Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c15
Del resto, tale concetto rivela un
carattere problematico sin dalle origini. Un’incursione «archeologico-tipologica» [Alpa
1993, 63] nella capacità rivela, infatti, come la storia della sua elaborazione in
termini generali e astratti sia inestricabilmente intrecciata a quella della creazione
del soggetto di diritto e possa essere fatta risalire al XVIII-XIX secolo
[11]
. Al
¶{p. 348}contempo esito e chiave del superamento degli
status, la capacità – nella duplice accezione di capacità
giuridica e di agire – costituisce infatti il tramite attraverso il quale viene reso
operativo il dogma della volontà, che permette al soggetto di agire conformemente al
proprio volere.
Come è noto, in origine non si
tratta di un riconoscimento su base egualitaria; piuttosto, è soggetto di diritto
unicamente chi è dotato di volontà e ragione, sicché la capacità può essere negata ad
alcuni (coloro che si ritiene ne difettino) in tutto o in parte
[12]
, anche ricorrendo a strumenti giuridici di protezione. Il corollario di una
siffatta concezione individualistica e proprietaria del sé
[13]
è il ricorso al concetto di (in)capacità: il soggetto da proteggere è
appunto quello designato come incapace.
Si produce così un inevitabile
effetto selettivo, e finanche discriminatorio, laddove è unicamente il soggetto capace a
vedersi pienamente garantito l’accesso ai diritti. Questa impostazione non viene meno
con l’affermazione del positivismo giuridico, il quale eredita la relazione triadica tra
soggetto, volontà e capacità, che finiscono così per divenire simboli linguistici
indiscussi, concetti pietrificati [per riprendere ancora Zatti
2003, 53].
Tuttavia, a partire dagli anni
Sessanta del Novecento, sull’onda del progressivo affermarsi del processo di
costituzionalizzazione della persona e delle acquisizioni provenienti dalla psichiatria,
dalla psicologia e dall’analisi comparativa, la dottrina italiana (in particolar modo,
quella di area civilistica) inizia a rivelare una certa insofferenza nei confronti dei
limiti del modello «classico» della capacità legale in relazione al governo
dell’autodeterminazione individuale, soprattutto per quanto riguarda gli atti di natura
non patrimoniale. L’alternativa binaria tra la presenza e l’assenza della capacità,
quasi nessuna gradualità fosse ammessa, il riferimento a criteri di valutazione della
stessa diretti ad accertare la razionalità della persona, il legame tra protezione e
incapacità, così come l’ammissibilità della sostituzione legale, vengono considerati
strumenti diretti alla violenta semplificazione di un reale che, al contrario, si
presenta come infinitamente e irriducibilmente complesso.
Si inizia così ad avvertire la
sensazione che un paradigma stia per cadere e a ritenere necessaria l’adozione di una
prospettiva diversa, attraverso la ¶{p. 349}quale dare rilievo giuridico
a una pluralità di fattori inerenti alla relazione in cui si
colloca la decisione di quell’individuo che viene considerato incapace secondo i
tradizionali parametri di valutazione, operanti all’interno del paradigma «classico»
[14]
.
Riconosciuto come indefettibile il
contributo della persona al processo decisionale e ammessa la possibile compresenza tra
condizione di vulnerabilità e capacità, all’interno del paradigma auspicato il diritto è
chiamato a prestare attenzione al processo decisionale più che al suo esito, alle
condizioni atte a garantirne la correttezza, nonché ad accordare rilievo al ruolo dei
vari soggetti che sono coinvolti in questa dinamica. Suo, infatti, è il compito di
coadiuvare chi sia destinatario di una misura di protezione. In
tal modo, il rispetto della libertà decisionale si risolve in quello per la persona,
colta nella sua concretezza e specificità
[15]
.
L’articolo 12 CRPD vede proprio nel
riconoscimento della capacità legale universale un aspetto fondamentale della garanzia
dell’eguaglianza tra gli individui e della non discriminazione, uno strumento di
(ri)affermazione della centralità della persona e una modalità attraverso la quale
assicurare le condizioni dirette a garantire il rispetto della libertà di
autodeterminazione e di scelta. Oltre a costituire un obbligo internazionale, la sua
corretta implementazione sembra dunque rappresentare una risposta agli auspici da tempo
formulati dalla dottrina italiana e, in tempi più recenti, anche dalla giurisprudenza
[16]
.
3. Articolo 12: chiarimenti e disambiguazioni
All’interno della CRPD, l’articolo
12 è indubbiamente la previsione normativa che più ha richiamato l’attenzione della
dottrina, soprattutto internazionale. Ciò dipende in primo luogo dal fondamentale
rilievo assunto dal mutamento di paradigma in esso accolto in relazione alla capacità, i
cui effetti sono apprezzabili sia sul piano teorico, sia su quello normativo. Tuttavia,
non meno rilevante è l’ambigua formulazione dell’articolo
[17]
. Quest’ultima è addebitabile tanto alla polisemia intrinseca alla nozione di
capacità, quanto alla necessità di addivenire a un compromesso in merito ad alcuni
profili che creavano non poche tensioni in sede negoziale, a partire dal
tipo di capacità di cui si intendeva riconoscere l’eguale
titolarità. ¶{p. 350}
Molte di queste ambiguità sono
state chiarite dal Comitato CRPD nel primo dei commenti generali adottati, relativo
appunto all’articolo 12
[18]
, a propria volta oggetto di confronti partecipati per la radicalità di
talune previsioni che vi sono contenute e per l’individuazione degli obblighi statali
che ne consegue. La posizione del Comitato si rivela peraltro in dialogo con il
rilevante processo di ripensamento teorico di alcune categorie concettuali sulle quali
il diritto è eretto, a partire dalle nozioni di soggetto di diritto, autonomia, vulnerabilità
[19]
. Si tratta allora di comprendere quali siano gli elementi qualificanti del
paradigma della capacità legale universale e di sciogliere alcuni nodi concettuali che
vanno a costituire la complessa trama dell’articolo 12, prendendo in considerazione
anche la posizione espressa al riguardo dal Comitato CRPD.
3.1. Primo nodo concettuale: capacità mentale e capacità legale
In primo luogo, è necessario
precisare a quale tipo di capacità si riferisca l’articolo 12, laddove al par. 2
afferma che gli Stati sono tenuti ad assicurare l’eguale godimento della
legal capacity delle persone con disabilità in ogni aspetto
della vita. Anche se l’analisi dei lavori preparatori rivela come non fosse presente
unanimità di vedute sul punto (tra le proposte figurava, ad esempio, anche quella
diretta al riconoscimento della sola capacità giuridica)
[20]
, è ormai indiscusso come tale espressione debba essere riferita tanto
alla capacità giuridica, quanto a quella d’agire
[21]
. La ragione di questa scelta è chiaramente desumibile proprio dalle
posizioni che emergono dalla lettura dei lavori preparatori: la restrizione della
previsione di cui all’articolo 12 alla sola capacità giuridica avrebbe tradito
l’adesione del testo convenzionale al modello medico della
disabilità, finendo per legittimare la presenza di forme di protezione e di
incapacitazione de jure o de facto e la
conseguente negazione dell’eguale riconoscimento di fronte alla legge delle persone
con disabilità.
Dalla lettura congiunta dei
parr. 1 e 2 dell’articolo 12 emerge infatti chiaramente come la condizione di
disabilità non possa mai costituire una ¶{p. 351}valida ragione per
discriminare direttamente o indirettamente un soggetto né in relazione al
riconoscimento della personalità giuridica, né – e qui sta l’aspetto più rilevante –
per quanto attiene alla titolarità della capacità e all’esercizio di quest’ultima.
In altri termini, si richiede il compiuto superamento del paradigma incapacitante,
ove la connessione tra la disabilità e l’incapacità è assunta come necessaria, per
procedere piuttosto a un «apprezzamento neutro» del rilievo giuridico della disabilità
[22]
, distinguendo concettualmente la capacità legale da una capacità mentale
che, peraltro, in alcun modo può essere compresa o definita facendo riferimento a un
paradigma riduzionista, come quello di tipo strettamente medico.
Tale interpretazione dei due
paragrafi succitati, già propria delle organizzazioni rappresentative dei diritti
delle persone con disabilità, è adottata anche dal Comitato CRPD. All’interno del
General Comment n. 1, oltre a richiamare il carattere non
oggettivo, non stabile, non naturale, né scientificamente accertabile della capacità
mentale – che, dunque, non può essere considerata uno status
permanente e richiede altresì di essere accertata attraverso valutazioni di tipo
multidimensionale – e a rimarcare la dipendenza di quest’ultima da elementi di contesto
[23]
, il Comitato ribadisce infatti la necessità di tenere separati i due
tipi di capacità (legale e mentale).
Non sembra che questa
impostazione possa essere oggetto di censure. Invero, con tutta evidenza, nel
sostenere che la capacità mentale – ossia la competenza di un individuo nel prendere
decisioni – ha un carattere dinamico e dipendente da fattori di contesto, il
Comitato non afferma in alcun modo che essa sia una pura costruzione socio-culturale
e, in ultima analisi, non esista, come talvolta è stato obiettato. Piuttosto, esso
rimarca come ogni negazione della capacità legale che sia stata stabilita in base
all’asserita assenza di una capacità mentale sia contraria all’articolo 12. Del
resto, è contraria alla CRPD anche ogni diagnosi di (in)capacità basata sullo
status, sulle conseguenze delle scelte effettuate, o che
sia di tipo funzionale
[24]
. ¶{p. 352}
Si manifesta così la prima
modalità attraverso la quale l’articolo 12 diparte dal «classico» paradigma liberale
della soggettività giuridica, dove di norma la capacità mentale e quella legale non
solo sono legate, ma finanche confuse. Invero, in letteratura sovente si ricorre in
modo indistinto all’uno o all’altro concetto, o si tende comunque a considerare la
capacità mentale e quella legale inscindibilmente unite tra loro. In entrambe le
ipotesi, la stretta correlazione tra i due termini porta a concludere che il
requisito qualificante del soggetto di diritto sia la razionalità.
Alla luce di quanto osservato,
è evidente come l’articolo 12 introduca al riguardo un forte elemento di
discontinuità. Invero, se la capacità legale non deve dipendere da quella mentale, e
se ciascun soggetto di diritto è egualmente titolare della capacità legale, allora a
ogni individuo deve essere riconosciuto il medesimo «diritto ai diritti», compresi
quelli di autodeterminazione e di scelta
[25]
. Ciò deve chiaramente valere anche per tutte le persone con disabilità,
comprese quelle psicosociali, intellettive o cognitive. Da tale assunto consegue che
gli istituti giuridici che privino un individuo con disabilità dei propri diritti in
ragione della sua asserita incapacità non possono in alcun modo essere considerati
conformi al dettato normativo della Convenzione. Tra questi, devono essere inclusi
gli istituti che negano ab origine, o comunque consentono, la
completa privazione della capacità legale e, su tale base, quella della libertà
personale o di scelta, a causa della sola presenza di un deficit, reale o percepito.
In breve, l’articolo 12 impone di abbandonare la risposta tradizionalmente offerta
dal diritto per la «gestione» della disabilità, ossia la protezione
¶{p. 353}incapacitante dell’individuo, poiché nel «nuovo» paradigma
il soggetto con disabilità è riconosciuto come capace. Si tratta allora di
comprendere quale sia, all’interno di tale paradigma teorico, la «nuova» funzione
del diritto.
Note
[11] Quello che porta all’elaborazione della soggettività giuridica è un lungo processo di costruzione storica che, con von Savigny, raggiunge un significativo livello di astrazione. Anche la nozione generale e astratta di capacità era sconosciuta all’esperienza romana e medievale [Stagl e Maragno 2023; limitatamente alla capacità d’agire, Guida 2019]. Sulla costruzione del soggetto di diritto (con inevitabili riferimenti alla capacità, per le ragioni esplicitate), Naffine [2003]; Celermajer e Lefebvre [2020]. Si appunta specificamente sulla capacità in relazione al soggetto con disabilità Barrientos Grandon [2022].
[12] Si veda, al riguardo, von Savigny [1886-1888, par. 60, 1-2].
[13] Il dibattito sul punto è molto partecipato sia all’interno dell’ordinamento italiano, sia nel contesto internazionale. È ormai ampiamente disvelato, infatti, come l’antropologia politica implicita del soggetto di diritto sia caratterizzata da razionalità, autonomia e indipendenza. Sul tema, si vedano anche Fineman [2004]; Marella [1998; 2020]; Nedelsky [2011].
[14] Oltre a Zatti [2003] e alle Scuole che fanno capo a Stanzione e Rodotà, non può mancare un espresso richiamo a Cendon [1988].
[15] Seppur in termini non coincidenti con quelli utilizzati in questa sede, esprime tali rilievi Zatti [2003, 58].
[16] Su quest’ultimo aspetto, cfr. infra, par. 5.
[17] Per un’analisi più dettagliata di tale profilo, cfr. Series e Nilsson [2018, 344].
[18] Cfr. General Comment n. 1.
[19] Per un inquadramento dei dibattiti in questione, molto partecipati e dalle forti interconnessioni, sia permesso rimandare a Bernardini [2021].
[20] Per un’analisi più ampia, Dhanda [2017].
[21] In tale prospettiva, non si è mancato di osservare come la nozione di capacità giuridica a cui fa riferimento la traduzione italiana del testo debba essere intesa quale richiamo alla capacità d’agire [Cera e Della Fina 2019]. Tuttavia, richiamare quella che sul piano teorico generale costituisce una conversione della capacità d’agire in quella giuridica può risultare fuorviante ai fini del discorso; per tale ragione, questo scritto farà riferimento alla capacità legale, intesa come unione di capacità giuridica e d’agire.
[22] In letteratura, l’appello alla neutralità è fatto proprio sia in relazione allo specifico tema della capacità sia, più in generale, per richiamare l’attenzione sulla necessità di limitare la possibilità che le istituzioni si ingeriscano nella vita delle persone con disabilità. Sul primo profilo, cfr. Minkowitz [2011]; sul secondo, Flynn e Arstein-Kerslake [2017]. In merito al dibattito relativo alla dissociazione tra mental e legal capacity, cfr. anche Craigie et al. [2019]; Glen [2012]; Kong [2017, specialmente 18-50]; Opgenhaffen [2022].
[23] Cfr. General Comment n. 1, par. 13.
[24] Cfr. General Comment n. 1, par. 15: «[...] where a person is considered to have impaired decision-making skills, often because of a cognitive or psychosocial disability, his or her legal capacity to make a particular decision is consequently removed. This is decided simply on the basis of the diagnosis of an impairment (status approach), or where a person makes a decision that is considered to have negative consequences (outcome approach), or where a person’s decision-making skills are considered to be deficient (functional approach). The functional approach attempts to assess mental capacity and deny legal capacity accordingly. It is often based on whether a person can understand the nature and consequences of a decision and/or whether he or she can use or weigh the relevant information. This approach is flawed for two key reasons: a) it is discriminatorily applied to people with disabilities; and b) it presumes to be able to accurately assess the inner-workings of the human mind and, when the person does not pass the assessment, it then denies him or her a core human right — the right to equal recognition before the law. [...]». A differenza dei primi due modelli, patentemente contrari all’articolo 12 CRPD, la criticità del terzo risiede nelle modalità con le quali vi si ricorre, che attualmente tendono a configurarsi come discriminatorie nei confronti delle persone con disabilità. Per questa ragione, tutti e tre i modelli vengono ascritti alla «prima ondata» dell’approccio dei diritti umani alla capacità legale, mentre si può ritenere che l’articolo 12 inauguri una «seconda ondata» [sul punto, Consiglio d’Europa 2017, 7]. A ben vedere, non può però escludersi che, ove condotto in modo neutro rispetto alla disabilità, l’approccio funzionale sia compatibile con la CRPD.
[25] In breve, nella prospettiva della CRPD, la razionalità non è più l’elemento che qualifica il soggetto di diritto, esplicitamente o implicitamente. Sul piano teorico, si assiste cioè all’affermazione del soggetto di diritto (ontologicamente) vulnerabile anche nell’ambito del diritto internazionale dei diritti umani. Del resto, la positivizzazione dell’assunto filosofico del sé vulnerabile e relazionale è diretta proprio a «scardinare» le dicotomie sulle quali è eretto il diritto moderno, date in primo luogo dalla contrapposizione tra capacità e incapacità, tra vulnerabilità e invulnerabilità, tra autonomia e paternalismo, tra empowerment e protezione.