Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c17
Una volta chiarito che è
possibile sostenere, nel nostro ordinamento, un approccio moderatamente
antipaternalista e che i giudici, in svariate occasioni, si sono trovati invece ad
applicare una disciplina di stampo paternalista o, come abbiamo visto, a valutarne
la legittimità costituzionale, è il momento di affrontare alcune possibili ricadute
dell’approccio qui proposto sulla condizione giuridica delle persone con disabilità
e sulle loro libertà.
¶{p. 423}
3. Condizione giuridica delle persone con disabilità e antipaternalismo costituzionalmente orientato
Si è già messo in risalto come un
atteggiamento paternalista nei confronti delle persone con disabilità sia stato per
molto tempo un tratto ricorrente dell’atteggiarsi degli ordinamenti della tradizione
giuridica occidentale, e sia stato considerato quale conseguenza fisiologica
dell’adozione del modello medico della disabilità. Inoltre, chi ha studiato i diritti e
i doveri delle persone con disabilità da una prospettiva costituzionale ha sottolineato
che, sebbene l’articolo 38 sia l’unica parte della carta repubblicana del 1948 in cui
venga menzionata espressamente la condizione delle persone con disabilità, la loro
posizione rinvenga «una protezione costituzionale nell’intero programma di giustizia
sociale delineato dalla nostra Costituzione – che ben può essere definita come
«Costituzione inclusiva», anche grazie agli interventi evolutivi posti in essere dalla
Corte costituzionale, prima ancora che dal legislatore [Arconzo 2020, 139-140].
E, ancora, già tempo fa autorevole
dottrina ha evidenziato come nello stesso articolo 2 Cost. si possa individuare il
riferimento alla garanzia, per tutti, dei «diritti di libertà
civile» (e particolarmente delle libertà negative, fra cui anche la libertà personale
come tutelata ex art. 13 Cost.) [Panunzio 1986, 362 ss.].
Orbene, se esiste una relazione
così evidente fra la condizione giuridica delle persone con disabilità e i principi
costituzionali appena evocati, è chiaro che ogni misura e ogni decisione che vadano a
limitare la autodeterminazione di questi soggetti e, quindi, la loro libertà, debbano
essere considerate adoperando delle cautele particolari.
Proprio in questo senso sembra
promettente l’utilizzo dell’approccio moderatamente antipaternalista sopra descritto.
Ciò alla luce, in particolare, del percorso di deistituzionalizzazione iniziato negli
anni Settanta del Novecento
[17]
e ancor oggi in corso, pur con incertezze, rallentamenti e, in alcuni casi,
arretramenti. Questo andamento niente affatto lineare è testimoniato sia dalla realtà
fattuale, rappresentata dal gran numero di persone che ancora oggi vivono all’interno di
istituzioni residenziali isolate rispetto al resto del corpo sociale, sia dalla
diffidenza relativa alla possibilità che le persone con disabilità, tanto fisica quanto
psichica, siano capaci di decidere per sé stesse e di vivere la propria vita con la
massima autonomia e la massima libertà possibile. In molti casi, difatti, i percorsi
istituzionalizzanti nei confronti delle persone con disabilità sono giustificati non
solo o non ¶{p. 424}tanto dall’idea che sia necessario proteggere la
società da eventuali pericoli posti in essere dalla stessa esistenza delle persone con
disabilità, ma anche dall’idea che queste ultime, data la loro inadeguatezza intrinseca,
debbano essere costantemente protette da sé stesse, oppure inserite all’interno di
processi riabilitativi che in realtà vogliono tendere alla loro normalizzazione, sulla
base delle indicazioni, paternalistiche, di professionisti della cura e dell’assistenza,
titolati e competenti per decidere del bene altrui.
Un quadro del genere, com’è
evidente, ha immediati e gravi riflessi sul piano della tutela dei diritti e delle
libertà costituzionali. Ma di quali, nello specifico?
S’è accennato,
supra, alla rilevanza dell’articolo 13 Cost. e
dell’inviolabilità della libertà personale.
Emergono altre indicazioni se si
volge lo sguardo all’ordinamento internazionale – e in particolare alla Convenzione ONU
sui diritti delle persone con disabilità, ratificata e resa esecutiva con la l. n. 18
del 2009. È lì possibile individuare una disposizione, l’articolo 19, intitolato «Vita
indipendente e inclusione nella società», ove si statuisce che
Gli Stati Parti alla presente Convenzione riconoscono il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società, anche assicurando che:a) le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione;b) le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione;c) i servizi e le strutture sociali destinati a tutta la popolazione siano messi a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adattati ai loro bisogni.
Il testo della disposizione in
parola consente di evidenziare immediatamente alcuni dei caratteri del diritto alla vita
indipendente, da considerare come la principale espressione dell’approccio innovativo
che, a livello internazionale, da alcuni anni, sta caratterizzando l’azione a tutela dei
diritti delle persone con disabilità, da considerare «come i migliori artefici del loro
futuro» [Zambrano 2010, 240]
[18]
.
In primo luogo, si può sottolineare
la centralità del diritto alla vita indipendente all’interno della Convenzione ONU, e in
particolare alla ¶{p. 425}luce di quanto previsto dall’articolo 12 della
Convenzione. Inoltre, si può rilevare come esso si presenti come una sorta di fascio di
diritti (o, se si vuole, un metadiritto), dal momento che sarebbero riconducibili a esso
svariate situazioni a carattere prestazionale, assimilabili, per struttura, ai diritti
sociali; da un altro lato, però, esso si presenta, evidentemente, anche come una
libertà, consistente nel poter scegliere dove e con chi vivere. Questo aspetto, nella
prospettiva adottata nel presente contributo, è assai rilevante, poiché si pone in netto
contrasto con le aspettative paternalistiche. Riconoscere a tutte le persone con disabilità
[19]
il poter scegliere liberamente dove trascorrere la propria esistenza,
difatti, da un lato è un passo fondamentale per garantirne la deistituzionalizzazione
nella sua accezione spaziale, legata, appunto, al dove vivere. Ma una scelta di questo
genere, a ben vedere, è anche intrinsecamente antipaternalista, nel senso che
apparentemente una simile libertà andrebbe contro, potenzialmente, il benessere e la
garanzia di ulteriori diritti delle persone coinvolte. Si tratterebbe – si è a lungo
ritenuto – di situazioni giuridiche soggettive che potrebbero essere meglio tutelate in
ambienti protetti, in cui non solo gli spazi, ma anche i tempi, i ritmi, le attività e
le relazioni siano decisi non dalle persone con disabilità, ma da altri. È – lo
ribadiamo – una logica ingannevole ed errata, contraria alla prospettiva costituzionale
argomentata in questa sede e, appunto, alla Convenzione ONU. Inoltre, un approccio
paternalista come quello appena descritto è rischioso, poiché i meccanismi
istituzionalizzanti tendono ad alimentare situazioni di «soggezione speciale» (in
particolare, ma non solo, rispetto ai professionisti della cura) e aumentano
sensibilmente il rischio di violazione dei diritti umani delle persone con disabilità
[20]
.
Ma l’affermazione del diritto alla
vita indipendente delle persone con disabilità, coerente con la prospettiva
moderatamente antipaternalista e costituzionalmente orientata qui proposta, non sembra
ancora saldamente radicata, né socialmente, né culturalmente: dell’autodeterminazione
delle persone con disabilità, spesso, si diffida e queste ultime, in molti frangenti,
finiscono per subire dinamiche di carattere paternalista anche all’interno dei loro
nuclei familiari e in contesti domiciliari.
A quanto sino a questo momento
esposto, possono poi sommarsi ulteriori considerazioni, derivanti dai due passaggi di
altrettante sentenze della ¶{p. 426}Corte costituzionale, già richiamate
supra. Innanzitutto, si può ricordare quanto affermato dalla
Corte nella sent. n. 105 del 2001, in cui si tracciava un collegamento fra
l’assoggettamento (in senso fisico) all’altrui potere, anche in presenza di finalità
assistenziali, e una minaccia alla dignità dell’uomo, asserendo che quest’ultima viene
messa a rischio ogni volta in cui si realizzi, appunto, un assoggettamento.
Il secondo passaggio da porre in
risalto, invece, è contenuto nella sent. n. 127 del 2022; si tratta del passaggio,
integralmente riportato poco sopra, in cui si fa riferimento a una «degradazione
giuridica» rilevante ai fini della violazione della libertà personale e si richiamano
situazioni in cui una data disciplina stigmatizzante, isolando un certo gruppo di
soggetti rispetto al resto della collettività, finisce per violarne la pari dignità
sociale. In questa prospettiva, anche alla luce di quanto esposto in termini generali a
proposito del rapporto fra libertà personale e principi supremi dell’ordinamento, è
evidente come una disciplina di stampo paternalista che esplicitamente mirasse a
incidere sull’autodeterminazione delle persone con disabilità sarebbe da valutare in
maniera piuttosto critica, giacché essa reitererebbe uno stigma perdurante e consolidato
ai danni di queste ultime e, presumendole meno capaci, sarebbe implicitamente lesiva
della loro dignità sociale
[21]
.
Infine, meritano alcune
considerazioni i riferimenti, appena formulati, alla dignità umana e alla dignità
sociale, tenendo ben presente che «l’utilizzo del concetto di dignità può in pari misura
rafforzare la sfera dei diritti, soprattutto di quelli sociali [...] o al contrario può
restringere la sfera dei diritti di libertà» [così Flick 2014, 24; cfr. anche Resta
2002, in particolare 825-828].
In relazione a quello che è il
punto focale di questo contributo, ovvero l’adozione di una prospettiva
antipaternalista, l’utilizzo del concetto di dignità richiede quindi una particolare
cautela. Si pensi, se si abbracciasse un approccio di antipaternalismo radicale, al
possibile richiamo al concetto di dignità oggettiva nel caso in cui vengano in rilievo
situazioni in cui sia difficile – o financo impossibile – la formulazione di una propria
preferenza e di una propria scelta. Per questo – va ribadito – quello che si vuole
proporre in questa sede è un approccio moderatamente antipaternalista, tale da non
escludere che in alcune situazioni si possano adottare misure
paternaliste qualora sia impossibile, per la persona titolare
di una certa situazione giuridica soggettiva, disporne sulla base di una scelta
razionale.
Da un lato, questa impostazione, se
calata in un contesto in cui siano rafforzati i meccanismi di supported
decision making, è coerente con gli ¶{p. 427}intenti di
chi si oppone all’idea che l’approccio giusto da seguire, per quanto riguarda le scelte
delle persone con disabilità, sia andare verso «l’indebolimento della [...] soggettività
giuridica spesso senza modellarla rispetto alle esigenze poste da ogni singola
situazione e con la rinuncia a quella elasticità che potrebbe rompere lo schema della
neutralizzazione delle soggettività non paradigmatiche» [Cembrani 2022, 949]. D’altra
parte, però, l’orientamento costituzionale cui l’antipaternalismo qui proposto vorrebbe
conformarsi può comportare l’opportunità di adottare misure che impediscano conseguenze
potenzialmente molto negative a carico delle soggettività appena evocate.
Quello che si propone, in ultima
analisi, è il tentativo di trovare un punto di equilibrio tra le istanze emancipatorie e
di libertà e l’evitare che esse producano, paradossalmente, effetti indesiderabili e a
loro volta degradanti. Ciò pare coerente con la garanzia del principio personalista e
del principio di solidarietà, ma scelte improntate a una logica paternalistica, come
detto sopra, andrebbero sempre valutate in termini di proporzionalità e ragionevolezza
e, quando si tracimi in possibili violazioni della libertà personale, tenendo presenti
le garanzie previste dall’articolo 13 Cost.
4. Conclusioni
Si è provato a dare un fondamento
costituzionale al rapporto esistente fra il quadro assiologico e giuridico stabilito
dalla Costituzione italiana e quello che – come ampiamente illustrato – è un approccio
antipaternalista moderato o, meglio, costituzionalmente orientato. I possibili ambiti di
applicazione dell’approccio in questione, riguardo ai diritti delle persone con
disabilità, sono svariati. Pensiamo a come esso possa essere utile per arricchire il
catalogo dei diritti, oppure nella gestione e nello studio dei rapporti con
l’ordinamento internazionale e sovranazionale. E ciò sia, com’è intuibile, in una
prospettiva armonizzatrice, sia – se del caso – utilizzando l’approccio qui proposto
come eventuale controlimite a istanze paternalistiche provenienti proprio da fonti
internazionali e sovranazionali
[22]
.
Oppure, ancora, pensiamo alla
rilevanza che esso dovrebbe assumere nell’affrontare le sfide poste dall’evolversi delle
tecnologie e dallo sviluppo del machine paternalism
[23]
.
Inoltre, va sottolineato come si
tratti di un’impostazione concettuale che può poi essere arricchita e sviluppata
ulteriormente, a partire dal
¶{p. 428}rapporto fra il diritto alla
libertà personale, l’antipaternalismo e il diritto alla vita indipendente delle persone
con disabilità, visto e considerato che nell’esperienza quotidiana di queste ultime
l’intreccio appena evocato ricorre con una certa frequenza, anche in ambiti
apparentemente lontani da quelli relativi alle scelte complesse, difficili o addirittura
tragiche.
Note
[17] A partire, in particolare dalla legge n. 517 del 1977, con l’abolizione delle classi speciali, e dalla legge n. 180 del 1978, relativa alla chiusura dei manicomi. Sull’importanza della seconda delle due fonti citate, la legge Basaglia, cfr. Piccione [2010, passim]. Sul rapporto fra diritti costituzionali e salute mentale, cfr. ex plurimis Rossi [2015].
[18] Oltre a quello di cui si è riportato un passaggio, si vedano altresì i commenti di Palmisano [2017] e di Fiala-Butora, Rimmermann e Gur [2018].
[19] Ivi comprese quelle con disabilità derivanti da problemi di salute mentale; sul punto, cfr. il General comment n. 5 del Comitato ONU, disponibile all’indirizzo https://www.ohchr.org/en/documents/general-comments-and-recommendations/general-comment-no5-article-19-right-live e il relativo commento, dedicato proprio alle ricadute del General comment sulle persone con disabilità derivanti da problemi di salute mentale, di Gooding [2018].
[20] ... mettendo quindi a repentaglio la garanzia di altri diritti pure tutelati dalla Convenzione ONU, come, ad esempio, quello consacrato all’articolo 15, relativo al divieto di sottoporre le persone con disabilità a tortura, a pene o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
[21] Sull’opportunità di un approccio disability neutral al fine di limitare gli interventi esterni nella sfera personale e giuridica delle persone con disabilità, cfr. Flynn e Arstein-Kerslake [2017].
[22] Sui trattati sui diritti umani come strumento paternalista, cfr. Lixinski e Peleg [2022].
[23] Resta inteso che è possibile, ovviamente, utilizzare le tecnologie digitali in una prospettiva capacitante e antipaternalista: si rimanda, sul punto, alle considerazioni di Gooding, Arstein-Kerslake e Flynn [2015].