazione al diffondersi della sindacalizzazione e alle nuove esigenze di coordinamento fra i consigli di fabbrica (vedi oltre il par. 3 del cap. IV).
  34. I massimi assoluti di partecipazione sono raggiunti in un’azienda di Treviso e in alcune (5) di Brescia, ove il numero di votanti ammonta a diverse centinaia.
  35. Così, ad esempio, l’art. 3 del regolamento precongressuale e l’art. 4 e) del regolamento per l’elezione della SAS della FIM di Brescia; ulteriori esemplificazioni e argomenti in proposito nel mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 197 sgg.
  36. In oltre la metà dei casi (20) i gruppi direttivi si riuniscono con frequenza mensile, come previsto nel regolamento nazionale (art. 50), o superiore, giungendo talora ad incontri regolari settimanali. Ancora intense — come sottolineano gli stessi interessati — sono peraltro le riunioni dei membri di commissione interna, in ciò avvantaggiati non solo dai diritti di cui godono (soprattutto permessi e locali), ma dalle occasioni obiettive offerte dalle funzioni di composizione delle controversie e di vera e propria contrattazione (vedi oltre).
  37. Una specifica attribuzione di simili diritti ai componenti le organizzazioni sindacali aziendali in esame, risulta concordata solo in 4 casi (particolarmente interessante, in proposito, l’accordo concluso all’Alfa Romeo il 13 dicembre 1968, ove si concedono permessi retribuiti di 200 ore annue per ciascuna organizzazione sindacale). A parte queste ipotesi (e qualche raro caso in cui ai dirigenti sindacali viene riconosciuta di fatto una certa libertà d’azione), i membri della sezione possono usufruire di permessi e di aspettative solo quando siano anche membri di commissione interna, o di organi direttivi dei sindacati territoriali (in questa prospettiva si è avuta l’introduzione con voto consultivo nel direttivo provinciale di membri eletti dalle varie zone: vedi nota 33). Anche in tale materia una radicale innovazione è stata introdotta dai contratti nazionali della fine del 1969 e poi nello «statuto dei lavoratori», che hanno esteso alle organizzazioni sindacali permessi e tutele fino allora esclusivi della commissione interna (vedi più ampiamente in seguito).
  38. Secondo la disciplina generale (art. 50, regolamento d’attuazione dello statuto nazionale) il comitato direttivo dovrebbe essere composto di 5 membri (fino a 50 iscritti), di 7 (fino a 100), di 11 (fino a 500), di 15 (fino a 1000); e in più, 3 ogni 1000 per le sezioni superiori. A questi componenti, si aggiungono di diritto i membri di CI. Tali dimensioni non sono peraltro rigidamente osservate, anche perché le riunioni del direttivo risultano quasi sempre allargate alla partecipazione di soci e attivisti interessati, salvo i limiti di pubblicità e di frequenza già sopra indicati.
  39. In questo senso vedi anche lo statuto della SAS dell’Alfa Romeo (art. 3) e, più in generale, l’art. 3 del regolamento per le SAS della FIM di Brescia. Di fatto la nomina di tali rappresentanti viene attuata dal direttivo nella grande maggioranza delle aziende considerate.
  40. Un simile intervento, secondo gli intervistati, si sarebbe verificato in un certo numero di casi (almeno 6) proprio per modificare situazioni di gravi deficienze nell’azione della SAS e del suo direttivo, dominato da tempo in via clientelare da un gruppetto di attivisti (quasi sempre membri di CI). L’intervento sarebbe stato realizzato convocando, con particolare preparazione, e con l’intervento determinante dell’operatore, assemblee straordinarie della sezione e facendo leva su una più ampia partecipazione degli iscritti in tale sede per togliere la fiducia al gruppo in questione.
  41. È quanto avvenuto soprattutto in un’azienda di Milano, in connessione con lo sviluppo delle nuove forme organizzative extra sindacali a partire dalla fine del 1968, con cui il gruppo in questione andò progressivamente identificandosi in misura sempre crescente fino a confluire in una di queste.
  42. Tutte queste indicazioni risultano da giudizi degli interessati espressi in modo largamente concorde, tali quindi da avvalorare con sicurezza la tendenza, ma non sufficientemente particolareggiati da permettere una quantificazione attendibile.
  43. Secondo i dati forniti dalla FIOM, nelle dieci aziende considerate di Brescia risultano documentati 35 accordi nel periodo (media 3,5); mentre nell’intera provincia se ne riscontrano 139 per 47 aziende censite (media 2,9). A Milano le cifre sono rispettivamente 71 per le 21 aziende in campione (media 3,4) e, in generale per la provincia, 623 per 267 aziende censite (media 2,3). Anche questi dati provengono dall’archivio della FIOM, ma il numero globale degli accordi in provincia risulta sostanzialmente confermato presso la FIM da ricerche ivi condotte (vedi al riguardo, in generale, la nota La contrattazione articolata nella metalmeccanica milanese: 1967-1969, in «Note e informazioni del CRES», 1970, n. 2, pp. 15 sgg. In ciascuna delle due aziende di Treviso risultano conclusi 3 accordi nel periodo in esame, peraltro di particolare ampiezza di contenuto. Gli altri dati non sono stati reperibili con sufficiente completezza.
  44. Ancora i dati della FIOM di Brescia indicano nelle 10 aziende considerate un numero medio di ore di lavoro perdute nel biennio per scioperi aziendali pari a 76,6 per partecipante e 42,5 per dipendente (nella provincia il numero è di 64,3 per partecipante e di 17,5 per dipendente). Secondo la stessa fonte di informazione FIOM la media nelle 20 aziende milanesi è di 67,7 ore per partecipante e 63,7 per dipendente (contro 59,9 per partecipante e 20,6 per dipendente nell’intera provincia). Vedi a quest’ultimo proposito le indicazioni di B. Beccalli, nella ricerca Scioperi e organizzazione sindacale: Milano 1970-1970, citata, ove anche ragguagli sul modo di computo adottato nella elaborazione di questi dati. Nelle due aziende di Treviso le ore così perdute ammontano, secondo valutazioni della FIM, a oltre 240 per dipendente. Vedi più ampiamente nelle tabelle 4A e 4B in appendice.
  45. Alla fine del periodo considerato, su 33 aziende considerate 24 hanno ormai una esperienza ripetuta di riunioni assembleari in diverse versioni: in locali messi a disposizione dell’azienda, nei luoghi di lavoro, contro la volontà dell’azienda durante scioperi (o in genere azioni di lotta), oppure all’esterno dell’unità produttiva in locali ricercati ad iniziativa degli stessi lavoratori o dei sindacati. Da informazioni sommarie raccolte in seguito, la prassi assembleare si afferma anche nelle altre aziende durante le lotte per il rinnovo del contratto nazionale, dopodiché rimane stabilmente acquisita.
  46. Nel 1968 l’unico accordo che riconosca il diritto di assemblea nelle aziende considerate è quello concluso (in dicembre) per l’Alfa Romeo di Milano e di Arese (le riunioni si tengono in locali messi a disposizione dall’azienda nelle immediate vicinanze). Nel 1969 il numero degli accordi aziendali che prevedono tale diritto, nelle stesse unità produttive, sale a 6 (di cui 3 a Milano, su 10 stipulati in tutte le aziende della provincia).
  47. Il numero di assemblee riscontrate nel periodo in esame è molto variabile, oscillando da un minimo di 2-3 (tenute in occasione delle trattative aziendali menzionate, di solito per la verifica della «piattaforma» rivendicativa e per la ratifica) a massimi oltremodo alti in casi di scioperi o di occupazioni prolungati (anche assemblee giornaliere per periodi di 15-20 giorni: vedi, ad esempio, le vertenze della Candy di Monza e della ATB di Brescia). La frequenza sembra rimanere cospicua, pur mancando dati precisi, anche nel periodo seguente il rinnovo dei contratti nazionali (non sempre peraltro con le stesse percentuali di adesioni). Certo è che il numero di ore di assemblee retribuite previsto negli stessi contratti nazionali risulta ovunque ben presto esaurito (di solito a prescindere dalle assemblee di reparto tenutesi, durante il 1970, nella maggioranza delle aziende considerate per l’elezione dei delegati: vedi oltre n. 2 del cap. IV).
  48. Una presenza minimamente consistente e organizzata di simili gruppi extra sindacali si è riscontrata, dalle informazioni raccolte, solo in 4 delle 34 unità produttive considerate.
  49. Come fattore operante nel medesimo senso si può menzionare, più in generale, quanto già detto sulla peculiare sensibilità di questi sindacati nel recepire gli stimoli provenienti dalle nuove forme di organizzazione autonoma dei lavoratori e nell’avviare problemi da esse sollevati un effettivo dibattito al proprio interno. È significativo, in ogni caso, come le dichiarazioni degli intervistati siano largamente concordi nell’instaurare simili connessioni, oltre che nel rinnovamento della propria organizzazione, e del movimento sindacale, e nel sottolineare la necessità di misurarsi con essi in termini di competitività politica.
  50. Le prime apparizioni, con riconoscimento contrattuale, dei delegati nel periodo considerato si riscontrano alla Candy, sia pure in misura alquanto limitata (l’accordo, del 10 dicembre 1968, ne prevede uno per ognuna delle sei linee di montaggio), e, più ampiamente alla Rex di Pordenone e alla Zoppas di Treviso (in numero rispettivamente di 100 e 76). In questi casi essi sono eletti direttamente dai lavoratori del gruppo (linea) in modo unitario, senza liste, ma, a detta degli intervistati, con pieno appoggio e controllo dei sindacati (specie della FIM e della FIOM). La presenza di tali nuove figure, che pur si serve ancora in larga misura della CI come tramite nei riguardi della direzione, ha una immediata influenza, qui come altrove, nel porre in dubbio l’utilità dell’istituto e nel sospenderne il rinnovo, secondo un orientamento progressivamente diffusosi all’interno della federazione e della stessa FIOM (vedi anche oltre n. 1 del cap. IV). Per altre notizie sui delegati nelle ultime due aziende vedi il resoconto di Valdevit,. nel «Quaderno di Rassegna sindacale», n. 24, dedicato ai delegati di. reparto, cit., pp. 91 sgg. Prima della fine del 1969 i delegati di linea sono istituiti con accordo in termini sostanzialmente simili anche all’Alfa Romeo (in tutta la provincia di Milano si registra nell’anno solo un altro accordo del genere). Nelle rimanenti aziende considerate la istituzione di queste figure è posteriore all’autunno 1969.
  51. L’uso dell’assemblea con simili caratteristiche decisorie, almeno sulle alternative essenziali delle piattaforme rivendicative, risulta attuato in questo periodo da 20 aziende (su 24 che presentano una avviata pratica assembleare). Analogamente comune, anzi di uso più largo e prioritario, è la scelta in assemblea dei tempi e delle forme di lotta sindacale, nonché dei relativi strumenti per la sua concreta attuazione. Anche una simile prassi è destinata ad estendersi e a consolidarsi ulteriormente fino a diventare il modo normale di conduzione dello sciopero durante i rinnovi contrattuali dell’autunno 1969. Va infine ricordato che in alcune grandi aziende esaminate (8) si riscontra in questo periodo un rinnovato uso di varie forme di referendum o di indagini fra i lavoratori sulle stesse materie oggetto di vertenze aziendali (presenti o future). Si tratta di iniziative predisposte e controllate a seconda dei casi, dalla commissione interna, da gruppi occasionali intersindacali (vedi oltre n. 9) o anche talora dai gruppi direttivi delle sezioni, che si pongono finalità di consultazione selettiva dei lavoratori e sono strettamente connesse alla pratica dell’assemblea, in cui i risultati di tali indagini devono essere discussi e vagliati (pena il rimanere generici e facilmente strumentalizzabili).
  52. Nel periodo in esame tale pratica di incontri unitari, specie con la FIOM, risulta ormai acquisita e diffusa in 27 delle 33 unità produttive oggetto dell’indagine. Restano esclusi quasi solo i casi in cui manca una presenza organizzata della FIOM sufficientemente consistente da permettere in modo proficuo simili incontri a livello d’azienda. In almeno metà di queste ipotesi gli incontri non si limitano a verifiche saltuarie delle rispettive tesi in occasione o nel corso delle trattative aziendali, ma acquisiscono carattere di pratica regolare dei due gruppi direttivi. Addirittura in 7-8 aziende le riunioni unitarie tendono a sostituire quasi completamente quelle del singolo gruppo sindacale (dando luogo per certi periodi a nuovi gruppi informali intersindacali, talora con la presenza di attivisti non iscritti, di cui si dirà oltre al n. 9). La prassi di riunioni comuni si estende a partire dalla fine del 1968 anche ai gruppi direttivi e agli operatori dei sindacati provinciali in questione. Episodica fino al maggio-giugno 1969 sui temi delle azioni contrattuali articolate (non più di 2-3 riunioni in media), essa diventa intensissima durante la preparazione e lo svolgimento della contrattazione nazionale.
  53. Per i profili accennati è più che mai palese la situazione di svantaggio che caratterizza tali iniziative dei gruppi sindacali rispetto a quelle della commissione interna, facilitata per la sua stessa natura dall’assenza di tutti questi limiti e in grado di perseguire azioni unitarie ben altrimenti costanti e anche materialmente più incidenti.
  54. In maniera separata sono svolte in generale tutte le attività delle sezioni attinenti alla loro vita interna e alla crescita dell’organizzazione come tale. Ma è evidente come tali attività non siano prive di riflessi anche decisivi sui comportamenti e sulle politiche esterne del sindacato. Si pensi, in particolare, al proselitismo e al tesseramento, alle iniziative di reclutamento dei quadri e degli attivisti, all’attività di informazione dei lavoratori tramite gli eventuali giornali di fabbrica (che in nessun caso sono ancora unificati) e gli stessi volantini (per cui la preparazione comune è già diffusa nella maggioranza delle aziende in esame, ma anche qui non senza eccezioni). Pure in questo caso gli inconvenienti conseguenti a una simile situazione non si riscontrano se non in misura marginale e indirettamente per l’azione della commissione interna.
  55. La soluzione, relativamente nuova, di far partecipare delegazioni di lavoratori alle trattative aziendali risulta diffusa, durante il periodo dell’indagine, in una percentuale consistente delle aziende considerate (10 su 33). All’interno di tali delegazioni la presenza dei membri dei gruppi direttivi della SAS risulta prevalente sotto l’aspetto quantitativo, solo in 3-4 casi. Forse in una unica azienda (Alfa Romeo) può ritenersi che la posizione di tali gruppi acquisti, sia pure indirettamente, un rilievo particolare, per il fatto che essi presenziano alle trattative non solo in modo regolare, ma anche beneficiando di permessi convenuti con l’azienda (vedi nota 37). Ciò non implica peraltro ancora un loro riconoscimento come contraenti; e nella stessa documentazione formale dell’accordo i componenti del gruppo appaiono qualificati (e firmano) come delegati del sindacato provinciale (secondo il modello normativo già storicamente esaminato: vedi n. 6 del cap. II). Una vera e propria presenza delle SAS come agenti contrattuali sembra riscontrarsi, nelle provincie considerate, in un solo caso. Si tratta di un accordo, firmato da questi organismi nel 1969 con un’azienda milanese, non compresa nel campione qui considerato (vedi la nota La contrattazione aziendale nella metalmeccanica milanese: 1967-69, in «Note e informazioni del CRES», cit., p. 23). Il riconoscimento della SAS come soggetto contraente risulta del tutto eccezionale anche in altre zone e categorie: secondo i dati raccolti da Bianchi, Sindacati e impresa, cit., p. 38, si verificherebbe in soli 12 casi su 1167 contratti aziendali considerati nel 1968. Da notare infine come la posizione della CI pur in lento declino, dimostri anche su questo piano formale di essere tuttora largamente radicata. Secondo la nota del CRES sopra citata, relativa a Milano, per il 1967 essa è agente contrattuale nel 37,5% dei casi, per il 1968 nel 21,2%, per il 1969 nel 21,0%.
  56. Le giustificazioni addotte dagli intervistati per la mancanza di concrete iniziative in questo senso sono alquanto diversificate e spesso contrastanti (anche se prevedibili). Nella maggioranza delle ipotesi si rileva la resistenza pregiudiziale sempre opposta al riguardo dalle aziende (e ancora più dalle loro associazioni) e la difficoltà anche solo di iniziare una mobilitazione dei lavoratori su un simile obiettivo di principio. In un numero non trascurabile di casi, oltre a tale motivo si menzionano lo scarso appoggio e convinzione rivelati in proposito dagli stessi sindacati provinciali; o addirittura (ma da pochi soggetti) si accenna a una vera e propria resistenza da parte di questi. Da molti infine si tende a svalutare o a nullificare la portata del problema, specie ove si possa attuare un sostanziale controllo della SAS sulla CI. Cosicché l’obiettivo da raggiungere sarebbe solo quello di una maggiore autonomia degli organismi aziendali (quali che siano) rispetto al sindacato territoriale e una più larga partecipazione dei lavoratori alle loro decisioni. Ma di solito chi avanza questa opinione finisce poi per riconoscere una effettiva differenza fra i due istituti (SAS e CI) e il diverso significato, proprio sul piano della partecipazione, della loro configurazione strutturale.
  57. Una simile attività preparatoria alla contrattazione risulta svolta, con varia intensità, da quasi tutte le sezioni considerate (31 su 33) e viene di norma indicata come la più importante fra le iniziative esterne del gruppo (insieme all’attività di informazione dei lavoratori, peraltro con questa strettamente connessa). In alcune ipotesi (vedi oltre n. 9) essa giunge ad esprimersi in una vera e propria direzione politica della vicenda contrattuale.
  58. A ciò si aggiunga che solo in una minoranza dei casi (non più di 10) le organizzazioni sindacali in esame sembrano provviste di una rete di attivisti sindacali distribuita con sufficiente omogeneità in tutti i diversi reparti o uffici dell’unità produttiva. Non tutti tali attivisti fanno inoltre parte del gruppo direttivo o attendono regolarmente alle sue riunioni; né, più in generale, si può dire che il loro rapporto con questo sia in alcun modo privilegiato (solo nello schema di statuto della SAS della FIM di Treviso risulta ammessa la possibilità che una parte del direttivo sia eletta dagli iscritti dei vari reparti: art. 6). Anzi se come strumento di raccolta e di diffusione di informazioni essi sembrano servire indifferentemente sia l’organizzazione sindacale (esterna ed interna) sia la CI, quando si rendono portatori di richieste specifiche da parte dei lavoratori circa il loro rapporto di lavoro, fanno capo quasi esclusivamente a quest’ultima, per la stessa ragione sopra indicata che solo essa costituisce ed è percepita come l’unico interlocutore ufficiale provvisto di potere nei riguardi della controparte. L’importanza determinante di simile attività «vertenziale» della CI per rafforzarne la posizione presso la generalità dei lavoratori è del resto largamente riconosciuta e viene sottolineata in maniera concorde dagli intervistati.
  59. Il contrasto di posizioni su questo punto ha condotto all’instaurazione da parte della FIM provinciale di Milano di un processo di accertamento per l’interpretazione della clausola contrattuale costitutiva dell’istituto (art. 12, punto B, parte comune del contratto collettivo per l’industria metalmeccanica privata, 15 dicembre 1966). La sentenza del Tribunale di Milano, 18 giugno 1969 (in «Orientamenti di giurisprudenza del lavoro», 1969, pp. 426 sg.), pur riconosciuta l’ammissibilità del giudizio di accertamento, ha respinto nel merito la domanda della FIM, aderendo sostanzialmente alle argomentazioni addotte dalla convenuta Associazione Industriale Lombarda.
  60. Un uso effettivo dell’istituto si riscontra solo in 4 delle aziende considerate (tutte a partecipazione statale), ma anche qui con scarsa frequenza e incisività (in un unico caso i suoi interventi sono continui e giudicati con un certo favore dagli intervistati). Largamente concordi sono pure le denunce della endemica situazione di inferiorità dell’organismo nei confronti degli altri istituti competenti per la composizione delle controversie e il rilievo che tale composizione tende necessariamente a sfuggire da una mera attività di accertamento, per tradursi in interventi di nuova contrattazione (che richiedono quindi organi con poteri corrispondenti).
  61. Oltre alla informazione con i lavoratori realizzata personalmente dagli attivisti, di cui si è già detto (nota 58), gli strumenti scritti più usuali di tale informazione risultano impegnare in modo consistente l’attività delle sezioni. Quasi ovunque esse sono in grado di svolgere in proprio la preparazione e la distribuzione dei volantini, mentre in una maggioranza di casi (20 su 33) hanno dato vita anche a un giornale di fabbrica (che in 10 aziende esce periodicamente con diversi numeri all’anno). Volantini e giornale appaiono di norma firmati dalle stesse sezioni e costituiscono così il tramite più efficace (e spesso unico) con cui queste si rivelano alla generalità dei lavoratori e degli iscritti. Una sia pure embrionale attività di formazione (di solito convegni di studio annuali) risulta attuata con iniziativa propria solo in 3 grandi sezioni. Più frequente è l’ipotesi di attività formative svolte per singoli gruppi aziendali a cura del sindacato territoriale; ma la norma è che esse si tengano da operatori di questo per zone o a livello provinciale.
  62. Mentre l’aumento del numero degli iscritti alla FIM in provincia di Milano in questo periodo è del 57,7% (si passa da 25.221 a 39.788 soci) e in provincia di Brescia del 33,2% (da 10.016 a 13.433 soci), gli incrementi nelle aziende considerate sono a Milano del 77% (da 7.002 a 12.451 iscritti), a Brescia del 79,7% (da 2.864 a 5.148) (nonostante gli iscritti siano qui anche in assoluto più alti della media). Per Treviso gli incrementi medi provinciali sono del 52% (da 2.950 a 4.500 iscritti) quelli delle aziende in esame del 55,8 circa (da 860 a 1.340 soci). Nel medesimo periodo l’incremento della sindacalizzazione globale nelle province di Milano e Brescia è rispettivamente del 40% (da 88.155 a 123.423 iscritti) e del 34,2% (da 24.275 a 32.785 iscritti); nelle aziende considerate è del 66% (da 18.735 a 31.109 iscritti) e del 40% (da 7.965 a 11.212). Non essendo stato possibile raccogliere i dati degli iscritti della UILM, essi sono stimati anche qui con il metodo indicato nel commento alle tabelle in appendice ed esposto nella ricerca della B. Beccalli citata (le eventuali imprecisioni conseguenti a questa stima non possono comunque essere tali da modificare la tendenza rilevata). I dati sugli iscritti alla FIM e alla FIOM sono stati ottenuti dalle stesse federazioni interessate. Per indicazioni più particolari vedi le tabelle in appendice, da dove risulta altresì che la maggiore presenza associativa della FIM nelle zone considerate non è incompatibile ma anzi si accompagna spesso a una più forte presenza anche nelle elezioni di CI.
  63. Vedi il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., specialmente pp. 20, 168 sgg., 199 e passim.
  64. Non a caso queste insufficienze sono le prime ad essere rilevate dai più recenti dibattiti avviati all’interno dei metalmeccanici in ordine a tali forme tradizionali di presenza organizzata in azienda: «Le strutture precedenti o non erano sentite dai lavoratori come strutture loro (le SAS), oppure erano troppo «delegate» (le CI): in entrambi i casi nella loro formazione e nell’assunzione delle loro decisioni aveva un parere prevalente il sindacato in quanto organizzazione esterna» (così il documento su «L’azione rivendicativa della fabbrica e le strutture di base», n. 2, approvato alla III Assemblea organizzativa nazionale della FIM nel luglio 1970, riportato in appendice; ma con ammissioni analoghe vedi altri documenti dei metalmeccanici indicati oltre al n. 9).
  65. Così Romagnoli, Sviluppi recenti della contrattazione aziendale: i delegati, cit., p. 625, riferendosi in genere all’impostazione tradizionale delle varie forme di presenza sindacale in azienda (compresa la CI). In questo rovesciamento sostanziale del rapporto rappresentante-rappresentato rispetto al modello teorico sta la manifestazione evidente di una crisi ben più generale dei sistemi di rappresentanza, e degli stessi strumenti associativi nella nostra società. Nel caso della organizzazione sindacale in fabbrica la denuncia di tale crisi si è espressa nella ricerca di forme organizzative nuove, che a differenza di altri casi, ove pure la caduta di vecchie strutture è stata parimenti o più drastica (si pensi alle organizzazioni studentesche tradizionali), sembrano in via di progressivo consolidamento (non sempre mantenendo peraltro le caratteristiche originarie: vedi oltre nn. 2 e 3 del cap. IV).
  66. Il superamento di tali clausole, pur rappresentando una decisiva affermazione di principio nei rapporti con la controparte (e di qui l’aspra contesa durante le contrattazioni nazionali dell’autunno ’69) può svuotarsi largamente di significato nell’effettiva prassi contrattuale, se ad esso non fa riscontro un analogo capovolgimento di logica politica all’interno delle strutture organizzative sindacali, che controllano e attuano la strategia contrattuale.
  67. Si tratta di una evoluzione ben nota nei suoi termini generali, di cui si comincia ad avere anche qualche iniziale verifica empirica. Si ricordino, in particolare, l’indagine condotta sulla contrattazione aziendale sviluppatasi nel corso del 1968 da Bianchi, Sindacati e impresa,cit., specialmente capp. II e III, e soprattutto, per la loro attinenza all’ambito della presente ricerca, le indicazioni contenute nella nota La contrattazione aziendale nella metalmeccanica milanese: 1967-1969,cit., pp. 21 sgg., da dove risultano emergere, sia pure ancora con cautela, le tendenze, poi rapidamente diffusesi nel 1969 e nel 1970, agli aumenti retributivi uguali per tutti, ai passaggi massicci di qualifica, con accentuazione della crisi da tempo avviata nelle tradizionali forme di classificazione del lavoro, ad affrontare nel merito i problemi dei ritmi e dell’ambiente di lavoro.
  68. Questa valorizzazione preminente della CI in termini umani e organizzativi, caratteristica in generale della nostra esperienza sindacale postbellica, risulta totalmente confermata nelle aziende considerate. Qualche raro tentativo (2-3 casi) di impiegare in prevalenza nella sezione sindacale gli attivisti di maggior prestigio sembra aver dato risultati scarsamente apprezzabili (anche per il suo recente avvio). L’esigenza di superare una simile situazione è quasi sempre sottolineata dagli intervistati, ma si ritiene difficilmente perseguibile, e per ragioni ben fondate, finché esistano strutture sindacali divise in azienda e fuori, e la commissione interna continui a permanere come fondamentale strumento di rappresentanza unitaria dei lavoratori e punto visibile di efficacia della stessa forza organizzativa sindacale. Non dissimile problema si ripresenta ora nei rapporti fra commissione interna e delegati (vedi oltre al n. 3 del cap. IV).
  69. Una preparazione specifica ad affrontare i temi della contrattazione aziendale risulta avviata fra gli attivisti delle sezioni in esame in maniera pressoché trascurabile, nonostante la esistenza di progetti in tal senso. Anche in questo caso le direttive generali circa il potenziamento delle responsabilità contrattuali in azienda manifestano ritardi nella loro strumentazione concreta.
  70. Più precisamente, delle aziende in esame, 1 ha un numero di dipendenti compreso fra 700 e 1.000 (contro 6 delle altre aziende del campione); 2 un numero compreso fra 1.000 e 3.000 (15 delle altre); 5 un numero superiore a 3.000 (5 delle altre). Sebbene nel valutare queste indicazioni debba tenersi conto, oltre che della limitatezza del campione, del fatto che esso stesso comprende quasi esclusivamente grandi aziende, tuttavia soprattutto l’ultimo dato pare degno di rilievo. Esso sembra avvalorare ulteriormente l’ipotesi, avanzata da molti e già verificata nello stesso campione delle 34 aziende prescelte, che sulla presenza ed efficienza delle SAS influisce grandemente la dimensione aziendale.
  71. In 4 fra le aziende considerate sono stati conclusi meno di 5 contratti nel periodo, nelle altre 4 un numero superiore a 5 (i dati per il resto del campione sono rispettivamente 20 e 5). Ad analoghi risultati si perviene confrontando le medie dei contratti stipulati nelle 8 aziende in questione e nelle altre 25.
  72. Dividendo in classi le fattispecie discusse, a seconda delle ore di sciopero per dipendente effettuate nel periodo, solo 1 azienda è compresa nella classe fino a 80 ore (contro 23 delle restanti aziende del campione); 1 nella classe da 80 a 100 (contro 2 delle altre); 6 nella classe superiore a 100 (contro nessuna delle altre). Pure qui il risultato trova conferma confrontando le medie delle ore nei due gruppi di aziende.
  73. La sindacalizzazione formale complessiva nelle aziende in esame è in 3 casi inferiore al 45% (5 delle altre aziende del campione); ancora in 3 compresa fra il 45% e il 70% (10 delle altre); in 2 superiore al 70% (11 delle altre). La percentuale di iscritti alla FIM in 7 casi è inferiore al 30% (16 casi nel resto del campione); in 1 caso supera il 30% (10 casi nelle altre aziende). Analoga irrilevanza (o rilevanza negativa) della sindacalizzazione complessiva e della FIM nel gruppo di sezioni sindacali considerate risulta dal confronto fra i valori medi dei due gruppi. Gli indici di incremento della FIM fra il 1966 e il 1969 nelle aziende in questione sono dell’81% circa a Brescia (da 1.363 a 2.472 iscritti) e del 59 % a Milano (da 2.528 a 4.026 iscritti); mentre nel resto del campione sono del 78% a Brescia (da 1.501 a 2.676 soci) e dell’83% a Milano (da 4.473 a 8.202 soci).
  74. Questo dinamismo degli organi direttivi coinvolge tutti gli assetti finora considerati: dalla frequenza delle riunioni, che è fra quelle di maggiore regolarità (superiore al mese o addirittura settimanale), alla compattezza della partecipazione dei suoi membri, alla varietà delle iniziative da essi avviate sia all’interno dell’organizzazione (ad esempio, attività autonome di formazione) sia all’esterno (particolarmente intensa è l’opera di informazione dei lavoratori tramite il giornale, sempre presente e periodico, i volantini e la presenza di attivisti, fra i più organicamente distribuiti in azienda). Si tratta in ogni caso di direttivi regolarmente eletti (con le modalità rilevate in generale), secondo una prassi in atto già da diversi anni.
  75. Su questo punto le dichiarazioni degli intervistati sono largamente concordi e insistono con particolare vigore, sottolineando come ciò si traduca in una effettiva elaborazione collettiva delle più importanti decisioni sindacali all’interno dell’azienda (vedi oltre nel testo). Una simile situazione di autonomia non esclude che i rapporti con il sindacato provinciale (e con i suoi operatori) siano particolarmente intensi, anche se spesso competitivi. Le tensioni con l’organizzazione esterna (di solito non drammatizzate) appaiono sorte quasi sempre da contrasti sulla conduzione di singole lotte aziendali e sul merito delle soluzioni propugnate dai rappresentanti territoriali in sede di trattativa (in due-tre casi questi contrasti sono scoppiati apertamente e hanno causato palesi cambiamenti di comportamento e di persone dalle due parti).
  76. Anche se in questi casi si riscontrano in assemblea presenze di soci fra le più alte in assoluto (vedi nota 29), tali variazioni sono ben lungi dal rendere effettivamente consistente il peso dell’organo sulla conduzione dell’attività sindacale (anche perché il suo uso resta comunque del tutto sporadico).
  77. Ciò non significa che non si vedano i possibili aspetti ambigui della situazione così configurata, in particolare per la posizione di rilievo di cui beneficia la CI di fronte ai lavoratori, quale unico interlocutore riconosciuto in azienda. Né mancano anche qui episodi che comprovano come questa posizione abbia ancora un significato politico difficilmente neutralizzabile dal gruppo direttivo sindacale, pur sempre privo di ufficialità e poco noto come tale ai lavoratori. Si menzionano anzi in proposito due-tre casi, risalenti peraltro a qualche anno addietro, in cui il gruppo è entrato in grave contrasto con alcuni membri di CI, riuscendo con l’appoggio del sindacato provinciale a risolverlo a proprio favore e a cambiare l’indirizzo dell’istituto. In definitiva, si avverte il carattere provvisorio dell’assetto esistente e si riconosce l’esigenza di una più specifica qualificazione anche formale della organizzazione sindacale in azienda, peraltro in un quadro che si intuisce necessariamente mutato.
  78. Anche per questi profili la conclusione risulta da tutti gli indici quantitativi, sopra riportati in generale, circa la frequenza e le modalità dell’impiego dell’assemblea e della pratica unitaria, che nei casi in esame sono sempre fra i più qualificanti (vedi note 47, 51, 52, 55).
  79. Anzi per certe iniziative tale nuovo raggruppamento risulta talora essersi dato, anche qui al di fuori di ogni delibera formale, una embrionale struttura di coordinamento (comitato o simili) al fine di rispondere meglio alle esigenze della propria azione.
  80. Sulla natura e sugli effetti dei molteplici fattori che possono influenzare il tipo di conflittualità e il comportamento sindacale in azienda non esistono approfonditi tentativi di verifica da parte della nostra dottrina. Le prime ipotesi di una ricerca in questo ambito sono state presentate nella relazione di Pizzorno al seminario di Ancona su I sindacati nella economia e nella società italiana, cit. Vedi anche, per un profilo particolare e prevalentemente sotto l’aspetto teorico, il saggio di Baglioni, Rapporto fra livelli di contrattazione e grado di sindacalizzazione dei lavoratori, in «Studi di sociologia», 1963, n. 1, pp. 51 sgg. Fra i fattori considerati da Pizzorno almeno due sono largamente omogenei nelle fattispecie qui discusse: l’influsso derivante dal generale rinnovo culturale della società civile nel periodo in esame, e il grado di presenza dei sindacati ufficiali all’interno delle aziende. Più eterogenea invece la struttura produttiva delle stesse imprese e la composizione della loro forza lavoro, dato che esse rappresentano tutti i settori della meccanica.
  81. Proprio il venir meno di questo elemento è visto da Ghezzi (Osservazioni sul metodo dell’indagine giuridica nel diritto sindacale, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1970, p. 429) come uno dei punti centrali di novità introdotti dalle nuove forme di democrazia diretta e dal loro riconoscimento da parte delle organizzazioni sindacali.