Tiziano Treu
Sindacato e rappresentanze aziendali
DOI: 10.1401/9788815412324/c3
Le manifestazioni di tale debolezza, già in parte implicite nella scarsa vitalità associativa dei gruppi aziendali, risultano chiaramente considerando la parte da questi svolta nelle più importanti funzioni sindacali in azienda. Così è anzitutto per l’attività contrattuale nelle sue varie fasi e per la connessa azione di lotta. Nessun ruolo sostanziale è svolto dalle sezioni né dai loro direttivi nella conduzione delle trattative con la controparte e nella conclusione degli accordi, che restano affidate, secondo il modello tradizionale, ai rappresentanti dei sindacati provinciali nella maggioranza dei casi, specie nelle controversie di maggiore rilievo, e alla CI ancora in misura cospicua, oltre che, in ogni caso, per le questioni più circoscritte o riguardanti l’applicazione dei contratti già stipulati. Anche quando i membri del direttivo partecipano alle trattative, ciò non avviene nella posizione di rappresentanti della sezione e con un titolo privilegiato, ma a titolo personale, come parte di una più ampia delegazione di lavoratori dell’azienda o, più raramente, in qualità di delegati del sindacato provinciale [55]
. In nessuna delle aziende considerate si registrano
{p. 135}del resto seri tentativi di modificare tale posizione delle sezioni, né nei rapporti interni, cioè riguardo alle organizzazioni territoriali e agli stessi lavoratori, né nei confronti della controparte [56]
. Il rilievo primario di una simile situazione non sta evidentemente nel mancato ottenimento da {p. 136}parte dei gruppi aziendali della qualità formale di agenti contrattuali, che di per sé può presentare un significato ridotto e non costituire neppure un obiettivo essenziale di rivendicazione. Essa è piuttosto un segno indicativo dell’incapacità dell’istituto di porsi non solo come interlocutore dell’azienda, ma anche come tramite istituzionale fra questa e la generalità dei lavoratori, nonché fra gli stessi e le organizzazioni sindacali esterne.
Tale incapacità trova conferma pure nelle fasi dell’elaborazione contrattuale e della programmazione delle lotte dirette a sostenere gli obiettivi proposti, che si svolgono ormai tipicamente a diretto confronto con i lavoratori organizzati in assemblea. La dinamica di queste assemblee è difficile da definire con precisione, data la già rilevata varietà delle loro configurazioni anche all’interno della medesima azienda, la complessità e insieme lo scarsissimo formalismo adottato per il loro funzionamento. Tuttavia nella maggior parte dei casi non sono certo i gruppi direttivi aziendali ad assumere come tali la direzione o anche solo ad agire in modo decisivo nella loro conduzione e quindi nell’indirizzo delle rivendicazioni e delle lotte quivi decise. Quando l’iniziativa al riguardo non è presa chiaramente da gruppi extra-sindacali, in ipotesi peraltro minoritarie (vedi nota 48), essa spetta a gruppi del tutto informali, creatisi nel corso stesso degli avvenimenti, pure non strettamente limitati dalle diverse affiliazioni sindacali (così, ad esempio, in molte assemblee di impiegati, quasi sempre non sindacalizzati o di recente sindacalizzazione); oppure, più di frequente, ancora ai membri di CI o ai rappresentanti sindacali provinciali. Questo punto va messo in particolare risalto per ribadire come la scarsa incidenza del gruppo direttivo sindacale nella azione rivendicativa in azienda non si limiti all’aspetto formale, ma si manifesti altresì nella sua direzione politica. Pure a tale proposito risulta significativo il confronto con il tipo di presenza realizzato nello stesso contesto dalla CI e dai suoi componenti. Anche nelle ipotesi e nei momenti in cui l’istituto è più chiaramente emarginato di fronte ai nuovi modi di condurre l’azione, i singoli commissari {p. 137}mantengono per lo più una larga capacità di intervento e di influenza, esercitando individualmente quel ruolo direttivo contestato nei confronti dell’organismo come tale. Una simile possibilità appare invece quasi preclusa ai componenti del direttivo, che emergono nella conduzione dell’attività o nelle assemblee solo ove si impongano per particolari doti personali, o fruiscano del prestigio loro derivante dal cumulare (o aver cumulato) anche la carica di commissario interno. Quasi mai la loro presenza sembra potersi avvantaggiare e ricondurre direttamente al ruolo ricoperto nel gruppo aziendale. Né avrebbe potuto essere diversamente, data la scarsa consistenza di questo ruolo, sia in assoluto, per le limitate funzioni ad esso storicamente attribuite, sia nella sua percezione da parte dei lavoratori.
L’attività dei gruppi direttivi aziendali in questa fase sembra esprimersi soprattutto nella raccolta, nella selezione e nel coordinamento delle proposte contrattuali emergenti dalla realtà aziendale prima delle trattative e del dibattito assembleare [57]
. L’importanza di una simile funzione non è da sottovalutare, soprattutto in presenza di un’intensa azione contrattuale, come nei periodi in esame. Anzi in essa sta forse l’intervento più significativo realizzato dalla maggioranza dei gruppi in questione nella politica sindacale aziendale. Ma il contesto generale in cui si svolge ne segna i limiti ben precisi.
Anzitutto un simile compito è in parte assorbito dalle stesse assemblee, che, specialmente quando si articolano a livello di gruppo o di reparto, fungono non solo come luogo di decisione, ma prima ancora di naturale convergenza e di dibattito delle varie richieste contrattuali, sostituendosi così anche in questo alle strutture associative. Inoltre l’azione delle sezioni è pregiudicata pure qui dalla tradizionale iniziativa delle CI e poi dalla nascente figura {p. 138}dei delegati. La funzionalità di queste figure come canali di comunicazione delle istanze contrattuali è rafforzata di fronte ai lavoratori, compresi gli iscritti, dal preciso ruolo contrattuale che esse esercitano, la differenza delle sezioni, nei riguardi della controparte. Al contrario, una mera attività di dibattito e di elaborazione contrattuale senza nessun riconoscimento esterno, quale è svolta da queste ultime, è poco produttiva per valorizzarne l’identità nei confronti dei lavoratori interessati. Il suo svolgimento avviene all’interno del gruppo con modalità non avvertibili dalla generalità dei lavoratori, anche per la chiusura di questo, e la presentazione dei risultati non appare imputabile alla sezione come tale, ma alle stesse figure tradizionali sopra indicate, o tutt’al più ancora una volta a singoli componenti del gruppo provvisti di prestigio personale, di solito per le cariche che rivestono nella CI o nel sindacato provinciale [58]
. Infine la tradizionale assenza del direttivo aziendale nella gestione dei risultati contrattuali, unita agli altri fattori di debolezza già ricordati, riduce largamente il valore politico della elaborazione contrattuale svolta dentro il gruppo ristretto e la sua capacità di influsso sulle decisioni finali, accentuandone invece l’aspetto strumentale all’iniziativa altrui, proprio del tradizionale modello della SAS.{p. 139}
La situazione si presenta in termini simili anche nell’attività di applicazione dei contratti collettivi, aziendali e nazionali, nonostante qui la sezione sindacale abbia ottenuto, almeno parzialmente, una propria competenza istituzionale, secondo le tesi classiche della CISL. Tale competenza risulta in via indiretta dal potere, riconosciutole dai sindacati provinciali in questione, di nominare il rappresentante dei lavoratori nei comitati tecnici paritetici previsti dai contratti collettivi nazionali per la trattazione di controversie su cottimi e qualifiche. Nella quasi totalità dei casi la designazione del rappresentante dei lavoratori risulta attuata in effetti dalla sezione, peraltro non dai soci in via elettiva ma dallo stesso direttivo. Ma, a parte che neppure in questo caso la competenza in materia è riconosciuta all’esterno del gruppo aziendale, dato il carattere indiretto della designazione e la sua formale riconducibilità al sindacato provinciale, il valore dell’esperimento è vanificato in radice dal fallimento pressoché totale dei comitati paritetici. Essi nascono già nei contratti nazionali con competenze limitate al mero accertamento dei fatti e in una posizione ambigua, come grado intermedio fra l’istanza davanti alla CI, che resta sempre possibile, e la trattativa in sede sindacale territoriale, che anzi dagli imprenditori privati è ritenuta in ogni caso pregiudiziale al funzionamento dell’organo aziendale [59]
. Le possibilità di intervento di quest’ultimo si dimostrano così palesemente ridotte di fronte agli altri due livelli, che l’impiego dei comitati paritetici risulta subito poco rilevante nelle stesse aziende a partecipazione statale, le quali pure non oppongono rifiuti pregiudiziali alla sua autonoma convocabilità [60]
. Ne consegue che
{p. 140}anche tutta l’attività di composizione delle controversie sull’interpretazione e l’applicazione dei contratti rimane consolidata negli istituti e nelle forme tradizionali, salvo per certe materie il prospettarsi di un crescente intervento da parte delle nuove figure dei delegati.
Note
[55] La soluzione, relativamente nuova, di far partecipare delegazioni di lavoratori alle trattative aziendali risulta diffusa, durante il periodo dell’indagine, in una percentuale consistente delle aziende considerate (10 su 33). All’interno di tali delegazioni la presenza dei membri dei gruppi direttivi della SAS risulta prevalente sotto l’aspetto quantitativo, solo in 3-4 casi. Forse in una unica azienda (Alfa Romeo) può ritenersi che la posizione di tali gruppi acquisti, sia pure indirettamente, un rilievo particolare, per il fatto che essi presenziano alle trattative non solo in modo regolare, ma anche beneficiando di permessi convenuti con l’azienda (vedi nota 37). Ciò non implica peraltro ancora un loro riconoscimento come contraenti; e nella stessa documentazione formale dell’accordo i componenti del gruppo appaiono qualificati (e firmano) come delegati del sindacato provinciale (secondo il modello normativo già storicamente esaminato: vedi n. 6 del cap. II). Una vera e propria presenza delle SAS come agenti contrattuali sembra riscontrarsi, nelle provincie considerate, in un solo caso. Si tratta di un accordo, firmato da questi organismi nel 1969 con un’azienda milanese, non compresa nel campione qui considerato (vedi la nota La contrattazione aziendale nella metalmeccanica milanese: 1967-69, in «Note e informazioni del CRES», cit., p. 23). Il riconoscimento della SAS come soggetto contraente risulta del tutto eccezionale anche in altre zone e categorie: secondo i dati raccolti da Bianchi, Sindacati e impresa, cit., p. 38, si verificherebbe in soli 12 casi su 1167 contratti aziendali considerati nel 1968. Da notare infine come la posizione della CI pur in lento declino, dimostri anche su questo piano formale di essere tuttora largamente radicata. Secondo la nota del CRES sopra citata, relativa a Milano, per il 1967 essa è agente contrattuale nel 37,5% dei casi, per il 1968 nel 21,2%, per il 1969 nel 21,0%.
[56] Le giustificazioni addotte dagli intervistati per la mancanza di concrete iniziative in questo senso sono alquanto diversificate e spesso contrastanti (anche se prevedibili). Nella maggioranza delle ipotesi si rileva la resistenza pregiudiziale sempre opposta al riguardo dalle aziende (e ancora più dalle loro associazioni) e la difficoltà anche solo di iniziare una mobilitazione dei lavoratori su un simile obiettivo di principio. In un numero non trascurabile di casi, oltre a tale motivo si menzionano lo scarso appoggio e convinzione rivelati in proposito dagli stessi sindacati provinciali; o addirittura (ma da pochi soggetti) si accenna a una vera e propria resistenza da parte di questi. Da molti infine si tende a svalutare o a nullificare la portata del problema, specie ove si possa attuare un sostanziale controllo della SAS sulla CI. Cosicché l’obiettivo da raggiungere sarebbe solo quello di una maggiore autonomia degli organismi aziendali (quali che siano) rispetto al sindacato territoriale e una più larga partecipazione dei lavoratori alle loro decisioni. Ma di solito chi avanza questa opinione finisce poi per riconoscere una effettiva differenza fra i due istituti (SAS e CI) e il diverso significato, proprio sul piano della partecipazione, della loro configurazione strutturale.
[57] Una simile attività preparatoria alla contrattazione risulta svolta, con varia intensità, da quasi tutte le sezioni considerate (31 su 33) e viene di norma indicata come la più importante fra le iniziative esterne del gruppo (insieme all’attività di informazione dei lavoratori, peraltro con questa strettamente connessa). In alcune ipotesi (vedi oltre n. 9) essa giunge ad esprimersi in una vera e propria direzione politica della vicenda contrattuale.
[58] A ciò si aggiunga che solo in una minoranza dei casi (non più di 10) le organizzazioni sindacali in esame sembrano provviste di una rete di attivisti sindacali distribuita con sufficiente omogeneità in tutti i diversi reparti o uffici dell’unità produttiva. Non tutti tali attivisti fanno inoltre parte del gruppo direttivo o attendono regolarmente alle sue riunioni; né, più in generale, si può dire che il loro rapporto con questo sia in alcun modo privilegiato (solo nello schema di statuto della SAS della FIM di Treviso risulta ammessa la possibilità che una parte del direttivo sia eletta dagli iscritti dei vari reparti: art. 6). Anzi se come strumento di raccolta e di diffusione di informazioni essi sembrano servire indifferentemente sia l’organizzazione sindacale (esterna ed interna) sia la CI, quando si rendono portatori di richieste specifiche da parte dei lavoratori circa il loro rapporto di lavoro, fanno capo quasi esclusivamente a quest’ultima, per la stessa ragione sopra indicata che solo essa costituisce ed è percepita come l’unico interlocutore ufficiale provvisto di potere nei riguardi della controparte. L’importanza determinante di simile attività «vertenziale» della CI per rafforzarne la posizione presso la generalità dei lavoratori è del resto largamente riconosciuta e viene sottolineata in maniera concorde dagli intervistati.
[59] Il contrasto di posizioni su questo punto ha condotto all’instaurazione da parte della FIM provinciale di Milano di un processo di accertamento per l’interpretazione della clausola contrattuale costitutiva dell’istituto (art. 12, punto B, parte comune del contratto collettivo per l’industria metalmeccanica privata, 15 dicembre 1966). La sentenza del Tribunale di Milano, 18 giugno 1969 (in «Orientamenti di giurisprudenza del lavoro», 1969, pp. 426 sg.), pur riconosciuta l’ammissibilità del giudizio di accertamento, ha respinto nel merito la domanda della FIM, aderendo sostanzialmente alle argomentazioni addotte dalla convenuta Associazione Industriale Lombarda.
[60] Un uso effettivo dell’istituto si riscontra solo in 4 delle aziende considerate (tutte a partecipazione statale), ma anche qui con scarsa frequenza e incisività (in un unico caso i suoi interventi sono continui e giudicati con un certo favore dagli intervistati). Largamente concordi sono pure le denunce della endemica situazione di inferiorità dell’organismo nei confronti degli altri istituti competenti per la composizione delle controversie e il rilievo che tale composizione tende necessariamente a sfuggire da una mera attività di accertamento, per tradursi in interventi di nuova contrattazione (che richiedono quindi organi con poteri corrispondenti).