Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c3
Capitolo terzoL'organizzazione di fabbrica in zone sindacali avanzate: dai modelli all'esperienza
1. Forme organizzative dei lavoratori negli anni ’68-’69 e crisi della concezione associativa.
Con le concezioni sviluppatesi
all’interno della CGIL e della FIM nel periodo appena esaminato, l’evoluzione del
modello organizzativo della sezione sindacale sembra ormai avviata a compimento.
Nonostante le indicazioni sopra discusse consistano più in affermazioni generali di
principio che in un definito e preciso assetto normativo dell’istituto, è comunque
chiara la tendenza ad abbandonare ogni residuo di una idea dello stesso come mera
struttura organica del sindacato provinciale, per stabilirne una precisa identità
funzionale per tutte le materie sindacalmente rilevanti. Si può dire che già alla fine
del 1968, quando si svolge la presente ricerca, questa tendenza sia acquisita a livello
programmatico in vasti settori del nostro schieramento sindacale, pur trovando ancora
forti resistenze all’interno di molti sindacati, specie della CISL. Se a ciò si
aggiungono le indicazioni, da tempo preannunciate e di recente tradotte sempre più
spesso in norme statutarie, sulla autonomia strutturale e finanziaria della sezione
[1]
, può ritenersi largamente confermata in questi settori una linea
programmatica tendente a conferire alle organizzazioni aziendali la piena autonomia
associativa.
Prima di porre a raffronto queste
direttive programmatiche con la prassi associativa sindacale negli ambiti prescelti,
occorre far cenno ancora ad alcuni sviluppi generali delle vicende sindacali dello
stesso periodo, che si sono dimostrati atti a modificarne ulteriormente e in
¶{p. 96}modo radicale il significato. Una delle caratteristiche più
rilevanti dell’azione sindacale d’azienda sviluppatasi a partire dal 1968, è, com’è
noto, di avere rotto decisamente le barriere delle diverse affiliazioni sindacali e lo
stesso ambito tradizionale degli iscritti al sindacato. Tale superamento avviene non
solo nella partecipazione allo sciopero, il che è del tutto normale nella nostra storia
sindacale, ma nella stessa conduzione delle diverse attività sindacali: dalla
organizzazione delle azioni di lotta, alla elaborazione dei contenuti contrattuali, alla
decisione sugli stessi. La partecipazione a queste attività avviene anzitutto nella
forma, riscoperta dopo lungo tempo, dell’assemblea generale e parziale o in altre forme
organizzative elementari, variamente denominate, quali i comitati di base, collettivi
unitari, gruppi di studio ecc.
[2]
. Al di là delle diversità con cui queste figure si presentano, il loro
tratto comune è di collocarsi sicuramente al di fuori delle strutture sindacali
esistenti, dirigendosi non solo di fatto, ma programmaticamente, alla generalità dei
lavoratori di date aziende o zone, e non riconoscendo di solito alcun legame
istituzionale con gli stessi sindacati, si trovino o no in una polemica sostanziale con
essi. Quando anche dette figure abbiano un minimo di organizzazione formale e stabile,
questa è tendenzialmente distinta, all’origine, da quella sindacale ufficiale. Analoghe
caratteristiche di novità sui punti accennati si presentano nel più recente e pur
alquanto differenziato movimento dei delegati. Oltre a non rispettare necessariamente i
limiti dell’affiliazione sindacale, e a non ripetere meccanicamente i propri poteri
¶{p. 97}dall’investitura formale del sindacato, essi presentano in più
la novità di trarre la stessa propria identità da una unità organizzativa diversa da
quelle tradizionali di categoria o d’azienda, proprie del sindacato e della stessa CI, e
fondata più direttamente sulla realtà produttiva.
Se è vero che lo sviluppo di queste
nuove forme organizzative espresse autonomamente dai lavoratori e l’intensificarsi della
protesta operaia ad esse sottesa rimettono in discussione tutte le scelte fondamentali
della politica sindacale, non solo in materia organizzativa, il loro contraccolpo è
destinato a riflettersi con particolare urgenza sulla presenza sindacale in fabbrica,
epicentro della crisi e chiave della sua soluzione. Nel dibattito che subito si apre,
specie all’interno dei sindacati più direttamente toccati dal problema, le prime
conclusioni, concordemente avanzate, riconfermano la validità della formula della
sezione sindacale e mirano a rilanciarla come centro promotore dell’azione sindacale in
azienda, proprio facendo leva e sottolineandone il valore associativo-democratico e i
poteri autonomi ad essa ormai decisamente riconosciuti. Questa è la linea programmatica
ancora prevalente nelle più importanti delibere sindacali del periodo considerato, dalla
conferenza nazionale sulla democrazia sindacale della FIOM del dicembre 1968, al VI
Congresso nazionale della FIM del giugno 1969, al VII Congresso confederale della CGIL
del luglio 1969
[3]
.¶{p. 98}
Ma appare subito chiaro che nel
contesto aziendale creatosi in seguito alle nuove forme di azione e di organizzazione
aziendale, un simile rilancio si presenta alquanto problematico, carico di tensioni e di
significati in buona parte diversi dalla tradizione e non tutti definiti. Un primo
elemento di problematicità deriva dalla circostanza che le forme in questione agiscono
quali strumenti unificanti dell’azione sindacale aziendale in termini ben più radicali
della prassi di unità di azione fino allora perseguita fra le singole strutture
sindacali di base. Anche nei settori, quali appunto i metalmeccanici, ove tale prassi
era più strettamente e da più tempo consolidata, essa si era espressa di solito, a
livello decisionale, solo fra i gruppi direttivi delle varie strutture, piuttosto che
coinvolgendo la generalità o una parte sostanziale degli iscritti in azienda. Inoltre
essa non aveva mai implicato né di fatto né teoricamente una eliminazione delle
differenze politico-ideologiche fra i diversi sindacati e anzi non aveva neppure
postulato fra questi forme definite di coordinamento istituzionale.
I limiti dell’esperienza tradizionale
nella situazione determinatasi sono lucidamente avvertiti dai sindacati in questione, i
quali sottolineano subito come in tale contesto il rilancio della presenza sindacale in
azienda non possa avviarsi se non con una progressiva intensificazione dei rapporti fra
le diverse sezioni, destinata, pena il riflusso, a rendere possibile quanto prima la
costituzione di comitati unitari, risultanti dal coordinamento delle strutture
associative esistenti o, meglio, espressi congiuntamente dalle «assemblee (generali o di
reparto) delle sezioni aziendali»
[4]
. Col che peraltro il significato e le prospettive
¶{p. 99}della strategia così indicata si rivelano cariche di tutte le
difficoltà e le incognite connesse al passaggio alla fase dell’unità sindacale organica
a livello non solo d’azienda, ma anche extra-aziendale.
Ancora più delicati sono i problemi
posti dai rapporti fra le sezioni sindacali (e il sindacato in genere) e le nuove forme
organizzative in questione. Già le caratteristiche sopra accennate per cui esse si
pongono, all’origine, come espressione diretta e organizzata dalla generalità dei
lavoratori, rifiutando ogni legame con i gruppi sindacali esistenti, sono sufficienti ad
alterare profondamente la posizione funzionale della sezione, anche rispetto alle
concezioni più avanzate che ne avevano auspicato da tempo l’apertura dialettica nei
riguardi di tutti i lavoratori. Ai gruppi sindacali in azienda, da soli o unitariamente
considerati, non si richiede più solo di confrontare con la totalità dei dipendenti i
modi di svolgimento di compiti sindacali, concepiti pur sempre come esclusivamente
propri, ma di riaffermare la propria funzione egemonica nei riguardi di strutture
organizzate in modo autonomo e potenzialmente alternativo
[5]
. Un simile programma, che
¶{p. 100}già propone all’istituto
un compito di estrema difficoltà (anche a prescindere dal suo precario stato di
sviluppo), diventa progressivamente più difficile nella misura in cui le figure in
questione vanno estendendosi e tendono ad assumere poteri decisionali rispetto alle
principali materie di azione sindacale; poteri che si impongono di fatto all’iniziativa
del sindacato, e che questo si mostra incline a riconoscere, per ragioni comprensibili,
prima di volta in volta, poi sempre più regolarmente
[6]
.
Note
[1] Vedi le indicazioni ai nn. 2 e 3, e più ampiamente nel mio scritto L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 190 sg., anche per più adeguati ragguagli sul significato giuridico del modello dell’istituto così elaborato.
[2] Le ricerche sulla tipologia, sulla conformazione effettiva di queste figure e sulla loro attività sono ancora agli inizi, data la novità del fenomeno, anche se si preannunciano numerosi. Basti ricordare per ora, fra i primi studi sui gruppi extra-sindacali, il contributo, peraltro di carattere prevalentemente valutativo, di Baglioni, Nuovi movimenti e azione sindacale, in «Dibattito sindacale», 1969, n. 5, pp. 53 sgg.; la relazione di Bellasi e Pellicciari, I «comitati unitari di base»: autogestione delle lotte e sociologia della partecipazione, ora pubblicata in «Studi di sociologia», 1970, n. 1-2, pp. 197 sgg. Fra la ricca pubblicistica politica, di varia natura, cfr., ad esempio, V. Foa, Note sui gruppi estremisti e le lotte sindacali, in «Problemi del socialismo», 1969, p. 658. Antoniazzi, Sindacati e contestazione, ivi, 1969, pp. 671 sgg.
[3] «Lo sviluppo della democrazia sindacale nei luoghi di lavoro passa in primo luogo per la costruzione e il rafforzamento della sezione sindacale aziendale, intesa come collettivo degli iscritti al sindacato, dotato di reali poteri di decisione, di una progressiva autonomia finanziaria e di un effettivo potere di contrattazione su tutti gli aspetti del rapporto di lavoro che dovranno essere determinati sul piano aziendale»: così le proposte per la discussione alla conferenza sulla democrazia sindacale di Sesto S. Giovanni, cit., I, 1, p. 8 (riportata in appendice). In termini analoghi si esprimono al riguardo gli altri documenti sopra menzionati: cfr., al VI Congresso della FIM (1969), la relazione della segreteria, cit., pp. 22 sgg., e la mozione conclusiva (riportata in appendice); al congresso della CGIL, soprattutto la relazione introduttiva di Novella, (in I congressi della CGIL, VIII, II, Roma, 1970, pp. 35, 64 sgg.), ove si accentua altresì il tema del riconoscimento contrattuale dell’istituto, perché esso si consolidi anche nei riguardi degli imprenditori come «il perno della nostra struttura organizzativa generale» (p. 67); nonché la mozione conclusiva (ibidem, p. 512). Sulla stessa linea vedi anche l’ampio dibattito su Il rapporto fra diritti sindacali e potere contrattuale, cit.; i commenti alla conferenza di Sesto S. Giovanni, di Scheda, Siamo entrati in una fase di rinnovamento, in «Rassegna Sindacale», 1969, n. 152-153, p. 24; Didò, Per contare di più nel sindacato e in fabbrica, in «Rassegna sindacale», 1969, p. 25; Accornero, Partecipazione e potere: la chiave è nella fabbrica, in «Rassegna sindacale», 1969, p. 27; e ancora diversi interventi (Didò, Giunti) alla tavola rotonda su I nuovi strumenti aziendali del rapporto sindacato-lavoratori, nel «Quaderno di rassegna sindacale», 1969, n. 24, cit., pp. 9 sgg.
[4] Così le proposte per la conferenza nazionale sulla democrazia sindacale, cit., I, 6, p. 11; e similmente i testi citati nella nota precedente. In essi si accenna anche all’impegno del sindacato di promuovere l’elezione di delegati di reparto, di cottimo ecc., ma intesi, conformemente alla logica qui discussa, come «emanazione diretta e unitaria degli iscritti ai diversi sindacati» o, in via subordinata «dei lavoratori su proposta dei sindacati» (vedi ancora la conferenza sulla democrazia sindacale, pp. 11 sgg.). Nel dibattito riemergono, sempre più decisamente (non solo all’interno della FIM, ma anche della FIOM), le tesi favorevoli a un totale superamento delle CI.
[5] In queste strutture, nonostante il loro carattere elementare e di occasionalità, si esprime il conflitto potenzialmente sempre presente fra collettività generale dei lavoratori, a livello aziendale o infraaziendale, e organizzazione sindacale. Il conflitto ha evidentemente fondamenti e manifestazioni più complesse del profilo qui accennato. In particolare non si pone solo fra forme organizzative della generalità dei lavoratori e strutture associative sindacali, ma anche fra forme di autogoverno operaio nell’azienda e sindacato, come organizzazione di lavoratori estesa oltre il confine della singola azienda. I termini di riferimento dell’antitesi sono peraltro sovente corrispondenti nei due casi, in quanto le forme organizzative aziendali tendono tipicamente a comprendere tutti i lavoratori (trovando il loro fattore unificante nell’appartenenza di questi alla stessa unità produttiva, piuttosto che nel legame associativo) e quelle extra-aziendali tendono viceversa a fondarsi su una più stretta coesione di gruppo. La sperimentazione di figure organizzative autonome della collettività aziendale (o di reparto) è dunque ben lungi dal chiudere, anzi lascia aperta in termini maggiormente problematici, la questione del loro collegamento con la organizzazione sindacale esterna. Sull’argomento vedi, fin d’ora, utili cenni in Romagnoli, Sviluppi recenti della contrattazione aziendale: i delegati, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», cit., pp. 616 sgg., il quale osserva giustamente come il costituirsi di queste nuove strutture organizzative riproponga con diverso valore storico la nota questione della pluralità degli strumenti di autotutela costituzionalmente garantiti per la difesa degli interessi dei lavoratori.
[6] Tale riconoscimento da parte del sindacato, che si esprime in un avallo ex post delle delibere di queste assemblee, o addirittura subordinando ad esse l’operatività di certe decisioni proprie, specie in materia contrattuale, emerge già nella più significativa contrattazione aziendale del 1968, per diffondersi poi più generalmente nel 1969, fino a quella nazionale (vedi anche più avanti al n. 6). Ma si tratta ancora, nel periodo della presente ricerca, di comportamenti sindacali di fatto, o anche di delibere formali, devianti dalle regole codificate negli statuti e in genere nella stessa legalità propria del gruppo e quindi insufficienti, per le ragioni già dette nel cap. I, a rendere le decisioni assembleari vincolanti come tali per l’ordinamento sindacale. Una simile condizione di extra-legalità andrà peraltro modificandosi rapidamente nei mesi seguenti, con l’evolversi di una sempre più chiara tendenza del sindacato a riconoscere anche formalmente tali forme (e poi i delegati) come proprie strutture di base (vedi in fine). Cenni di questa tendenza si avvertono già nella conferenza nazionale sulla democrazia sindacale di Sesto S. Giovanni, ove, pur attribuendosi priorità politica alla «decisione sovrana degli iscritti al sindacato» (cioè alle sezioni) nella contrattazione, si sottolinea la necessità di una «partecipazione reale e non solo consultiva» (come in passato) di tutti i lavoratori alla formazione degli obiettivi rivendicativi e alla definizione delle forme di lotta, che. si esprima nella proposizione di «scelte vincolanti» per gli organismi dirigenti del sindacato (vedi il documento citato, n. 1, 5, pp. 10-11).