Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c3

Cecilia Maria Marchisio Storia di Marco che non sta fermo

Notizie Autori
Cecilia Maria Marchisio insegna Pedagogia speciale e dell’inclusione presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino. Coordinatrice del Centro Studi per i diritti e la vita indipendente, è direttrice della Specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità dell’Università di Torino. È stata componente della Commissione di studio redigente degli schemi dei decreti legislativi attuativi della legge 22 dicembre 2021, n. 227 (Delega al Governo in materia di disabilità).
Abstract
Cresciuto in una piccola città sul mare, fino ai 19 anni Marco frequenta senza particolari problemi i contesti tipici dei ragazzi della sua età. la famiglia di Marco viene sconvolta dalla prematura morte del padre, che manca improvvisamente proprio a ridosso della fine dell’anno scolastico. Marco, intanto, prosegue la frequenza al Centro e sta sempre peggio. Mentre le diagnosi si aggiungono, Marco continua a dire di cosa sente di aver bisogno: vuole traslocare, vuole andare via dalla loro casa e dalla loro città. Nella nuova città, dunque, non viene ritenuto opportuno che Marco frequenti luoghi di tutti, incontri persone, si costruisca una quotidianità da giovane adulto. Inizia così un anno molto difficile. I nuovi educatori lavorano con professionalità e dedizione, cooperando con la mamma, affinché Marco ricostruisca una quotidianità piena. Gradualmente e lentissimamente si passa da qualche minuto senza mamma (magari nascosta dietro una colonna al centro commerciale) a qualche ora, sempre nei luoghi di tutti: bar, strade, pizzerie. Fino ad arrivare a giornate intere ricche di incontri e impegni che Marco affronta serenamente senza Agata. Marco oggi ha trent’anni e vive nella sua cittadina. Lui e la madre abitano lì da otto anni e Marco è conosciuto da tutti. Il progetto personalizzato con cui è sostenuto prevede un intenso lavoro sul contesto. La battaglia di Agata e Marco non si è fermata nel punto dove si ferma questa storia. La famiglia è sempre rimasta in contatto con il gruppo di ricerca e si è mantenuto costante lo scambio.
Cresciuto in una piccola città sul mare, fino ai 19 anni Marco [1]
frequenta senza particolari problemi i contesti tipici dei ragazzi della sua età. A scuola, l’Istituto Tecnico Industriale per quanto riguarda le superiori, impara con profitto e in classe con gli altri, grazie al supporto didattico degli insegnanti e all’impegno a casa dei genitori. La mamma e il papà di Marco sono entrambi laureati e appassionati di cultura e il padre, in particolare, trasmette a Marco l’interesse per la conoscenza, specialmente in ambito matematico.
Con i necessari sostegni [Goodley et al. 2018] Marco a scuola non ha problemi dal punto di vista strettamente didattico ma, a mano a mano che la fine dell’ultimo anno si avvicina, i discorsi che riguardano il suo futuro si comprimono gradualmente [Canevaro 2013]. Nei consigli di classe e nei colloqui con i genitori non si parla, come per gli altri ragazzi, di ambiti di lavoro, di stage, di università ma, dal momento che Marco ha una diagnosi di deficit intellettivo e relazionale, appare scontato che il naturale proseguimento del suo progetto di vita sia l’inserimento in una struttura semiresidenziale. Lo scenario del Centro diurno è talmente ovvio da non essere mai neppure esplicitamente proposto, argomentato, né sostenuto: semplicemente, da un certo punto in poi, nelle riunioni tra gli insegnanti, con il servizio di neuropsichiatria e con i genitori le discussioni vertono sempre di più sui modi e sui tempi per l’inserimento.
Negli ultimi mesi di scuola il Centro diurno è diventato, senza che nessuno l’abbia formalmente stabilito, l’unico scenario possibile del futuro di Marco. In quegli stessi mesi, la famiglia di Marco viene sconvolta dalla prematura morte del padre, che manca improvvisamente proprio a ridosso della fine dell’anno scolastico.
Nel giro di poche settimane, dunque, Marco finisce per perdere ogni punto di riferimento: compagni di classe, luoghi consueti, figure educative {p. 78}di riferimento e addirittura un genitore. Nello stesso momento inizia la frequenza del Centro diurno che è stato scelto per lui.
Durante tutto il primo anno le attività del Centro sono molto intense: è stata presa in gestione una nuova sede e i giovani che frequentano sono coinvolti nella costruzione artigianale del mobilio. Anche se le attività gli interessano, fin dall’inizio Marco fatica a legare con gli altri ragazzi, che provengono da storie di vita e contesti sociali molto diversi rispetto alla sua esperienza.
Agata, la madre, nonostante queste prime difficoltà, si fida del percorso che i professionisti hanno scelto per suo figlio. Inoltre, la donna non ha rete familiare a sostenerla e in quel periodo ha bisogno di impiegare molto tempo girando i numerosi uffici per le pratiche relative alla successione del marito e per la domanda relativa al proprio pensionamento anticipato, resosi improvvisamente necessario per consentirle di occuparsi, da sola, di Marco. In questa situazione qualche ora al giorno in cui non avere Marco con sé le è molto utile e il Centro diurno costituisce in quel momento l’unica opzione disponibile in quel senso [Marchisio e Curto 2019].
Trascorrono i mesi e, una volta terminato l’arredo dei nuovi locali, le attività al Centro diventano via via più monotone. Parallelamente, la relazione con i compagni si fa più faticosa. Marco, dopo qualche tempo, inizia a manifestare la volontà di sospendere la frequenza. Durante le giornate telefona spesso alla madre: «Vienimi a prendere: non ci voglio stare», le dice angosciato.
Agata si accorge della fatica autentica di Marco e inizia a intravedere qualche problema a cui non riesce a dare un nome preciso. Marco, ormai ventenne, manifesta anche agli operatori la sua volontà di sospendere la frequenza, ma questi rispondono con atteggiamenti fermi. Del resto, possono essere più o meno gentili, ma il loro compito in quel contesto non è sostenere il progetto di vita di Marco in modo rispondente ai suoi desideri, ma far sì che egli frequenti la struttura nel modo più sereno possibile [Curto 2021]. Marco, tuttavia, insiste molto per terminare la frequenza, gli operatori si esasperano e a volte finiscono per alzare la voce. È questo il periodo in cui Marco, che non lo aveva mai fatto prima, inizia a mettersi le mani sulle orecchie.
È così, con le mani sulle orecchie e di corsa, che esce dal Centro un giorno in cui Agata è andata a prenderlo al termine dell’orario. Inseguito da un’operatrice, Marco si rifugia in auto e chiude lo sportello. L’operatrice lo raggiunge e riapre lo sportello alterata: «Non lo capisci che quando ti dico stai fermo devi stare fermo?», gli grida.
Stare fermo, in effetti, è una delle cose che Marco fatica a fare, soprattutto se sfaccendato: cammina continuamente e volentieri, e preferisce attività finalizzate e molteplici che comprendano spostarsi, spostare oggetti, caricare, scaricare, riparare quel che è rotto. {p. 79}
L’episodio in cui suo figlio corre fuori dal Centro con le mani sulle orecchie inseguito da un’operatrice convince del tutto Agata che qualcosa non va: le relazioni all’interno del Servizio appaiono, ormai, oltre che pessime con i compagni, deteriorate anche con gli operatori. Agata, prima di prendere una decisione, cerca di andare a fondo rispetto alla situazione: per settimane scrive mail e fa telefonate ma, dopo due mesi, l’unica comunicazione che riceve è che, se Marco si ritirerà dal Centro, il Servizio considererà l’intervento rifiutato e non le verrà offerto altro: se vuole cambiare intervento deve sottoporre la richiesta a una commissione, che però in quel periodo non si riunisce.
Marco, intanto, prosegue la frequenza al Centro e sta sempre peggio. La madre, oggi, ripensando a quel momento, ricorda una sensazione di spiazzamento: in vent’anni di vita del figlio era la prima volta che per lui risultava così problematico inserirsi in un contesto.
Dopo quasi un anno che Marco manifesta la volontà di smettere di frequentare, e che Agata cerca di riportare questa volontà a chi può decidere per un cambio di intervento, accade un episodio che probabilmente, con il senno di poi, si può individuare come la goccia che fa traboccare un vaso già colmo. Si tratta di una piccola gita: due giorni fuori porta con educatori e compagni. Agata non è preoccupata: Marco è abituato ad andare in viaggio senza genitori. Con la scuola, solo un paio di anni prima, è andato in Grecia per una settimana senza neanche la necessità di essere accompagnato dall’insegnante di sostegno.
Dalla gita di due giorni, invece, Marco torna sconvolto. Si mette a letto e non vuole più alzarsi. Non vuole neppure cambiarsi, restando con lo stesso pigiama per settimane. Non vuole più uscire né lavarsi. La situazione è molto difficile. Marco inizia anche a farsi del male.
Agata non sa più cosa pensare, né a chi rivolgersi. In passato, la neuropsichiatria aveva dato ad Agata una diagnosi di «sindrome schizotipica» ma, anni prima, un centro specializzato in autismo aveva lasciato anche questa diagnosi tra quelle possibili [Dell’Acqua 2013]. Nella ricerca di qualcuno che possa aiutarla a sostenere il figlio, Agata li ricontatta. Viene a casa una psicologa che effettua una prima valutazione di Marco – che in realtà è almeno la terza – e rinvia a uno psichiatra. Intanto, Marco ha smesso di parlare. La madre ha l’idea di scrivergli un biglietto a cui Marco risponde: è così che comunicano per diversi mesi. Marco scrive ancora che non vuole andare più al Centro e inizia anche a dire che desidera andar via da quella città. Anche lo psichiatra, che viene per la prima valutazione, comunica con lui attraverso bigliettini e da questi trae una diagnosi di psicosi.
Mentre le diagnosi si aggiungono, Marco continua a dire di cosa sente di aver bisogno: vuole traslocare, vuole andare via dalla loro casa e dalla loro città. {p. 80}
La madre decide di seguire questo desiderio, che si dimostra più forte anche di ciò che – a qualunque diagnosi corrisponda – lo tiene a letto da mesi [Davidson et al. 2010]. Il giorno del trasloco, infatti, Agata è preoccupata: si domanda come farà da sola – con i traslocatori, il camion, gli scatoloni e tutto pronto – se, come avviene da tempo, Marco si rifiuterà di uscire di casa. Ma, mentre Agata aiuta i traslocatori a sistemare le ultime cose, si volta e se lo ritrova dietro, già seduto in auto con la cintura allacciata e pronto a partire. Il giorno stesso, arrivati nella nuova città dove abiteranno, Marco accetta di vestirsi e andare con Agata a comprare dei panini per pranzo. Questa uscita per i panini, dopo tutti i mesi di letto, il silenzio e i pigiami non cambiati appare un momento di grandissima speranza.
Marco diceva di voler andare via e andare via sembra aver funzionato: anche se non è tornato il ragazzo di prima, anche se cerca spesso il padre e vuole stare sempre con la mamma, nella nuova situazione sembra sentirsi meglio. Dopo il trasloco ha anche smesso di farsi del male.

1. Una nuova città

Appena arrivati, Agata prende contatto con i Servizi sociali locali, che saranno il loro nuovo riferimento. Nella cittadina dove si sono trasferiti ha aperto da poco un Centro per l’autismo: è lì che Marco e la madre vengono indirizzati per una prima valutazione, che in realtà è l’ennesima per loro.
L’esito della prima valutazione è, questa volta, disturbo dello spettro autistico atipico, con conferma della psicosi e annullamento (sic) della vecchia sindrome schizotipica. Inizia anche un dibattito tra professionisti, che non si trovano d’accordo relativamente alla possibile compresenza di psicosi e autismo. Intanto, sempre più nascosto dalla foresta di diagnosi, c’è Marco: un giovane di ormai 22 anni che, approfittando di quel poco di serenità recuperata in occasione del trasloco, andrebbe sostenuto a inserirsi nella sua nuova città [Mezzina et al. 2006].
A ogni richiesta di aiuto, fino ad ora, Agata e Marco si sono sempre visti rispondere con una valutazione. Agata, che all’inizio si affidava a questo meccanismo – pensando «se scopriamo cos’ha potremo aiutarlo» – inizia a riconoscere che, probabilmente, il figlio ha bisogno di altro: «A quel punto» – dice – «ho deciso di lasciar perdere la diagnosi e concentrarmi sui suoi bisogni e desideri».
Tra questi, appariva primario riallacciare relazioni: appena trasferito da un’altra città e appena uscito da un periodo di isolamento – avendo perso d’improvviso tutti i riferimenti affettivi – la costruzione di un universo sociale di senso sembrava costituire un elemento cruciale [Marin e Bon 2012].{p. 81}
Ma l’ipertrofia della diagnosi [Colucci 2006] si rivela d’ostacolo: gli specialisti del Centro per l’autismo sostengono, infatti, che sia la sindrome a impedirgli di socializzare. Secondo la loro valutazione Marco è isolato perché è autistico. Di conseguenza, il suo isolamento viene trattato come una sorta di dato prognostico da accettare più che come un’area della vita da rendere oggetto di un percorso riabilitativo. Alla madre, che conosce Marco e l’ha visto, nei primi vent’anni della sua vita, vivere sereno in relazione con gli altri, qualcosa, nuovamente, non torna. Ma ciò che Marco e Agata pensano e vogliono, così come quello che fino ad allora sono stati e hanno vissuto, conta sempre meno: una volta operata la valutazione è l’esito di questa a guidare la scelta degli interventi da parte dei professionisti.
Nella nuova città, dunque, non viene ritenuto opportuno che Marco frequenti luoghi di tutti, incontri persone, si costruisca una quotidianità da giovane adulto [Mezzina e Marin 2021]. Il ragazzo viene, piuttosto, indirizzato a una nuova struttura diurna, dove potrà trascorrere le sue giornate con persone che hanno ricevuto la medesima diagnosi, impegnato in attività adatte a loro. Il Centro – dedicato all’autismo – viene presentato ad Agata come servizio riabilitativo e lei, inizialmente, è fiduciosa in quello che potranno fare i professionisti: pensa che, se da sola è riuscita a portare Marco dallo stare a letto sei mesi a uscire, a smettere di farsi del male e parlare di nuovo, un percorso riabilitativo professionale potrà consentire al figlio di vivere sereno [Mezzina 2023]. È tanto fiduciosa che, poiché il Centro è di nuova fondazione e non ha ancora la convenzione con il Servizio Sanitario, paga di tasca sua i primi mesi di inserimento [Fosti e Notarnicola 2018].
Quello che Agata si aspetta da questo percorso è la ricostruzione di una dimensione sociale di senso per Marco: se lo immagina andare in giro a fare piccole commissioni, conoscere persone, iniziare ad avere dei compiti che diano una finalità alla giornata e restituiscano una dimensione di scambio con gli altri cittadini della sua comunità [Bruni 2022]. Questo snodo è cruciale per il presente di Marco, ma soprattutto per il suo futuro: il suo vivere come un adulto nella piccola città dove ora abita è ciò che ha il potere di aprire le porte a un abitare coerente con quello stile di vita, una volta che sceglierà di uscire dalla casa della madre: un abitare deistituzionalizzato passa infatti primariamente dalle relazioni con la propria comunità che, nel caso di Marco, sono tutte da costruire [Marchisio 2018].
Al Centro dove viene inserito Marco, invece, l’intervento non è di questo tipo: l’attività prevalente è l’intreccio di cestini di vimini, svolta in un piccolo gruppo con altri due ragazzi aggregati per diagnosi. Marco – che ha finito l’ITIS da tre anni seguendo, seppure con obiettivi semplificati, il programma della classe – ha come compito quotidiano quello di dare da
{p. 82}bere alle tre piantine presenti nel centro con un bicchiere d’acqua. Tutte le attività si svolgono all’interno della struttura e in silenzio. All’esterno, sostengono gli operatori interrogati da Agata in proposito, è meglio per Marco evitare di andare prevalentemente a causa della difficoltà di frequentare luoghi pubblici, dove ci sono altre persone e dove ci potrebbe essere – magari – da fare una coda o attendere un turno. Marco, si sa, non sta fermo volentieri.
Note
[1] La storia di Marco è stata raccolta durante una serie di colloqui e interviste con la madre Agata. La storia si colloca nel recente passato, Marco nel 2023 ha 36 anni.