Tiziano Treu
Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c3
Ancora più delicati sono i problemi posti dai rapporti fra le sezioni sindacali (e il sindacato in genere) e le nuove forme organizzative in questione. Già le caratteristiche sopra accennate per cui esse si pongono, all’origine, come espressione diretta e organizzata dalla generalità dei lavoratori, rifiutando ogni legame con i gruppi sindacali esistenti, sono sufficienti ad alterare profondamente la posizione funzionale della sezione, anche rispetto alle concezioni più avanzate che ne avevano auspicato da tempo l’apertura dialettica nei riguardi di tutti i lavoratori. Ai gruppi sindacali in azienda, da soli o unitariamente considerati, non si richiede più solo di confrontare con la totalità dei dipendenti i modi di svolgimento di compiti sindacali, concepiti pur sempre come esclusivamente propri, ma di riaffermare la propria funzione egemonica nei riguardi di strutture organizzate in modo autonomo e potenzialmente alternativo [5]
. Un simile programma, che
{p. 100}già propone all’istituto un compito di estrema difficoltà (anche a prescindere dal suo precario stato di sviluppo), diventa progressivamente più difficile nella misura in cui le figure in questione vanno estendendosi e tendono ad assumere poteri decisionali rispetto alle principali materie di azione sindacale; poteri che si impongono di fatto all’iniziativa del sindacato, e che questo si mostra incline a riconoscere, per ragioni comprensibili, prima di volta in volta, poi sempre più regolarmente [6]
.
A questo punto appare evidente che viene messa in crisi e sottoposta a verifica la stessa concezione base della rappresentanza sindacale come gruppo associativo, e quindi della sezione, che dell’idea associativa costituisce la espressione più matura e insieme più fragile. Mentre a {p. 101}tale idea non sono estranei (o, se si vuole, sono normali, ma non necessari) i confronti delle tesi elaborate dal gruppo con la generalità dei lavoratori e la partecipazione di questi alla lotta, lo stesso principio rischia di svuotarsi, o quanto meno di modificarsi drasticamente, allorché il superamento dei limiti del gruppo si estende — con il consenso del sindacato — alle attività decisorie essenziali e si esprime in diverse forme organizzate, sia pure elementari [7]
. Al sindacato si propone inevitabilmente il problema di decidere se e quale senso abbia mantenere ancora in vita una propria struttura associativa aziendale privata delle funzioni sindacali (di recente acquisite), a favore di strutture non associative di cui si avvertono la vitalità e il potenziale dinamismo democratico. Il problema diventa ancora più pressante con il progressivo affermarsi dei delegati, che per il loro carattere rappresentativo, sia pure informale e revocabile, si presentano come modello di struttura organizzata alternativa alla sezione ben più consistente della indifferenziata forma assembleare e più facilmente utilizzabile dei vari gruppi palesemente anti o extra-sindacali.
È così che alla fine dello svolgimento della ricerca la linea programmatica sulla sezione sindacale, elaborata per {p. 102}oltre un decennio dai maggiori sindacati, sembra rimessa in discussione, proprio nel momento in cui il modello normativo dell’istituto ha finalmente superato le ambiguità più gravi che ne hanno accompagnato tutto lo sviluppo storico. Il dubbio che si propone è questa volta tanto più grave in quanto nasce da una critica non ai modi storici di attuazione del modello o alla scarsa coerenza con le premesse teoriche sulla concezione del sindacato, ma alla stessa validità della formula. In definitiva, per una simile coincidenza di eventi, il chiarimento teorico dell’istituto e il tentativo di radicarlo nella azione sindacale aziendale si maturano in un contesto storico che sembra volerlo rifiutare prima ancora di averne esperimentato l’efficacia. La singolarità di tale vicenda, peraltro solo apparente, e del resto comune ad altri aspetti della nostra recente esperienza sindacale, potrà arricchirsi di utili elementi interpretativi dall’analisi di seguito esposta.

2. Ritardata formazione storica delle SAS e precarietà del loro assetto istituzionale.

Secondo le indicazioni metodologiche esposte all’inizio, l’indagine empirica sulle sezioni sindacali prescelte prenderà come punto di riferimento i tratti fondamentali emersi dal modello normativo dell’istituto, verificandone la consistenza e integrandone l’esame alla stregua della prassi associativa. Elementi cruciali della verifica saranno dunque le linee programmatiche sulla sezione sindacale come centro associativo autonomo interno all’azienda, sulla sua identità organizzativa e funzionale, sulle modalità di svolgimento delle sue funzioni nei rapporti coi soci, con le strutture sindacali superiori, nonché con le nuove forme organizzative della generalità dei lavoratori. Dai risultati di questo confronto si cercherà, infine, di desumere qualche conclusione e qualche linea interpretativa in ordine a tali nuove forme organizzative e alle prospettive di sviluppo della presenza sindacale in azienda.
Una indicazione pregiudiziale emersa in modo costante {p. 103}dall’indagine riguarda la consistenza e la durata storica delle sezioni sindacali analizzate. Nonostante queste siano state prescelte in zone e in aziende provviste di tradizioni sindacali fra le più antiche in Italia (ci si riferisce qui in particolare a Milano e a Brescia), molto di rado si è trovata traccia di una loro presenza organizzata sufficientemente continua. A parte la scarsa precisione sovente verificata nelle dichiarazioni degli intervistati [8]
, che già conferma una sommaria percezione del problema, una simile traccia si è riscontrata in non più di 6 aziende di grandi dimensioni (situate nelle due province indicate), del tutto singolari per la loro importanza non solo economica, ma politica nell’intera zona e, proprio per questo, fatte oggetto da tempo di un’attenzione particolare dai sindacati locali di categoria. Per tale importanza esse presentano di solito al loro interno una tradizione di vita collettiva organizzata, sia sindacale sia politico-partitica, di continuità altrettanto eccezionale, in larga misura precedente o autonoma rispetto alla esistenza dei medesimi sindacati provinciali. Sono queste fra le aziende più rilevanti in cui si riforma{p. 104}no i primi centri organizzati di attività sindacale alla fine della seconda guerra mondiale, quasi sempre legati e in parte identificati con gruppi politico-partitici (nel caso della FIM, di prevalente derivazione cattolica) [9]
. Già una simile connotazione caratterizza le prime organizzazioni sindacali d’azienda come gruppi provvisti di un elevato grado di compattezza e di identità ideologica. A ciò si aggiunga che nella maggior parte dei casi tale compattezza è ulteriormente accresciuta dall’ambiente altamente conflittuale creato dalla contrapposizione di questi gruppi con la forte presenza organizzata della CGIL e delle organizzazioni social-comuniste. L’importanza e la fecondità di queste sezioni è tale che da alcune di esse viene addirittura un contributo decisivo alla formazione dei quadri sindacali provinciali e alla conduzione degli organismi direttivi provinciali, specie all’inizio della loro vita come organi di un autonomo sindacato di categoria. Il che assume tanto maggiore significato, in quanto le aziende in parola non rappresentano una parte di per sé preponderante dell’assetto industriale delle province in questione (Milano e Brescia) né dei lavoratori sindacalizzati (cfr. tabelle n. 1a e 1b in appendice) e ripetono quindi palesemente la propria influenza sindacale più dalla consistenza delle loro organizzazioni interne che dal mero fatto dimensionale. Nei casi indicati, che rappresentano quasi sicuramente la totalità di quelli esistenti nelle province esaminate, la durata storica dell’organizzazione sindacale in azienda appare — ed è percepita dagli interessati — come un dato ininterrotto,
{p. 105}rivelandosi di per se stessa una prova non comune della consistenza organizzativa del gruppo. Tale continuità si dimostra persistente fino alle vicende più recenti, ove le organizzazioni sindacali delle aziende in questione si presentano quasi sempre fra le più attive e anticipatrici. Si tratta peraltro, anche in questo caso, di una percezione di continuità alquanto sommaria, affidata per lo più al ricordo di singoli, ma apparentemente di scarsa influenza sul presente dell’organizzazione, toccata qui come altrove da un altissimo grado di ricambio generazionale [10]
.
Note
[5] In queste strutture, nonostante il loro carattere elementare e di occasionalità, si esprime il conflitto potenzialmente sempre presente fra collettività generale dei lavoratori, a livello aziendale o infraaziendale, e organizzazione sindacale. Il conflitto ha evidentemente fondamenti e manifestazioni più complesse del profilo qui accennato. In particolare non si pone solo fra forme organizzative della generalità dei lavoratori e strutture associative sindacali, ma anche fra forme di autogoverno operaio nell’azienda e sindacato, come organizzazione di lavoratori estesa oltre il confine della singola azienda. I termini di riferimento dell’antitesi sono peraltro sovente corrispondenti nei due casi, in quanto le forme organizzative aziendali tendono tipicamente a comprendere tutti i lavoratori (trovando il loro fattore unificante nell’appartenenza di questi alla stessa unità produttiva, piuttosto che nel legame associativo) e quelle extra-aziendali tendono viceversa a fondarsi su una più stretta coesione di gruppo. La sperimentazione di figure organizzative autonome della collettività aziendale (o di reparto) è dunque ben lungi dal chiudere, anzi lascia aperta in termini maggiormente problematici, la questione del loro collegamento con la organizzazione sindacale esterna. Sull’argomento vedi, fin d’ora, utili cenni in Romagnoli, Sviluppi recenti della contrattazione aziendale: i delegati, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», cit., pp. 616 sgg., il quale osserva giustamente come il costituirsi di queste nuove strutture organizzative riproponga con diverso valore storico la nota questione della pluralità degli strumenti di autotutela costituzionalmente garantiti per la difesa degli interessi dei lavoratori.
[6] Tale riconoscimento da parte del sindacato, che si esprime in un avallo ex post delle delibere di queste assemblee, o addirittura subordinando ad esse l’operatività di certe decisioni proprie, specie in materia contrattuale, emerge già nella più significativa contrattazione aziendale del 1968, per diffondersi poi più generalmente nel 1969, fino a quella nazionale (vedi anche più avanti al n. 6). Ma si tratta ancora, nel periodo della presente ricerca, di comportamenti sindacali di fatto, o anche di delibere formali, devianti dalle regole codificate negli statuti e in genere nella stessa legalità propria del gruppo e quindi insufficienti, per le ragioni già dette nel cap. I, a rendere le decisioni assembleari vincolanti come tali per l’ordinamento sindacale. Una simile condizione di extra-legalità andrà peraltro modificandosi rapidamente nei mesi seguenti, con l’evolversi di una sempre più chiara tendenza del sindacato a riconoscere anche formalmente tali forme (e poi i delegati) come proprie strutture di base (vedi in fine). Cenni di questa tendenza si avvertono già nella conferenza nazionale sulla democrazia sindacale di Sesto S. Giovanni, ove, pur attribuendosi priorità politica alla «decisione sovrana degli iscritti al sindacato» (cioè alle sezioni) nella contrattazione, si sottolinea la necessità di una «partecipazione reale e non solo consultiva» (come in passato) di tutti i lavoratori alla formazione degli obiettivi rivendicativi e alla definizione delle forme di lotta, che. si esprima nella proposizione di «scelte vincolanti» per gli organismi dirigenti del sindacato (vedi il documento citato, n. 1, 5, pp. 10-11).
[7] Una valutazione definitiva sulla natura giuridica di queste figure organizzative non è ancora possibile, data la ambiguità sia del loro assetto normativo, sia, ancora più, della loro iniziale esperienza operativa. Quanto all’assemblea, si può dire, fin d’ora, in negativo, che essa si pone come forma organizzativa elementare non solo originariamente esterna al sindacato e distinta dall’assemblea quale organo decisorio dell’associazione, ma altresì difficilmente inquadrabile negli schemi associativi noti al diritto statale. Basti menzionare, come prova di ciò, la rudimentalità o talora la totale assenza di una sua organizzazione interna, il suo carattere generalmente provvisorio e fluttuante (con la normale non identificazione dei partecipanti), lo scarsissimo o inesistente formalismo adottato per il suo funzionamento, la carenza di una disciplina minimamente costante nel tempo e quindi di prevedibilità nella sua azione. Sono tutti aspetti radicalmente diversi dai tratti essenziali della figura legale dell’associazione (riconosciuta o non), per cui si richiedono appunto una organizzazione, sia pure embrionale, unitariamente rilevante verso l’esterno, un vincolo giuridico contrattuale almeno tendenzialmente stabile fra soggetti individuati (entrambi dati che richiedono un certo grado di formalismo), nonché la presenza di un patrimonio autonomo. Per ulteriori indicazioni, cfr. il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 208 sgg.; e, circa i delegati, in fine al presente saggio.
[8] Pur essendo fra di essi sempre compresi soggetti con alta anzianità aziendale e sindacale, queste dichiarazioni presentano molte lacune e in qualche caso contraddizioni così gravi da renderle scarsamente attendibili. Tali imprecisioni non sono d’altra parte di solito correggibili con fonti di informazioni più sicure, ad esempio, di carattere documentale, data la quasi totale mancanza di «memoria scritta» risalente nel tempo, caratteristica di questi organismi (e degli stessi sindacati provinciali). Esse si ricollegano, e in parte si spiegano, col fatto che la percezione della continuità storica rimane, nella generalità dei casi, a livello individuale e non trova riscontro alcuno nella prassi delle strutture organizzative (vedi oltre nel testo). È infine comune che queste strutture presentino nel tempo andamenti irregolari, alternando periodi di relativo sviluppo a momenti di stasi o di quasi paralisi: il che ne rende ancora più precaria la continuità istituzionale. I casi più tipici riguardano, ad esempio, sezioni sindacali (almeno 7), la cui prima costituzione viene fatta risalire agli anni 1960-61, ma che in seguito sono pressoché scomparse come forme organizzate, per riemergere come tali solo negli ultimi tre-quattro anni. Un segno della particolare vitalità storica delle organizzazioni sindacali delle aziende sopra menzionate si può trovare nella stampa periodica nazionale, specie in «Ragguaglio metallurgico», che negli anni ’50 dedica di tanto in tanto cronache specifiche alla loro attività. I nomi che ricorrono più di frequente, per le provincie in esame, sono quelli dei gruppi o sezioni aziendali dell’Innocenti, Borletti, Alfa-Romeo, Face, M. Marelli, Redaelli, F. Tosi, OM (di Brescia).
[9] Paradigmatici al riguardo sono a Milano i casi dell’Alfa Romeo, dell’Innocenti e, in misura minore, della Borletti, caratterizzati allora da una situazione di intensa sindacalizzazione (fino al 95% degli operai all’Innocenti), da ampi poteri delle prime organizzazioni rappresentative (Commissioni interne e consigli di gestione). Particolarmente intensa è la vita organizzata sindacale in questo periodo in 2-3 aziende di Brescia (ad esempio, la Glisenti). Più tarda e difficile è la penetrazione della CISL nelle grandi aziende di Sesto S. Giovanni, caratterizzate fino dall’inizio da una fortissima prevalenza della CGIL (le prime a riscontrare una consistente presenza della FIM sono la Magneti e la Ercole Marelli, ma quest’ultima già alla fine degli anni ’50). Di formazione generalmente più recente (pure verso la fine degli anni ’50) è l’organizzazione della FIM, come la stessa industrializzazione, in provincia di Treviso.
[10] È significativo come fra gli attuali quadri dirigenti delle sezioni sindacali considerate nessuno ricoprisse posizioni di rilievo in periodo antecedente all’inizio degli anni ’60, e come quelli allora preminenti siano largamente emarginati. Una anzianità più consistente si riscontra in alcuni membri di commissione interna; si tratta peraltro di pochi casi (5-6), menzionati come del tutto anormali, e soggetti a continua riduzione negli ultimi anni. Sull’età media degli attivisti di sezione in provincia di Milano, vedi i dati forniti dalla relazione su La politica organizzativa, al VI Congresso provinciale della FIM milanese, n. 7, p. 19: su 383 attivisti considerati, appartenenti a 83 aziende oltre i 400 dipendenti ove la FIM è presente, 129 hanno meno di 25 anni, e 164 sono fra i 25 e i 35 anni. Analoghe proposizioni di ricambio sono del resto verificabili in media a livello di quadri dirigenti provinciali, secondo una tendenza già ricordata, che caratterizza queste strutture come particolarmente giovani o di «memoria corta».