Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c3
La situazione si presenta in termini
simili anche nell’attività di applicazione dei contratti collettivi, aziendali e
nazionali, nonostante qui la sezione sindacale abbia ottenuto, almeno parzialmente, una
propria competenza istituzionale, secondo le tesi classiche della CISL. Tale competenza
risulta in via indiretta dal potere, riconosciutole dai sindacati provinciali in
questione, di nominare il rappresentante dei lavoratori nei comitati tecnici paritetici
previsti dai contratti collettivi nazionali per la trattazione di controversie su
cottimi e qualifiche. Nella quasi totalità dei casi la designazione del rappresentante
dei lavoratori risulta attuata in effetti dalla sezione, peraltro non dai soci in via
elettiva ma dallo stesso direttivo. Ma, a parte che neppure in questo caso la competenza
in materia è riconosciuta all’esterno del gruppo aziendale, dato il carattere indiretto
della designazione e la sua formale riconducibilità al sindacato provinciale, il valore
dell’esperimento è vanificato in radice dal fallimento pressoché totale dei comitati
paritetici. Essi nascono già nei contratti nazionali con competenze limitate al mero
accertamento dei fatti e in una posizione ambigua, come grado intermedio fra l’istanza
davanti alla CI, che resta sempre possibile, e la trattativa in sede sindacale
territoriale, che anzi dagli imprenditori privati è ritenuta in ogni caso pregiudiziale
al funzionamento dell’organo aziendale
[59]
. Le possibilità di intervento di quest’ultimo si dimostrano così palesemente
ridotte di fronte agli altri due livelli, che l’impiego dei comitati paritetici risulta
subito poco rilevante nelle stesse aziende a partecipazione statale, le quali pure non
oppongono rifiuti pregiudiziali alla sua autonoma convocabilità
[60]
. Ne consegue che
¶{p. 140}anche tutta l’attività di
composizione delle controversie sull’interpretazione e l’applicazione dei contratti
rimane consolidata negli istituti e nelle forme tradizionali, salvo per certe materie il
prospettarsi di un crescente intervento da parte delle nuove figure dei delegati.
Il quadro finora rilevato sulla
realtà funzionale delle sezioni sindacali, infine, va completato con l’analisi degli
altri compiti ad esse attribuiti dalla normativa sindacale. Ridotte al minimo le
funzioni connesse con la vita associativa e finanziaria del gruppo, per lo sviluppo poco
più che embrionale di questi aspetti dell’istituto, restano pressoché esclusivamente i
compiti tradizionali del proselitismo e del tesseramento, della organizzazione della
propaganda, dell’informazione, della diffusione delle direttive sindacali superiori,
nonché della conduzione della lotta in azienda (ma per lo più con riguardo al solo
aspetto organizzativo-esecutivo, in quanto le iniziative politiche al riguardo fanno
capo ai centri o ai soggetti sopra indicati e si svolgono nei modi già visti). Appunto
queste attività, insieme alla raccolta e al coordinamento delle proposte contrattuali
appena indicate, occupano nella maggioranza dei casi la gran parte del tempo e del
concreto operare delle sezioni in esame, o meglio dei rispettivi gruppi dirigenti. E nel
loro svolgimento tali gruppi sembrano aver espresso il massimo di funzionalità
dimostrando in prevalenza un certo grado di efficacia, come attestano concordemente gli
intervistati e gli operatori sindacali. Ma è evidente che, per il loro carattere
strumentale e spesso del tutto materiale, essi presentano valore ridotto in ordine alla
qualificazione politica dell’istituto. In definitiva non è neppure tipicamente
percepibile se siano svolti da un gruppo associativo, piuttosto che da un gruppo
informale di attivisti. Persino ¶{p. 141}le attività informative e di
formazione, pur implicitamente cariche di rilievo politico, non vanno di solito oltre,
per la stessa precarietà organizzativa e finanziaria dei gruppi aziendali, un livello
meramente embrionale e applicativo di direttive e di azioni svolte dal sindacato provinciale
[61]
.
Anche nelle iniziative così indicate
dunque l’attività dei gruppi direttivi sindacali, pure spesso quantitativamente intensa,
prende per lo più rilievo solo in funzione dell’espansione organizzativa del sindacato
in azienda. A questo proposito è interessante notare come nelle aziende in esame, salvo
una, per cui mancano dati precisi, gli indici medi di incremento percentuale degli
iscritti alla FIM (e anche degli iscritti ai tre sindacati) nel periodo 1966-1969
risultino nettamente superiori ai corrispondenti valori medi nelle rispettive province.
Alla fine del periodo le stesse aziende pervengono così a un tasso di sindacalizzazione,
sia globale sia relativo alla FIM, che in due province è pure superiore alla media,
mentre nelle altre ha raggiunto la media
[62]
. Questi dati potrebbero far ¶{p. 142}pensare che sulla
maggior crescita di iscritti nelle aziende indicate abbia influito in modo particolare
l’azione organizzativa svolta dalle sezioni sindacali, che sono appunto fra le più
efficienti. Ma diverse ragioni rendono una simile correlazione tutt’altro che sicura. A
parte l’esistenza di possibili fattori esterni operanti in questa direzione, non ultimo
l’impegno organizzativo del sindacato territoriale e dei suoi operatori, che, come si
diceva, è stato particolarmente intenso nelle stesse aziende, basti richiamarsi alle
indicazioni già fornite (n. 6) sul grado di conflittualità e sull’attività contrattuale
di tali unità produttive, che pure riscontrano valori molto più elevati delle medie
provinciali. Ed entrambi questi ultimi elementi possono fornire spiegazioni
dell’incremento di iscritti altrettanto o più plausibili rispetto all’azione dei gruppi
direttivi delle sezioni.
8. Configurazione effettiva delle sezioni e illusorietà della loro formula rappresentativa.
Dalle indicazioni raccolte sul
funzionamento interno e sui compiti delle sezioni sindacali nella loro tipologia più
consueta possono trarsi alcune osservazioni generali sulla configurazione effettiva
dell’istituto. I dati via via esposti presentano indicazioni largamente univoche sulla
divergenza esistente fra questa configurazione e il modello normativo, quale risulta
dalle più mature direttive politico-organizzative dei sindacati. Tale divergenza
riguarda pressoché tutti gli aspetti più rilevanti della linea programmatica sindacale
diretta a conferire alla sezione ¶{p. 143}aziendale la piena
individualità associativa, dal profilo finanziario a quello strutturale e funzionale.
Ciò è sufficiente per verificare quanto si accennava all’inizio circa il rilievo che la
prassi può rivestire per la valutazione giuridica, oltre che politica, delle strutture
organizzative, anche quando sia contraria o estranea alla loro disciplina. Si ha qui un
caso paradigmatico in cui le indicazioni di questa disciplina trovano di solito così
scarsa attuazione nella esperienza fattuale, da essere inoperanti e quindi non influenti
sulla effettiva natura dell’istituto considerato. In ipotesi, come si è dimostrato più
diffusamente altrove
[63]
, i presupposti richiesti dall’ordinamento statale e dagli stessi statuti
sindacali per l’esistenza di una associazione autonoma, pur essendo previsti a livello
normativo, non si sono di solito realizzati nelle sezioni considerate, oppure si sono
realizzati solo in parte, così da non integrare di fatto i tratti necessari per
riconoscere ad esse una completa identità funzionale e associativa. Dal punto di vista
politico la mancata attuazione delle sezioni quali centri associativi autonomi significa
che nella prassi esaminata sono venuti a scomparire i più importanti elementi distintivi
della moderna concezione dell’istituto come nuova forma di presenza sindacale in
azienda. Confrontando le indicazioni raccolte con l’esperienza storica risulta infatti
che i singoli gruppi aziendali non sono riusciti, nella maggior parte dei casi, a
superare nessuno dei punti deboli caratteristici del loro stadio iniziale di sviluppo:
né la stretta dipendenza dalla organizzazione territoriale nelle principali attività
associative, né la sostanziale mancanza di autonomia finanziaria, né il carattere
meramente strumentale allo stesso sindacato provinciale di quasi tutte le proprie
attività, dalla propaganda, all’organizzazione, alla contrattazione, che pure doveva
costituire il fattore principale della sua vitalità storica. Tanto meno essi sono
riusciti ad assumere gradualmente, con l’esperienza, una crescente responsabilità
politica per la conduzione dell’attività sindacale e a porsi come strumenti di una nuova
sindacalizzazione ¶{p. 144}sostanziale nei riguardi di tutti i
lavoratori.
Ne emerge di regola una figura
effettiva di sezione ben più vicina alle originarie definizioni che la presentavano come
«anello di congiunzione» fra il sindacato territoriale e la fabbrica, che non al modello
dell’istituto come strumento centrale di autogoverno degli iscritti su tutte le materie
sindacali, aperto dialetticamente al confronto con la generalità dei lavoratori,
faticosamente emerso da un’elaborazione ultradecennale. Anzi il suo grado di
funzionalità è per lo più talmente ridotto da non potere neppure configurarsi come sede
dinamica per organizzare la crescita del grado di sindacalizzazione formale in azienda
(iscritti) e per attuare una politica contrattuale decentrata, secondo la concezione
generalmente radicata negli anni ’60 e tuttora da molti non superata.
A volere approfondire il significato
e gli aspetti più rilevanti del fallimento dell’istituto, (peraltro senza pretesa, dati
i limiti della ricerca, di scoprirne a fondo le cause), il primo dato su cui occorre
riflettere attiene alle deficienze rilevate nei vari momenti della sua attività interna,
e in particolare al radicale depotenziamento dell’assemblea. È palese come questi tratti
siano già sufficienti a inficiare il funzionamento dinamico del metodo associativo, su
cui si basa tutta la concezione, non solo cislina, della struttura in esame, e la sua
natura di organismo democratico autogovernantesi, che di tale concezione poteva
costituire l’aspetto meno caduco. Essi segnano l’incapacità della sezione di provocare
autonomamente quel confronto immediato fra la generalità degli iscritti sui problemi
della loro condizione in azienda, che pure essa sola poteva condurre fra tutte le
strutture sindacali, e a fortiori di esprimere la partecipazione
organizzata degli stessi soci alla politica sindacale a tutti i livelli. Assumono
rilievo, come si accennava, solo gli aspetti più ambigui dell’impostazione associativa
dell’istituto, la quale serve così a sottolineare piuttosto i legami di dipendenza del
gruppo aziendale dal sindacato esterno, che non l’autodeterminazione o l’omogeneità
delle politiche attuate in azienda e contribuisce a ostacolare invece che a favorire
¶{p. 145}la dialettica fra iscritti e non iscritti
[64]
. Le conseguenze, già rilevate, della inerzia associativa sul direttivo della
sezione (scarso ricambio dei componenti, mancanza di controllo non meramente episodico
dei soci sul loro operato, e della relativa responsabilità) lo avvicinano di fatto al
tradizionale gruppo informale di attivisti slegato da ogni vincolo associativo con gli
iscritti, o, ancora più chiaramente, al modello della Commissione interna, con cui ha
spesso in comune il fondamento elettivo del mandato, anche su base diversa. Simili
accostamenti sono sovente messi in risalto dagli stessi intervistati, sia pure con
diversi gradi di consapevolezza; talora negando ogni significato sostanziale alla
distinzione fra le diverse formule organizzative (quasi a voler eludere il problema per
troppo lunga frustrazione); altre volte, e ad avviso di chi scrive con maggior lucidità,
indicando nella prassi instauratasi il punto più debole delle nuove strutture direttive
sindacali e il segno della loro scarsa capacità innovativa.
Note
[59] Il contrasto di posizioni su questo punto ha condotto all’instaurazione da parte della FIM provinciale di Milano di un processo di accertamento per l’interpretazione della clausola contrattuale costitutiva dell’istituto (art. 12, punto B, parte comune del contratto collettivo per l’industria metalmeccanica privata, 15 dicembre 1966). La sentenza del Tribunale di Milano, 18 giugno 1969 (in «Orientamenti di giurisprudenza del lavoro», 1969, pp. 426 sg.), pur riconosciuta l’ammissibilità del giudizio di accertamento, ha respinto nel merito la domanda della FIM, aderendo sostanzialmente alle argomentazioni addotte dalla convenuta Associazione Industriale Lombarda.
[60] Un uso effettivo dell’istituto si riscontra solo in 4 delle aziende considerate (tutte a partecipazione statale), ma anche qui con scarsa frequenza e incisività (in un unico caso i suoi interventi sono continui e giudicati con un certo favore dagli intervistati). Largamente concordi sono pure le denunce della endemica situazione di inferiorità dell’organismo nei confronti degli altri istituti competenti per la composizione delle controversie e il rilievo che tale composizione tende necessariamente a sfuggire da una mera attività di accertamento, per tradursi in interventi di nuova contrattazione (che richiedono quindi organi con poteri corrispondenti).
[61] Oltre alla informazione con i lavoratori realizzata personalmente dagli attivisti, di cui si è già detto (nota 58), gli strumenti scritti più usuali di tale informazione risultano impegnare in modo consistente l’attività delle sezioni. Quasi ovunque esse sono in grado di svolgere in proprio la preparazione e la distribuzione dei volantini, mentre in una maggioranza di casi (20 su 33) hanno dato vita anche a un giornale di fabbrica (che in 10 aziende esce periodicamente con diversi numeri all’anno). Volantini e giornale appaiono di norma firmati dalle stesse sezioni e costituiscono così il tramite più efficace (e spesso unico) con cui queste si rivelano alla generalità dei lavoratori e degli iscritti. Una sia pure embrionale attività di formazione (di solito convegni di studio annuali) risulta attuata con iniziativa propria solo in 3 grandi sezioni. Più frequente è l’ipotesi di attività formative svolte per singoli gruppi aziendali a cura del sindacato territoriale; ma la norma è che esse si tengano da operatori di questo per zone o a livello provinciale.
[62] Mentre l’aumento del numero degli iscritti alla FIM in provincia di Milano in questo periodo è del 57,7% (si passa da 25.221 a 39.788 soci) e in provincia di Brescia del 33,2% (da 10.016 a 13.433 soci), gli incrementi nelle aziende considerate sono a Milano del 77% (da 7.002 a 12.451 iscritti), a Brescia del 79,7% (da 2.864 a 5.148) (nonostante gli iscritti siano qui anche in assoluto più alti della media). Per Treviso gli incrementi medi provinciali sono del 52% (da 2.950 a 4.500 iscritti) quelli delle aziende in esame del 55,8 circa (da 860 a 1.340 soci). Nel medesimo periodo l’incremento della sindacalizzazione globale nelle province di Milano e Brescia è rispettivamente del 40% (da 88.155 a 123.423 iscritti) e del 34,2% (da 24.275 a 32.785 iscritti); nelle aziende considerate è del 66% (da 18.735 a 31.109 iscritti) e del 40% (da 7.965 a 11.212). Non essendo stato possibile raccogliere i dati degli iscritti della UILM, essi sono stimati anche qui con il metodo indicato nel commento alle tabelle in appendice ed esposto nella ricerca della B. Beccalli citata (le eventuali imprecisioni conseguenti a questa stima non possono comunque essere tali da modificare la tendenza rilevata). I dati sugli iscritti alla FIM e alla FIOM sono stati ottenuti dalle stesse federazioni interessate. Per indicazioni più particolari vedi le tabelle in appendice, da dove risulta altresì che la maggiore presenza associativa della FIM nelle zone considerate non è incompatibile ma anzi si accompagna spesso a una più forte presenza anche nelle elezioni di CI.
[64] Non a caso queste insufficienze sono le prime ad essere rilevate dai più recenti dibattiti avviati all’interno dei metalmeccanici in ordine a tali forme tradizionali di presenza organizzata in azienda: «Le strutture precedenti o non erano sentite dai lavoratori come strutture loro (le SAS), oppure erano troppo «delegate» (le CI): in entrambi i casi nella loro formazione e nell’assunzione delle loro decisioni aveva un parere prevalente il sindacato in quanto organizzazione esterna» (così il documento su «L’azione rivendicativa della fabbrica e le strutture di base», n. 2, approvato alla III Assemblea organizzativa nazionale della FIM nel luglio 1970, riportato in appendice; ma con ammissioni analoghe vedi altri documenti dei metalmeccanici indicati oltre al n. 9).