Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c3
Nella generalità dei casi dunque
l’assetto fondamentale delle sezioni sindacali risulta definito secondo uno schema
alquanto sommario e standardizzato, riprodotto di massima per rinvio alla disciplina
tipo prevista a livello nazionale. Ciò vale sia per l’aspetto funzionale, per cui manca
di solito qualsiasi specificazione circa l’esercizio dei poteri attribuiti alle sezioni
sindacali, sia per le strutture organizzative, che non presentano in genere
particolarità di rilievo, conformandosi alle forme più comuni nella esperienza
associativa. Così è, ad esempio, degli organi associativi (che sono tre, come di
consueto: l’assemblea, il direttivo, il segretario)
[17]
, delle modalità del loro funzionamento, delle rispettive competenze per la
conduzione dell’azione sindacale in azienda, del procedimento per la loro formazione
(sia il segretario che il direttivo devono essere eletti ogni anno, a scrutinio segreto,
rispettivamente dal direttivo al suo interno, e dall’assemblea in numero proporzionale
agli iscritti)
[18]
. Su una simile caratteristica generale non sembrano influire in modo
rilevante né la dimensione del gruppo né la sua consistenza storica e organizzativa, in
quanto essa è verificabile in misura pressoché identica in tutte le ipotesi esaminate,
dalle sezioni più piccole (con poche decine di iscritti) e di recente costituzione, a
quelle provviste di ragguardevole tradizione e comprendenti diverse centinaia di soci.
Appunto per tale caratteristica, i gruppi in esame rientrano tutti fra i casi
paradigmatici in cui il momento normativo assume rilievo marcatamente ridotto nello
svolgimento dell’attività esterna ed interna del gruppo. Così questa riveste non solo
uno scarsissimo grado di formalismo, ma spesso si sottrae a qualsiasi regola
predeterminata, assumente caratteri di sostanziale
¶{p. 110}imprevedibilità. Tanto più che anche i pochi tratti di
disciplina esistente sono, come si vedrà, alquanto precari, per la mutevolezza che li
contraddistingue e soprattutto per la parzialità ed elasticità della loro applicazione.
3. Poteri delle SAS nei riguardi dei soci e inesistenza di autonomia patrimoniale.
Se le due caratteristiche finora
menzionate non possono ritenersi univoche per negare alle sezioni sindacali la natura di
associazioni autonome, dato che questa può ben ammettersi, specie nell’ambito in esame,
anche a prescindere dalla continuità storica e dalla compiutezza della disciplina
formale del gruppo, certo rivelano la mancanza di indici fra i più evidenti e comuni nei
gruppi organizzati autonomi. Anzi, secondo la configurazione tipica di simili gruppi,
quale comunemente riconosciuta e che qui si può presupporre
[19]
, esse sono anomale, soprattutto se confrontate con la consistenza
quantitativa di molte delle sezioni considerate (vedi tabelle n. 1a e 1b in appendice).
Non diversa anomalia si può
individuare analizzando la prassi delle stesse sezioni riguardo all’esercizio di alcuni
poteri di solito considerati, nella valutazione giuridica, fra le manifestazioni tipiche
e più appariscenti dell’esistenza di un gruppo associativo autonomo. Anche se, va detto
subito, a questo rilievo giuridico non fa di solito riscontro un analogo peso politico.
È del resto significativo, come la disciplina statutaria sindacale degli stessi livelli
superiori (nazionale e provinciale), sia più carente che mai per tale aspetto,
tradizionalmente fatto oggetto di attenzione del tutto sommaria e apparentemente poco
toccato dal ¶{p. 111}dibattito storico sulla funzione dell’istituto
[20]
. A parte lo stesso potere di autoregolamentazione statutaria, di cui si è
appena detto, l’unico cenno a poteri associativi specifici delle sezioni aziendali
riguarda l’ammissione dei soci, per cui si ammette nello statuto nazionale della FIM la
competenza a decidere del direttivo della SAS, con facoltà peraltro di controllo da
parte del comitato direttivo provinciale e di ricorso allo stesso da parte del socio non
ammesso (art. 4). Di contro, il potere decisorio in materia disciplinare è
esplicitamente riservato alle organizzazioni territoriali nazionali e provinciali cui
appartiene l’associato (art. 24). A livello di prassi associativa le rilevazioni
effettuate indicano ancor più chiaramente che nessuno di questi poteri è verificabile
all’interno del gruppo aziendale o in capo ai suoi organi. Nelle ipotesi (relativamente
scarse) riscontrate di procedimenti disciplinari o relativi all’ammissione di soci
(specie al rifiuto di ammissione, in casi del tutto singolari)
[21]
è pressoché unanime la tendenza a deferire la decisione agli organi
competenti del sindacato provinciale, anche se questa si attua quasi sempre sulla base
di indicazioni fornite dal gruppo aziendale interessato e in sostanziale accordo con lo
stesso. La esclusiva competenza del sindacato provinciale nelle stesse materie (specie
in quella disciplinare) è anzi sovente affermata dagli intervistati come un dato del
tutto acquisito
[22]
.¶{p. 112}
Si tratta anche in queste ipotesi di
indici di per sé non assoluti per la qualificazione delle sezioni sindacali sotto il
profilo strettamente giuridico. Il rilievo vale sia per il mancato esercizio di questi
poteri, che non è mai sufficiente per concludere che il gruppo non ne sia titolare, sia
(con qualche maggior difficoltà di giustificazione) per la previsione normativa
statutaria che li riserva alle organizzazioni superiori. In ambedue i casi, infatti, la
situazione potrebbe spiegarsi con la ridotta dimensione e con l’origine recente delle
sezioni, e quindi con la scarsa complessità della vita associativa, per cui sarebbe
plausibile configurare l’iniziativa dei gruppi superiori come un intervento di supplenza
fondato su una delega ricevuta dagli stessi gruppi aziendali
[23]
. Soprattutto il peso di tali indici può essere di scarso rilievo sul piano
di fatto. L’esercizio di tali poteri, infatti, può non essere verificabile di frequente
nelle associazioni sindacali, come nel caso di quello disciplinare, oppure non
esprimersi attraverso procedure particolari, come nel caso dell’ammissione dei soci,
ridotta di solito a un atto automatico. La sua rilevazione in concreto può quindi essere
difficile e inversamente la sua assenza poco significativa, specie in gruppi di modeste
dimensioni. Appare chiaro, tuttavia, che il mancato esercizio in proprio di questi
poteri, nei casi cui esso si palesa necessario, contribuisce ad avvalorare
¶{p. 113}i dubbi sulla effettiva consistenza della vita associativa
delle sezioni sindacali.
Tali dubbi si accrescono
considerando l’esclusione statutaria di ogni potere del gruppo aziendale in materia
disciplinare, che, comunque la si voglia giustificare, appare difficilmente conciliabile
con quel minimo di iniziativa autonoma (in questo caso, nel sanzionare i soci
inadempienti), necessaria ad ogni associazione per lo svolgimento delle sue attività tipiche
[24]
. Né per superare questa obiezione, che attiene alla stessa funzionalità
operativa del gruppo, basta ricorrere alla spiegazione di una delega di questo agli
organismi superiori; spiegazione che diventa poi tanto meno credibile e in sostanza
fittizia quando la si voglia riferire anche a gruppi aziendali quantitativamente
ragguardevoli, come spesso quelli in esame.
Le stesse indicazioni si possono
trarre considerando l’aspetto finanziario delle sezioni aziendali, pure palesemente
fondamentale per ritenere l’esistenza di un gruppo associativo autonomo. Nelle
fattispecie esaminate la disciplina sindacale prevede in modo chiaro la possibilità di
un’autonomia patrimoniale delle sezioni, attribuendo loro il potere di gestire in
proprio una quota (addizionale o straordinaria) dei contributi associativi e
riconoscendo addirittura all’assemblea aziendale dei soci la competenza a stabilirla,
sia pure richiedendo la ratifica della delibera da parte degli organi provinciali (art.
54 del regolamento d’attuazione dello statuto nazionale)
[25]
. Fra le province ¶{p. 114}in questione una simile previsione
generale risulta peraltro tradotta in delibere locali solamente a Milano, nel quadro di
un più ampio programma di decentramento organizzativo. In base ad esso si propone di
attribuire (alla fine del 1968) alle strutture decentrate (zone e sezioni) una quota di
contributi di lire 400 per iscritto, da gestirsi direttamente dalle sezioni, nel caso
che abbiano più di 500 iscritti (12 in tutta la provincia nel 1968, di cui 8 comprese
nel campione considerato)
[26]
. Sul piano di fatto una gestione dei fondi a livello aziendale, già di per
sé resa precaria per la misura ridotta del contributo, si riscontra attuata in un numero
ancora più limitato di sezioni (non più di 3-4), mentre nella generalità degli altri
casi essa resta concentrata a livello di zona (a Milano) o nello stesso sindacato
provinciale (così a Brescia e Treviso). Ciò si rende d’altra parte pressoché
inevitabile, anche nelle sezioni aziendali quantitativamente più rilevanti, per
l’evidente sproporzione comunque esistente fra l’ammontare totale dei contributi
destinati e il minimo necessario per la vita di un gruppo autonomo.
In seguito a una simile situazione
viene a mancare nella grandissima maggioranza di ipotesi qualsiasi imputazione
preventiva, o comunque fissa, di spese o di entrate alle diverse sezioni, cosicché non è
possibile verificare in concreto un’effettiva distinzione di patrimoni. Negli stessi
casi, infine, è difficile accertare anche solo l’esistenza di un potere dei gruppi
interessati di disporre di una parte definita, o comunque garantita in modo sicuro, del
fondo comune, che sarebbe segno sufficiente di autonomia patrimoniale
[27]
, in quanto quasi tutte le iniziative esterne
¶{p. 115}sindacali che possono richiedere impegni patrimoniali sono
direttamente assunte dagli organi delle associazioni superiori. In sostanza, la
partecipazione dei gruppi aziendali all’attività finanziaria è tale da non offrire alcun
indice sicuro di individualità associativa, ma da fornire piuttosto prove in senso
contrario. Essa rispecchia la persistenza del tradizionale stato di totale dipendenza
dell’istituto dalle organizzazioni territoriali: il che costituisce, per evidenti
ragioni, un primo pesante condizionamento rispetto alle sue prospettive di autonomia
funzionale e politica.
Note
[17] Le varianti più significative riguardano talora la presenza di un esecutivo intermedio fra il direttivo e la segreteria (così, ad esempio, all’Alfa Romeo, alla Ercole Marelli), il carattere collegiale della segreteria (così nelle aziende di Treviso e Pordenone).
[18] Così gli artt. 51 e 49 del regolamento di attuazione dello statuto nazionale, peraltro largamente disattesi non solo di fatto, come si vedrà, ma dalla stessa disciplina inferiore (il termine di durata in carica del direttivo è ad esempio allungato a 2 anni da regolamento della FIM di Brescia, art. 1; e da quello della sezione dell’Alfa Romeo, art. 10).
[19] Per un approfondimento di questi punti vedi il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 142 sgg. e 195. Particolarmente anomala sotto tale profilo è la norma sopra ricordata (art. 53 dello statuto nazionale) che attribuisce al direttivo provinciale la competenza di definire le modalità di costituzione e i compiti della sezione.
[20] Il rilievo vale in misura uguale, e talora maggiore, per la generalità dei sindacati italiani, che spesso mostrano anzi di ignorare del tutto la sezione sindacale nella normativa delle materie indicate: vedi indicazioni nel mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 147 sgg., 190 sg. (ove anche un’analisi interpretativa di tale disciplina).
[21] Casi di sanzioni disciplinari erogate ai soci negli ultimi anni sono ricordati dagli intervistati (di solito in modo alquanto vago), in non più di 1/3 delle aziende considerate (si tratta sempre di casi di espulsione per dissensi politici o sull’azione sindacale da svolgere). Le uniche questioni in materia di ammissione di soci riguardano poche ipotesi (non più di tre) di soggetti precedentemente espulsi dall’associazione o attivi in altri sindacati. La fattispecie di lavoratori che abbiano in passato ricoperto cariche in altre organizzazioni è prevista esplicitamente dallo statuto nazionale della FIM, all’art. 24, ult. co., che riserva la competenza per l’ammissione al comitato direttivo provinciale.
[22] Tale situazione non viene peraltro giudicata problematica, né limitativa dell’autonomia del gruppo, dalla generalità degli intervistati, sia per la scarsa importanza attribuita alla materia, sia per il fatto che essa non sembra aver mai dato origine a divergenze di giudizio o tantomeno a conflitti. Un consistente rilievo politico di questa materia si registra solo in alcune ipotesi in cui il potere disciplinare è usato nei confronti di dirigenti sindacali (qui di solito membri di CI: vedi nota 40).
[23] Come si è più diffusamente sostenuto altrove (L’organizzazione sindacale,. I, cit., pp. 139 sgg.) l’elemento decisivo per qualificare la natura, di un gruppo minore, va ricercato non nel profilo quantitativo di poteri da esso esercitati, ma nel fondamento da cui questi traggono origine. Nel caso di gruppi associativi, tale fondamento deve potersi ricondurre alla loro stessa autonomia contrattuale (e non a una derisione unilaterale dell’associazione superiore). Niente vieta in principio che il raggruppamento minore deleghi per decisione propria alcuni dei suoi poteri a organismi superiori (con il limite indicato alla nota seguente). Che si tratti di delega di poteri propri e non di mancanza di titolarità degli stessi va poi accertato di volta in volta, basandosi su indici di fatto (non sempre, invero, di significato facilmente accertabile).
[24] Nell’ipotesi in questione tale rilievo acquista un peso particolare, data la evidente importanza cruciale del potere disciplinare nella vita di qualsiasi gruppo organizzato. Ma esso può usarsi come indice generale di valutazione in molti altri casi di distribuzione di poteri giuridici fra i vari gradi di organizzazioni complesse. I poteri di intervento o di sostituzione delle associazioni più ampie sui gruppi minori possono essere compatibili con la natura associativa di questi solo nel limite, sopra indicato, che non li privino dei poteri indispensabili al loro funzionamento. Vedi, più avanti (nota 27), un’applicazione dello stesso principio con riguardo alla posizione patrimoniale dei gruppi aziendali.
[25] A una autonomia di gestione dell’istituto sembra alludere esplicitamente lo statuto provinciale della FIM di Brescia, laddove ribadisce che le sue strutture (fra cui la sezione) «hanno ciascuna una sua amministrazione distinta» (art. 22), escludendo inoltre qualsiasi assunzione di responsabilità della federazione nei confronti delle stesse SAS (art. 21). Dal medesimo statuto si prevede anche per la federazione provinciale la possibilità, peraltro inattuata come in genere queste norme, di concordare con «le singole SAS altre quote contributive per la costituzione di fondi di resistenza aziendale» (art. 18).
[26] Per altri dati su questo decentramento finanziario, vedi la relazione organizzativa al VI Congresso della FIM milanese (gennaio 1969), cit., pp. 19 sg.
[27] Che questo sia il requisito minimo sufficiente, ma anche necessario, per affermare l’autonomia associativa di ogni gruppo, si intende facilmente se si considera — con l’opinione prevalente — che il patrimonio è posto dal nostro ordinamento come requisito essenziale delle associazioni non riconosciute, in quanto strumentale alla loro vitalità e alla capacità di perseguire i loro fini. In tale prospettiva non è richiesto che il gruppo abbia un fondo proprio (cioè in proprietà), potendo beneficiare anche di fondi altrui, purché però la disponibilità di tali mezzi, per i suoi caratteri di stabilità, di non revocabilità, e in genere per le modalità concrete del suo esplicarsi, sia garantita al gruppo in modo certo, oltre che quantitativamente sufficiente. Ma la conclusione non sarebbe probabilmente diversa, ove si ritenesse che il fondo comune è richiesto nelle associazioni non riconosciute come garanzia dei creditori sociali. Nel caso in esame, la disponibilità di cui si è fatto cenno non è esclusa in principio, potendosi ritenere che i sindacati provinciali siano comunque vincolati con le norme sopra menzionate a garantire ai gruppi aziendali il minimo indispensabile al loro funzionamento. Ma la totale confusione dei patrimoni e la esclusiva iniziativa delle associazioni territoriali in materia patrimoniale rendono precaria tale affermazione e comunque la privano di concreto valore qualificatorio. Per maggiori ragguagli sul problema e per una verifica del suo significato pratico in relazione a diverse strutture sindacali, in particolare ai sindacati divisi in «settori», vedi il mio L’organizzazione sindacale, I, cit., pp. 105 sgg., 173 sgg.