Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c17
Paolo Addis Paternalismo giuridico e condizione giuridica delle persone con disabilità
Notizie Autori
Paolo Addis
coordina il Centro di ricerca Maria Eletta Martini di Lucca. PhD in Diritto pubblico e dell’economia, si occupa della condizione giuridica delle persone vulnerabili e dei diritti delle persone con disabilità.
Abstract
La condizione giuridica delle persone con disabilità è stata a lungo caratterizzata prevalentemente da logiche di carattere escludente e incapacitante. Per chi si occupa della questione dal punto di vista giuridico – e in particolare dal versante costituzionale – tanto la necessità di integrare, quanto quella di includere le persone con disabilità discendono direttamente dalla precettività dei principi e dei valori contenuti nella carta repubblicana del 1948. Le nozioni di paternalismo e di antipaternalismo sono state elaborate in campo filosofico-giuridico. È necessario osservare che la nozione di paternalismo è sorta e si è sviluppata compiutamente in un ambito assiologico e politico come quello anglosassone, di stampo liberale, tendenzialmente poco incline ad ammettere una legittimazione della compressione della libertà dell’individuo. un atteggiamento paternalista nei confronti delle persone con disabilità sia stato per molto tempo un tratto ricorrente dell’atteggiarsi degli ordinamenti della tradizione giuridica occidentale, e sia stato considerato quale conseguenza fisiologica dell’adozione del modello medico della disabilità. Le istanze antipaternalistiche moderate qui illustrate, riconducibili all’articolo 19 della Convenzione ONU, potrebbero poi essere estese a ulteriori contesti istituzionalizzanti; si pensi, ad esempio, alla potenziale rilevanza, ancora non particolarmente approfondita dalla letteratura giuridica, derivante dall’applicazione del diritto alla vita indipendente alle persone anziane che fruiscano di servizi di Long-Term Care (LTC). Ritornando sul versante dei diritti delle persone, va evidenziato, in conclusione, che un antipaternalismo costituzionalmente orientato vive nei diritti e si alimenta dei diritti stessi.
1. Introduzione
La condizione giuridica delle
persone con disabilità, come evidenziato anche da chi se ne è occupato in una
prospettiva storica [ex multis, Schianchi 2012,
passim], è stata a lungo caratterizzata prevalentemente da
logiche di carattere escludente e incapacitante. Per questo, analizzare la dialettica
politica e sociale fra i concetti di integrazione e inclusione da un lato, ed esclusione
dall’altro, non è un’operazione semplice, né lineare; come ha osservato Henri-Jacques
Stiker [Stiker 2013], gli interrogativi che pongono i primi due concetti sono, per certi
versi, più complessi e stratificati rispetto a quelli posti dal terzo. Oggi siamo
infatti abituati a considerare integrazione e inclusione come la conseguenza ovvia ed
eticamente necessaria di un certo assetto politico e costituzionale e ciò vale, per
certi versi, a camuffarne e confonderne nodi critici e aspetti problematici.
L’esclusione, al contrario, è considerata un qualcosa di residuale, di cui, con relativa
fatica, è ben possibile mettere a fuoco l’eziologia:
Le pourquoi de l’exclusion se repère assez facilement: système économique axé sur la rentabilité, système économique qui peut se payer le luxe «d’assister» largement ses sujets, qui sont souvent ses victimes, mais qui considèrent comme onéreuse la prévention et la réintégration socioprofessionnelle; système culturel qui ne sait plus faire vivre les différences parce que ses schèmes sont ceux de l’identité, du «tous semblables»; système du pouvoir médical, appuyé sur la «clinique» et son histoire [Stiker 2013, 21] [1] .¶{p. 414}
Per chi si occupa della questione
dal punto di vista giuridico – e in particolare dal versante costituzionale – tanto la
necessità di integrare, quanto quella di includere le persone con disabilità discendono
direttamente dalla precettività dei principi e dei valori contenuti nella carta
repubblicana del 1948. In una sua nota e risalente pronuncia, la Corte costituzionale
affermò che «sul tema della condizione giuridica del portatore di handicaps confluisc[e]
un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno
costituzionale; e [...] conseguentemente, il canone ermeneutico da impiegare in siffatta
materia è essenzialmente dato dall’interrelazione e integrazione tra i precetti in cui
quei valori trovano espressione e tutela». Visto che nel caso di specie la Consulta
richiama i principi di cui agli articoli 2 e 3 della Costituzione, è logico supporre che
siano le norme appena citate a dar copertura alla condizione delle persone con
disabilità generalmente considerata, facendo discendere dal principio personalista, dal
principio di solidarietà e dal principio d’eguaglianza un vero e proprio imperativo
costituzionale volto all’inclusione [Colapietro e Girelli 2020, 74 ss.]. Pertanto, la
declinazione e la garanzia delle singole situazioni giuridiche soggettive delle persone
con disabilità dovranno essere radicate sì in norme di diritto positivo, di diverso
grado e di diversa natura, ma saranno sempre da analizzare alla luce dei principi
supremi dell’ordinamento.
Questa impostazione appare logica e
lineare nella lettura di situazioni evidentemente escludenti (si pensi, ad esempio, a
questioni relative all’inaccessibilità di un certo servizio o di un certo spazio
pubblico, tale da impedire il godimento di un diritto costituzionalmente sancito), in
cui la rimozione di un ostacolo o di una barriera sembra una fisiologica conseguenza
dell’applicazione del principio d’eguaglianza sostanziale di cui all’articolo 3, comma
2, della Costituzione. Invero, in molti frangenti, lo schema delineato da Stiker regge
alla perfezione: si ha un motivo di esclusione delle persone con disabilità, e la
Costituzione indica, volta per volta, quale sia la direzione verso la quale procedere,
imponendo la rimozione degli ostacoli che impediscono il fiorire della persona umana.
Tuttavia, questo percorso
logico-argomentativo subisce un arresto nel momento in cui viene apposta una certa
limitazione a quel che una persona con disabilità può fare, giustificando questa scelta
in vista del perseguimento e della salvaguardia del suo stesso bene. Si tratta dei casi
in cui si dà per scontato che essa non sia in grado di provvedere in maniera adeguata ai
propri stessi interessi e di decidere per se stessa, e – per tale motivo – se pur non la
si escluda apertamente dal godimento di determinati diritti, se ne limitano tuttavia le
sue possibilità di autodeterminarsi. Si entra così in una dimensione
incapacitante (cfr., in questo stesso studio, il contributo di
Bernardini) e lo si fa in una prospettiva paternalista, in cui non
si invocano, come nell’esemplificazione portata avanti da Stiker,
¶{p. 415}argomenti di carattere economico (ad esempio, con riferimento
al costo dei diritti), né la mancata percezione delle differenze e delle specificità
della condizione di disabilità. Anzi – come già accennato – proprio per tutelare le
persone con disabilità e alla luce della loro differenza, si agisce in maniera da
limitarne la libertà.
Anche se ciò è fatto «a fin di
bene», è necessario interrogarsi sull’ammissibilità di tali scelte, alla luce dei
principi costituzionali sopra invocati. In altri termini, la questione su cui qui ci si
interroga attiene all’ammissibilità o meno, nell’ordinamento italiano, di
un’impostazione paternalistica nei confronti delle persone con disabilità; in caso di
risposta affermativa a tale quesito, è poi opportuno cercare di comprendere i limiti e
il funzionamento del paternalismo giuridico applicato alla condizione giuridica delle
persone con disabilità.
In linea di massima, la risposta
alla prima delle due questioni è negativa. Questo contributo si propone proprio di
argomentare in maniera più distesa tale posizione.
Di seguito, si proporrà l’adozione
di un antipaternalismo moderato o costituzionalmente orientato, da utilizzare quale
approccio di ampio respiro alla condizione giuridica delle persone con disabilità. Ma
prima di entrare nel merito della domanda di ricerca al centro di questo contributo è
necessario dare un inquadramento di massima del concetto di paternalismo e di quello, a
esso antitetico, di antipaternalismo.
2. Il paternalismo e l’antipaternalismo in una prospettiva costituzionale: notazioni introduttive
Le nozioni di
paternalismo e di antipaternalismo sono
state elaborate in campo filosofico-giuridico. Per comprenderle, è pertanto necessario
effettuare una breve incursione in tale ambito. Partiamo quindi dalla definizione di
paternalismo coniata da uno degli studiosi che maggiormente hanno contribuito a
sviluppare la riflessione filosofica attorno a questo concetto, Gerald Dworkin. Possiamo
quindi intendere, per paternalismo, «the interference of a state or an individual with
another person, against their will, and defended or motivated by a claim that the person
interfered with will be better off or protected from harm»
[2]
e – di seguito – andare a distinguere vari tipi di paternalismo
(hard e soft; ampio e ristretto; debole e
forte; puro e impuro; rilevante sul piano morale o direttamente inerente al benessere
del soggetto in questione [cfr. Dworkin 2020]). Si tratta,
¶{p. 416}evidentemente, di una definizione piuttosto ampia, che ha le
sue radici nel pensiero di autori appartenenti al canone dei classici della filosofia
politica, da Immanuel Kant a John Stuart Mill
[3]
. Volendo adottarne una più dettagliata, possiamo far riferimento al
paternalismo come a quella
concezione etico-politica in base alla quale lo Stato, o un soggetto autorizzato dallo Stato, ha il diritto di usare la coercizione, contro la volontà di un individuo adulto, anche qualora le sue scelte siano, ad esempio, sufficientemente coerenti, basate sulla conoscenza dei fatti rilevanti e libere da coazione, al fine, esclusivo o principale, di tutelare (quelli che vengono considerati) i suoi interessi, ovvero (ciò che viene qualificato come) il suo bene; in particolare al fine di evitare che questi, tramite un’azione o un’omissione, cagioni, o rischi, o tenti in modo significativo di cagionare, a sé stesso (ciò che viene considerato) un danno, ad esempio fisico, psicofisico, economico [Maniaci 2012, 3].
A questo approccio, poi, se ne è
contrapposto un altro, antipaternalista, ad esso opposto e categorizzabile, quindi, allo
stesso modo
[4]
. Questa notazione ci conduce direttamente all’ipotesi di lavoro di questo
scritto, ovvero che sia non solo opportuno, ma costituzionalmente doveroso introdurre,
con riferimento alla condizione giuridica delle persone con disabilità, un orientamento
moderatamente antipaternalista, intendendo con quest’ultima locuzione
una concezione etico-politica in base alla quale lo Stato, o un soggetto autorizzato dallo Stato, non ha il diritto di usare la coercizione contro la volontà di un individuo adulto, al fine, esclusivo o principale, di evitare che questi, tramite un’a¶{p. 417}zione o un’omissione, cagioni o rischi, o tenti in modo significativo di cagionare a sé stesso (ciò che viene considerato) un danno, ad esempio fisico, psicofisico, economico (ledendo in questo modo il suo bene), se è certo o verosimile che la volontà di tale individuo adulto, volontà di compiere attività pericolose e/o dannose, si sia formata in modo razionale, e sia espressa da persona capace di intendere e volere, sia basata sulla conoscenza dei fatti rilevanti, sia stabile nel tempo e si sia formata in forma sufficientemente libera da pressioni coercitive [Maniaci 2011, 134].
È necessario osservare che la
nozione di paternalismo è sorta e si è sviluppata compiutamente in un ambito assiologico
e politico come quello anglosassone, di stampo liberale, tendenzialmente poco incline ad
ammettere una legittimazione della compressione della libertà dell’individuo
[5]
. Inoltre, va tenuto presente che l’interrogarsi sull’intersezione fra la
libertà dell’individuo e l’agire altrui (e, in particolare, l’azione dei poteri
pubblici) è uno dei cardini del costituzionalismo, sin dal suo sorgere. La discussione
relativa al paternalismo giuridico, quindi, è solo uno dei tanti rami di un albero
secolare.
La significatività della
riflessione che si intende qui condurre in relazione alla condizione giuridica delle
persone con disabilità è stata già in parte illustrata nel primo paragrafo di questo
scritto. A quanto osservato in precedenza, si può aggiungere che le dinamiche di
incapacitazione delle persone con disabilità e un approccio paternalistico alla loro
condizione giuridica sono stati (e, in parte, continuano a essere) considerati
fisiologici, dal momento che sulle persone con disabilità, generalmente considerate,
grava(va) una presunzione, spesso assoluta, di inadeguatezza rispetto alla gestione
della propria stessa esistenza. La visione paternalista della vita delle persone con
disabilità, del resto, può essere considerata una delle figure sintomatiche del modello
medico della disabilità: come è stato osservato, alla medicalizzazione della disabilità
si associa un approccio in forza del quale le scelte della persona con disabilità devono
essere validate dai professionisti della cura e della riabilitazione che sono chiamati a
occuparsene. L’approccio paternalista – è opportuno precisarlo – ha toccato e tocca
tutte le persone con disabilità; se esso è osservabile con particolare frequenza e
rilevanza nell’esaminare la condizione delle persone con disabilità psichiche e
psicosociali, ciò non può indurre a sottovalutarne l’influenza anche per quel che
concerne le persone con disabilità fisiche. Fornite alcune coordinate concettuali
fondamentali, è ora necessario passare a un altro ambito di indagine, ovvero quello del
rapporto fra l’antipaternalismo e la Costituzione repubblicana del
1948.
¶{p. 418}
Note
[1] «Il perché dell’esclusione si rinviene abbastanza agevolmente: un sistema economico basato sulla redditività e che può permettersi il lusso di “assistere” ampiamente i suoi soggetti, che spesso ne sono le vittime, ma che considera onerosa la prevenzione [dei motivi di esclusione] e reinserimento professionale; un sistema culturale che non sa più far vivere le differenze perché i suoi schemi sono quelli dell’identità, del “tutti uguali”; un sistema di potere medico, basato sulla “clinica” e sulla sua storia».
[2] «L’interferenza di uno Stato o di una persona nei confronti di un’altra persona, contro la volontà di quest’ultima, difesa o motivata dall’affermare che la persona interferita sarà protetta da un danno o ne beneficerà».
[3] «What, then, is the rightful limit to the sovereignty of the individual over himself? Where does the authority of society begin? How much of human life should be assigned to individuality, and how much to society?» («Qual è, quindi, il limite legittimo della sovranità dell’individuo su sé stesso? Dove inizia l’autorità della società? Quanto della vita umana deve essere assegnato all’individuo, e quanto alla società?»): è questo l’interrogativo con cui si apre il IV capitolo del On Liberty di Mill. Per quanto riguarda l’impostazione kantiana, si è osservato che si fa solitamente riferimento a un passaggio di un’opera minore del filosofo di Königsberg, in cui si afferma «a dire il vero in maniera piuttosto incidentale, che “un governo [...] fondato sul principio della benevolenza verso il popolo, come un padre verso i suoi figli [...], dove dunque i sudditi, come figli minorenni, che non sanno decidere cosa sia loro veramente utile o dannoso, siano costretti a comportarsi in modo puramente passivo, così da dover aspettare soltanto dai giudizi del capo dello Stato come debbano essere felici [...] è il massimo dispotismo pensabile”»: lo riporta Bresciani [2021, 249]. Quest’ultimo A. evidenzia – condivisibilmente – come a suo parere andrebbe tenuta in dovuta considerazione quella che è l’impostazione kantiana in termini generali: «l’atteggiamento della dottrina giuridica verso il paternalismo, difatti, risponde proprio al detto comune che Kant intende sfatare: tutti tendono a rifiutare il paternalismo in teoria, salvo ammetterlo senza particolari riserve nella pratica» (ibidem).
[4] Ovvero, così come è possibile configurare un paternalismo hard e soft è possibile prospettare un antipaternalismo hard e un antipaternalismo soft, un antipaternalismo ampio e un antipaternalismo ristretto, e così via.
[5] Quanto appena affermato, peraltro, non deve indurre a eccessive e semplicistiche mitizzazioni dell’individualismo presente nella società statunitense; cfr. al riguardo Shain [1994].