Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c15

Maria Giulia Bernardini La capacità legale universale come requisito indefettibile della libertà. Notazioni teoriche in un’ottica di riforma

Notizie Autori
Maria Giulia Bernardini insegna Teorie dei diritti umani e Diritto e genere all’Università degli Studi di Ferrara. Si occupa di teorie critiche del diritto, con particolare attenzione a Disability, Elder e Gender Studies e ai temi della capacità legale, della vulnerabilità, dell’intersezionalità, degli stereotipi e del diritto all’abitare. È componente di Atypicalab for Cultural Disability Studies e dell’editorial board di «Minority Reports. Cultural Disability Studies».
Abstract
Il diritto delle persone con disabilità a vivere nella comunità con la stessa libertà personale e di scelta degli altri individui trova pieno riconoscimento all’interno della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD). L’articolo 12 non costituisce solo lo standard internazionale in tema di capacità legale al quale gli Stati che hanno ratificato la CRPD sono tenuti a garantire la propria piena conformità. Il suo rilievo si estende anche al piano teorico. All’interno della CRPD, l’articolo 12 è indubbiamente la previsione normativa che più ha richiamato l’attenzione della dottrina, soprattutto internazionale. Ciò dipende in primo luogo dal fondamentale rilievo assunto dal mutamento di paradigma in esso accolto in relazione alla capacità, i cui effetti sono apprezzabili sia sul piano teorico, sia su quello normativo. Nel nuovo paradigma, il diritto è chiamato a interferire nella sfera di azione del soggetto non più in chiave «contenitiva», ma al fine di garantirne la libertà e di promuoverne l’autonomia. L’attitudine trasformativa dell’articolo 12 CRPD lo rende di difficile implementazione, in quanto fissa standard molto esigenti. Riconoscere nella capacità legale un diritto universale implica che ogni persona sia titolare del diritto di effettuare le scelte che la riguardano e agire conseguentemente, secondo la propria volontà e preferenze. In questa prospettiva, interessanti sollecitazioni provengono anche dall’ordinamento italiano, ove la giurisprudenza, oltre a muovere nella direzione del superamento del binarismo tra capacità e incapacità che si è già avuto modo di ricordare, ha rimarcato anche la particolare pregnanza assunta dall’audizione della persona interessata nel procedimento diretto all’attivazione dell’amministrazione di sostegno. Al contempo, va rimarcato come sia proprio la portata precettiva dell’articolo 12 a rivelare l’indefettibilità, oltre che l’urgenza, di procedere a quegli interventi normativi, tanto di carattere riformista quanto di tipo abolizionista, che consentano di dare concreta attuazione al diritto umano alla capacità legale universale.

1. Libertà e capacità: inquadramento preliminare di una relazione necessaria

Il diritto delle persone con disabilità a vivere nella comunità con la stessa libertà personale e di scelta degli altri individui trova pieno riconoscimento all’interno della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD). Il punto di riferimento normativo è costituito, in primo luogo, dal combinato disposto degli articoli 14 («libertà e sicurezza della persona») e 19 («vita indipendente e inclusione nella comunità»); tuttavia, non meno rilevante è l’articolo 12 («eguale riconoscimento dinanzi alla legge»), che rappresenta l’architrave dell’intera CRPD [1]
. La nozione inclusiva di capacità legale accolta all’interno del testo convenzionale costituisce infatti il presupposto indefettibile del pieno riconoscimento della libertà personale e di scelta, in quanto la relazione tra libertà e capacità può essere considerata necessaria, per le ragioni che verranno esplicitate nel prosieguo.
La salienza dell’articolo 12 CRPD è apprezzabile non solo in relazione alle conseguenze prodotte in merito al riconoscimento della capacità delle persone con disabilità, ma anche sul piano dogmatico, laddove comporta un deciso superamento dell’impianto ottocentesco delle categorie giuridiche ancora formalmente accolte, tra gli altri, anche dall’ordinamento italiano. Per tale ragione, è necessario soffermarsi in via preliminare sulle ragioni per le quali il legame tra libertà e capacità è e deve essere considerato indefettibile.
La transizione richiesta dalla Convenzione si configura come un processo che mira al definitivo superamento della logica istituzionale e segregante. Il tutto avviene all’interno di un mutato quadro culturale e giuridico, che in relazione alle persone con disabilità pone come prioritaria, accanto alla tutela delle «libertà da», anche quella delle loro «libertà di» [2]
. Tale necessità {p. 344}è stata ribadita a più riprese anche dalle istituzioni sovranazionali. Ultime in ordine temporale, le Guidelines on Deinstitutionalization, Including in Emergencies (2022) – rilasciate a integrazione del General Comment n. 5 (2017) e in dialogo con le Guidelines on the Right to Liberty and Security of Persons with Disabilities (2016) – costituiscono il testo ove il Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità si è posto proprio l’obiettivo di guidare gli Stati nel garantire il diritto alla vita indipendente e all’inclusione nella comunità, così contrastando i processi di reistituzionalizzazione e prevenendo l’istituzionalizzazione [3]
. Oltre a essere contraria per definizione all’articolo 19, quest’ultima viola infatti la ratio complessiva della CRPD e, in particolare, comporta la negazione di fatto della capacità legale delle persone con disabilità, con ciò ponendosi in contrasto proprio con l’articolo 12 [4]
. Non a caso, già all’interno del General Comment n. 1 (2014), specificamente relativo all’articolo 12, il Comitato CRPD aveva affermato che il rispetto del diritto alla capacità legale su basi di eguaglianza include quello del diritto alla libertà e sicurezza.
I documenti richiamati, unitamente ad altri di recente adozione [5]
, rivelano la grande importanza del tema, nonché la permanenza della logica istituzionale, che finora pare sia stata oggetto non tanto di un superamento, quanto piuttosto di un ripensamento che travalica i confini della sola salute mentale. Invero, i diffusi proclami relativi al community living e ai principi a cui quest’ultimo è informato (ossia autonomia, indipendenza, libertà, centralità della persona, scelta, controllo) non sembrano avere portato alla compiuta garanzia del diritto delle persone {p. 345}con disabilità a vivere nella comunità con la stessa libertà di scelta degli altri consociati. Piuttosto, sono ancora riscontrabili sia varie forme di incapacitazione de jure e de facto, sia rilevanti carenze in ordine alla predisposizione delle condizioni che consentano alla persona interessata da una misura che ne limiti la capacità il libero esercizio della propria scelta. A tal fine, è necessario tanto che non sussista alcuna costrizione in merito alla scelta in oggetto, quanto che le opzioni tra cui la persona può effettuare la scelta siano plurime, concretamente accessibili e da lei considerate significative. Si può parlare, al riguardo, di una «social care detention», ossia di un insieme di pratiche non paradigmatiche, tra loro eterogenee, che si estendono oltre i confini delle istituzioni classiche: si tratta di veri e propri asylums invisibili [Series 2022, 5] [6]
. Nonostante non possano essere identificate con la presenza di un preciso setting istituzionale, tali misure rivelano un carattere coercitivo, laddove sono dirette a privare un soggetto della propria libertà personale per un tempo sostanzialmente indefinito.
Nelle Guidelines on Deinstitutionalization, Including in Emergencies (2022), al punto n. 14, il Comitato CRPD individua una serie di indici che possono concorrere alla definizione dell’istituzionalizzazione:
obligatory sharing of assistants with others and no or limited influence as to who provides the assistance; isolation and segregation from independent life in the community; lack of control over day-to-day decisions; lack of choice for the individuals concerned over with whom they live; rigidity of routine irrespective of personal will and preferences; identical activities in the same place for a group of individuals under a certain authority; a paternalistic approach in service provision; supervision of living arrangements; and a disproportionate number of persons with disabilities in the same environment.
Con tutta evidenza, il presupposto implicito – ma fondante – della maggior parte di tali misure è costituito dall’assunto in base al quale il soggetto con disabilità, della cui libertà si discute, sia incapace di autodeterminarsi e di scegliere. È appunto questa incapacità a legittimare l’adozione di accorgimenti diretti a privare di rilevanza giuridica la sua condotta, nonché a effettuare la scelta per lui, ossia per il suo bene. In questa prospettiva, irrilevanza giuridica e paternalismo si intrecciano e non solo presuppongono, ma concorrono anche a costruire l’immagine della persona con disabilità quale soggetto incapace.
L’approccio in oggetto – culturale, prima che giuridico – contrasta in maniera lampante con quello accolto all’interno della CRPD, ove non {p. 346}si fa riferimento a un soggetto incapace e, come tale, agìto ed eterodeterminato ma, al contrario, a un individuo capace, in grado di effettuare decisioni, nonché di assumersene la relativa responsabilità. Si tratta di un soggetto che può autodeterminarsi e scegliere, e al quale vanno garantite le condizioni (abilitanti) di esercizio della libera scelta, a partire dal riconoscimento della sua capacità, dalla presenza di uno spettro di opzioni di scelta che siano considerate significative dalla persona interessata, nonché dall’assenza di misure coercitive [7]
.
In ciò si sostanzia, in estrema sintesi, il concetto di capacità legale universale accolto all’interno dell’articolo 12 della CRPD, che con tutta evidenza assume particolare importanza anche in relazione al processo di deistituzionalizzazione. Per il Comitato CRPD, infatti, la negazione (de jure o de facto) della capacità, così come la detenzione all’interno di un istituto contro la volontà della persona interessata, senza il suo consenso o avvalendosi di quello di un decisore sostitutivo, costituiscono violazioni degli articoli 5, 12 e 14 CRPD. Per tale ragione, gli Stati parte sono tenuti non solo ad astenersi dal realizzare condotte che si configurino come privative della libertà personale, ma anche a istituire meccanismi di revisione che consentano di porre fine alle ipotesi di confinamento non volontario delle persone con disabilità all’interno dei contesti segreganti (quali possono talvolta configurarsi anche quelli di carattere residenziale) [8]
, nonché a realizzare veri e propri percorsi di emancipazione, sempre alla luce dei principi espressi dalla CRPD.
Per tali ragioni, appare necessario procedere a un’analisi più compiuta dell’articolo 12, in modo tale da comprendere i nodi concettuali qualificanti il mutamento di paradigma da esso introdotto. In via preliminare, è però opportuno soffermarsi brevemente sulle ragioni del rilievo teorico del concetto di capacità, sì da comprendere in cosa si sostanzia la svolta {p. 347}universalista ivi contemplata e quali sono gli obblighi normativi posti in capo agli Stati, anche ai fini dell’eguale riconoscimento delle persone con disabilità quali soggetti di diritto.

2. La rilevanza teorica di un concetto

L’articolo 12 non costituisce solo lo standard internazionale in tema di capacità legale al quale gli Stati che hanno ratificato la CRPD sono tenuti a garantire la propria piena conformità [9]
. Il suo rilievo si estende anche al piano teorico, in quanto la nozione di capacità legale universale porta a compimento, positivizzandolo, quel processo di riformulazione del concetto di capacità in termini inclusivi e non discriminatori che era già presente all’interno di molti ordinamenti e che, da qualche tempo, costituisce oggetto di particolare interesse per la dottrina e la giurisprudenza [10]
.
Nell’ordinamento italiano, ove la riflessione sul tema era iniziata ben prima della ratifica della CRPD, la diffusa insoddisfazione della dogmatica in relazione alla concezione ottocentesca di capacità può essere fatta risalire almeno agli anni Sessanta del Novecento, quando si inizia a porre attenzione alla polisemia e all’indeterminatezza del concetto (già al tempo considerate difficilmente circoscrivibili [Falzea 1960]) e se ne ravvisano le difficoltà applicative, soprattutto in relazione a temi, come quello della soggettività giuridica o della personalità, che impongono di recuperare la concretezza della «vita materiale» [Mengoni 1985], superando l’astrattezza [Stanzione 1988; 2017]. Ben presto, si punta l’attenzione anche alla funzione selettiva ascritta alla capacità, intesa quale requisito la cui presenza è condizione di accesso ai diritti, nonché alla conseguente passibilità di un suo impiego secondo modalità discriminatorie, che neghino il riconoscimento a certi soggetti, o comunque ne impediscano l’eguale godimento dei diritti [Alpa 1993]. Si arriva finanche a interrogarsi sull’opportunità di mantenere tale categoria giuridica [Pizzorusso 1990] e a invocare quantomeno una sua riformulazione [Zatti 2003].
Del resto, tale concetto rivela un carattere problematico sin dalle origini. Un’incursione «archeologico-tipologica» [Alpa 1993, 63] nella capacità rivela, infatti, come la storia della sua elaborazione in termini generali e astratti sia inestricabilmente intrecciata a quella della creazione del soggetto di diritto e possa essere fatta risalire al XVIII-XIX secolo [11]
. Al
{p. 348}contempo esito e chiave del superamento degli status, la capacità – nella duplice accezione di capacità giuridica e di agire – costituisce infatti il tramite attraverso il quale viene reso operativo il dogma della volontà, che permette al soggetto di agire conformemente al proprio volere.
Note
[1] Su tale aspetto, l’opinione della dottrina è unanime; tra le prime ad esprimersi in tal senso, Dhanda [2006-2007].
[2] La nota distinzione teorica tra libertà negativa e libertà positiva, che nella sua accezione «classica» (peraltro oggetto di numerose censure, laddove ha storicamente sancito la preminenza dei diritti di libertà su quelli sociali, e ulteriormente messa in crisi proprio dalla critica proveniente dagli studi sulla disabilità) implica un diverso ruolo del potere pubblico ai fini della loro tutela, è stata applicata da Benedetto Saraceno anche alla critica al modello residenziale [2021, 43]. Una volta intrapreso il processo di allontanamento da specifici luoghi segreganti (che, almeno per le persone con disabilità, non può dirsi invero ancora concluso), si tratta ora di procedere al pieno ed eguale riconoscimento di tali persone quali soggetti di diritto, nonché alla costruzione delle condizioni che consentano l’accesso ai diritti e l’esercizio delle libertà faticosamente conquistate.
[3] È opportuno richiamare l’attenzione sul fatto che il Comitato (d’ora innanzi Comitato CRPD) ha adottato le Guidelines in oggetto con il supporto dei rappresentanti delle organizzazioni delle persone con disabilità, riuniti all’interno della Global Coalition on Deinstitutionalization.
[4] Per il riferimento a ulteriori parametri normativi violati, tra i quali l’articolo 14, cfr. sempre il punto 6 delle Guidelines on Deinstitutionalization, Including in Emergencies (2022).
[5] Le posizioni espresse dal Comitato CRPD sono infatti condivise anche da altre istituzioni sovranazionali, come l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, che nel 2022 ha adottato la risoluzione n. 2431 proprio sul tema della deistituzionalizzazione delle persone con disabilità, seguita dalla raccomandazione n. 2227, più specificamente relativa all’ambito della salute mentale. Del resto, nel contesto europeo, già nel 2018 la Fundamental Rights Agency (FRA) aveva ribadito la necessità di promuovere la transizione dall’istituzionalizzazione al community living.
[6] In relazione a talune di queste pratiche, la dottrina italiana parla di «manicomi nascosti» [Merlo e Tarantino 2018], così recuperando anche la specifica memoria del paradigma della psichiatria istituzionale, messo in crisi dal pensiero basagliano.
[7] Sul tema, in una prospettiva più ampia, cfr. Facchi e Giolo, che si soffermano anche sulla c.d. «autonomia inclusiva» [2020, 46-48], riferibile pure al caso delle persone con disabilità.
[8] General Comment n. 1, par. 40: «Respecting the right to legal capacity of persons with disabilities on an equal basis with others includes respecting the right of persons with disabilities to liberty and security of the person. The denial of the legal capacity of persons with disabilities and their detention in institutions against their will, either without their consent or with the consent of a substitute decision-maker, is an ongoing problem. This practice constitutes arbitrary deprivation of liberty and violates articles 12 and 14 of the Convention. States parties must refrain from such practices and establish a mechanism to review cases whereby persons with disabilities have been placed in a residential setting without their specific consent». Si noti che, alla luce degli ulteriori documenti richiamati e delle considerazioni svolte finora, il riferimento agli istituti è da intendersi come meramente esemplificativo dei contesti al cui interno può verificarsi la privazione della libertà (la quale può appunto avvenire anche nella comunità, o nel contesto familiare); ne consegue la necessità di garantire che, anche al di fuori di tali luoghi, non siano riprodotte le medesime logiche segreganti.
[9] Per alcune considerazioni in merito, cfr. infra, par. 4.
[10] Per un’analisi in chiave comparata, anche di carattere storico, cfr. Bach e Espejo Yaksic [2022]; si veda inoltre Clough [2017].
[11] Quello che porta all’elaborazione della soggettività giuridica è un lungo processo di costruzione storica che, con von Savigny, raggiunge un significativo livello di astrazione. Anche la nozione generale e astratta di capacità era sconosciuta all’esperienza romana e medievale [Stagl e Maragno 2023; limitatamente alla capacità d’agire, Guida 2019]. Sulla costruzione del soggetto di diritto (con inevitabili riferimenti alla capacità, per le ragioni esplicitate), Naffine [2003]; Celermajer e Lefebvre [2020]. Si appunta specificamente sulla capacità in relazione al soggetto con disabilità Barrientos Grandon [2022].