Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c17
Una volta chiarito che è possibile sostenere, nel nostro ordinamento, un approccio moderatamente antipaternalista e che i giudici, in svariate occasioni, si sono trovati invece ad applicare una disciplina di stampo paternalista o, come abbiamo visto, a valutarne la legittimità costituzionale, è il momento di affrontare alcune possibili ricadute dell’approccio qui proposto sulla condizione giuridica delle persone con disabilità e sulle loro libertà.
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3. Condizione giuridica delle persone con disabilità e antipaternalismo costituzionalmente orientato

Si è già messo in risalto come un atteggiamento paternalista nei confronti delle persone con disabilità sia stato per molto tempo un tratto ricorrente dell’atteggiarsi degli ordinamenti della tradizione giuridica occidentale, e sia stato considerato quale conseguenza fisiologica dell’adozione del modello medico della disabilità. Inoltre, chi ha studiato i diritti e i doveri delle persone con disabilità da una prospettiva costituzionale ha sottolineato che, sebbene l’articolo 38 sia l’unica parte della carta repubblicana del 1948 in cui venga menzionata espressamente la condizione delle persone con disabilità, la loro posizione rinvenga «una protezione costituzionale nell’intero programma di giustizia sociale delineato dalla nostra Costituzione – che ben può essere definita come «Costituzione inclusiva», anche grazie agli interventi evolutivi posti in essere dalla Corte costituzionale, prima ancora che dal legislatore [Arconzo 2020, 139-140].
E, ancora, già tempo fa autorevole dottrina ha evidenziato come nello stesso articolo 2 Cost. si possa individuare il riferimento alla garanzia, per tutti, dei «diritti di libertà civile» (e particolarmente delle libertà negative, fra cui anche la libertà personale come tutelata ex art. 13 Cost.) [Panunzio 1986, 362 ss.].
Orbene, se esiste una relazione così evidente fra la condizione giuridica delle persone con disabilità e i principi costituzionali appena evocati, è chiaro che ogni misura e ogni decisione che vadano a limitare la autodeterminazione di questi soggetti e, quindi, la loro libertà, debbano essere considerate adoperando delle cautele particolari.
Proprio in questo senso sembra promettente l’utilizzo dell’approccio moderatamente antipaternalista sopra descritto. Ciò alla luce, in particolare, del percorso di deistituzionalizzazione iniziato negli anni Settanta del Novecento [17]
e ancor oggi in corso, pur con incertezze, rallentamenti e, in alcuni casi, arretramenti. Questo andamento niente affatto lineare è testimoniato sia dalla realtà fattuale, rappresentata dal gran numero di persone che ancora oggi vivono all’interno di istituzioni residenziali isolate rispetto al resto del corpo sociale, sia dalla diffidenza relativa alla possibilità che le persone con disabilità, tanto fisica quanto psichica, siano capaci di decidere per sé stesse e di vivere la propria vita con la massima autonomia e la massima libertà possibile. In molti casi, difatti, i percorsi istituzionalizzanti nei confronti delle persone con disabilità sono giustificati non solo o non {p. 424}tanto dall’idea che sia necessario proteggere la società da eventuali pericoli posti in essere dalla stessa esistenza delle persone con disabilità, ma anche dall’idea che queste ultime, data la loro inadeguatezza intrinseca, debbano essere costantemente protette da sé stesse, oppure inserite all’interno di processi riabilitativi che in realtà vogliono tendere alla loro normalizzazione, sulla base delle indicazioni, paternalistiche, di professionisti della cura e dell’assistenza, titolati e competenti per decidere del bene altrui.
Un quadro del genere, com’è evidente, ha immediati e gravi riflessi sul piano della tutela dei diritti e delle libertà costituzionali. Ma di quali, nello specifico?
S’è accennato, supra, alla rilevanza dell’articolo 13 Cost. e dell’inviolabilità della libertà personale.
Emergono altre indicazioni se si volge lo sguardo all’ordinamento internazionale – e in particolare alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata e resa esecutiva con la l. n. 18 del 2009. È lì possibile individuare una disposizione, l’articolo 19, intitolato «Vita indipendente e inclusione nella società», ove si statuisce che
Gli Stati Parti alla presente Convenzione riconoscono il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società, anche assicurando che:
a) le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione;
b) le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione;
c) i servizi e le strutture sociali destinati a tutta la popolazione siano messi a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adattati ai loro bisogni.
Il testo della disposizione in parola consente di evidenziare immediatamente alcuni dei caratteri del diritto alla vita indipendente, da considerare come la principale espressione dell’approccio innovativo che, a livello internazionale, da alcuni anni, sta caratterizzando l’azione a tutela dei diritti delle persone con disabilità, da considerare «come i migliori artefici del loro futuro» [Zambrano 2010, 240] [18]
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In primo luogo, si può sottolineare la centralità del diritto alla vita indipendente all’interno della Convenzione ONU, e in particolare alla {p. 425}luce di quanto previsto dall’articolo 12 della Convenzione. Inoltre, si può rilevare come esso si presenti come una sorta di fascio di diritti (o, se si vuole, un metadiritto), dal momento che sarebbero riconducibili a esso svariate situazioni a carattere prestazionale, assimilabili, per struttura, ai diritti sociali; da un altro lato, però, esso si presenta, evidentemente, anche come una libertà, consistente nel poter scegliere dove e con chi vivere. Questo aspetto, nella prospettiva adottata nel presente contributo, è assai rilevante, poiché si pone in netto contrasto con le aspettative paternalistiche. Riconoscere a tutte le persone con disabilità [19]
il poter scegliere liberamente dove trascorrere la propria esistenza, difatti, da un lato è un passo fondamentale per garantirne la deistituzionalizzazione nella sua accezione spaziale, legata, appunto, al dove vivere. Ma una scelta di questo genere, a ben vedere, è anche intrinsecamente antipaternalista, nel senso che apparentemente una simile libertà andrebbe contro, potenzialmente, il benessere e la garanzia di ulteriori diritti delle persone coinvolte. Si tratterebbe – si è a lungo ritenuto – di situazioni giuridiche soggettive che potrebbero essere meglio tutelate in ambienti protetti, in cui non solo gli spazi, ma anche i tempi, i ritmi, le attività e le relazioni siano decisi non dalle persone con disabilità, ma da altri. È – lo ribadiamo – una logica ingannevole ed errata, contraria alla prospettiva costituzionale argomentata in questa sede e, appunto, alla Convenzione ONU. Inoltre, un approccio paternalista come quello appena descritto è rischioso, poiché i meccanismi istituzionalizzanti tendono ad alimentare situazioni di «soggezione speciale» (in particolare, ma non solo, rispetto ai professionisti della cura) e aumentano sensibilmente il rischio di violazione dei diritti umani delle persone con disabilità [20]
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Ma l’affermazione del diritto alla vita indipendente delle persone con disabilità, coerente con la prospettiva moderatamente antipaternalista e costituzionalmente orientata qui proposta, non sembra ancora saldamente radicata, né socialmente, né culturalmente: dell’autodeterminazione delle persone con disabilità, spesso, si diffida e queste ultime, in molti frangenti, finiscono per subire dinamiche di carattere paternalista anche all’interno dei loro nuclei familiari e in contesti domiciliari.
A quanto sino a questo momento esposto, possono poi sommarsi ulteriori considerazioni, derivanti dai due passaggi di altrettante sentenze della {p. 426}Corte costituzionale, già richiamate supra. Innanzitutto, si può ricordare quanto affermato dalla Corte nella sent. n. 105 del 2001, in cui si tracciava un collegamento fra l’assoggettamento (in senso fisico) all’altrui potere, anche in presenza di finalità assistenziali, e una minaccia alla dignità dell’uomo, asserendo che quest’ultima viene messa a rischio ogni volta in cui si realizzi, appunto, un assoggettamento.
Il secondo passaggio da porre in risalto, invece, è contenuto nella sent. n. 127 del 2022; si tratta del passaggio, integralmente riportato poco sopra, in cui si fa riferimento a una «degradazione giuridica» rilevante ai fini della violazione della libertà personale e si richiamano situazioni in cui una data disciplina stigmatizzante, isolando un certo gruppo di soggetti rispetto al resto della collettività, finisce per violarne la pari dignità sociale. In questa prospettiva, anche alla luce di quanto esposto in termini generali a proposito del rapporto fra libertà personale e principi supremi dell’ordinamento, è evidente come una disciplina di stampo paternalista che esplicitamente mirasse a incidere sull’autodeterminazione delle persone con disabilità sarebbe da valutare in maniera piuttosto critica, giacché essa reitererebbe uno stigma perdurante e consolidato ai danni di queste ultime e, presumendole meno capaci, sarebbe implicitamente lesiva della loro dignità sociale [21]
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Infine, meritano alcune considerazioni i riferimenti, appena formulati, alla dignità umana e alla dignità sociale, tenendo ben presente che «l’utilizzo del concetto di dignità può in pari misura rafforzare la sfera dei diritti, soprattutto di quelli sociali [...] o al contrario può restringere la sfera dei diritti di libertà» [così Flick 2014, 24; cfr. anche Resta 2002, in particolare 825-828].
In relazione a quello che è il punto focale di questo contributo, ovvero l’adozione di una prospettiva antipaternalista, l’utilizzo del concetto di dignità richiede quindi una particolare cautela. Si pensi, se si abbracciasse un approccio di antipaternalismo radicale, al possibile richiamo al concetto di dignità oggettiva nel caso in cui vengano in rilievo situazioni in cui sia difficile – o financo impossibile – la formulazione di una propria preferenza e di una propria scelta. Per questo – va ribadito – quello che si vuole proporre in questa sede è un approccio moderatamente antipaternalista, tale da non escludere che in alcune situazioni si possano adottare misure paternaliste qualora sia impossibile, per la persona titolare di una certa situazione giuridica soggettiva, disporne sulla base di una scelta razionale.
Da un lato, questa impostazione, se calata in un contesto in cui siano rafforzati i meccanismi di supported decision making, è coerente con gli {p. 427}intenti di chi si oppone all’idea che l’approccio giusto da seguire, per quanto riguarda le scelte delle persone con disabilità, sia andare verso «l’indebolimento della [...] soggettività giuridica spesso senza modellarla rispetto alle esigenze poste da ogni singola situazione e con la rinuncia a quella elasticità che potrebbe rompere lo schema della neutralizzazione delle soggettività non paradigmatiche» [Cembrani 2022, 949]. D’altra parte, però, l’orientamento costituzionale cui l’antipaternalismo qui proposto vorrebbe conformarsi può comportare l’opportunità di adottare misure che impediscano conseguenze potenzialmente molto negative a carico delle soggettività appena evocate.
Quello che si propone, in ultima analisi, è il tentativo di trovare un punto di equilibrio tra le istanze emancipatorie e di libertà e l’evitare che esse producano, paradossalmente, effetti indesiderabili e a loro volta degradanti. Ciò pare coerente con la garanzia del principio personalista e del principio di solidarietà, ma scelte improntate a una logica paternalistica, come detto sopra, andrebbero sempre valutate in termini di proporzionalità e ragionevolezza e, quando si tracimi in possibili violazioni della libertà personale, tenendo presenti le garanzie previste dall’articolo 13 Cost.

4. Conclusioni

Si è provato a dare un fondamento costituzionale al rapporto esistente fra il quadro assiologico e giuridico stabilito dalla Costituzione italiana e quello che – come ampiamente illustrato – è un approccio antipaternalista moderato o, meglio, costituzionalmente orientato. I possibili ambiti di applicazione dell’approccio in questione, riguardo ai diritti delle persone con disabilità, sono svariati. Pensiamo a come esso possa essere utile per arricchire il catalogo dei diritti, oppure nella gestione e nello studio dei rapporti con l’ordinamento internazionale e sovranazionale. E ciò sia, com’è intuibile, in una prospettiva armonizzatrice, sia – se del caso – utilizzando l’approccio qui proposto come eventuale controlimite a istanze paternalistiche provenienti proprio da fonti internazionali e sovranazionali [22]
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Oppure, ancora, pensiamo alla rilevanza che esso dovrebbe assumere nell’affrontare le sfide poste dall’evolversi delle tecnologie e dallo sviluppo del machine paternalism [23]
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Inoltre, va sottolineato come si tratti di un’impostazione concettuale che può poi essere arricchita e sviluppata ulteriormente, a partire dal
{p. 428}rapporto fra il diritto alla libertà personale, l’antipaternalismo e il diritto alla vita indipendente delle persone con disabilità, visto e considerato che nell’esperienza quotidiana di queste ultime l’intreccio appena evocato ricorre con una certa frequenza, anche in ambiti apparentemente lontani da quelli relativi alle scelte complesse, difficili o addirittura tragiche.
Note
[17] A partire, in particolare dalla legge n. 517 del 1977, con l’abolizione delle classi speciali, e dalla legge n. 180 del 1978, relativa alla chiusura dei manicomi. Sull’importanza della seconda delle due fonti citate, la legge Basaglia, cfr. Piccione [2010, passim]. Sul rapporto fra diritti costituzionali e salute mentale, cfr. ex plurimis Rossi [2015].
[18] Oltre a quello di cui si è riportato un passaggio, si vedano altresì i commenti di Palmisano [2017] e di Fiala-Butora, Rimmermann e Gur [2018].
[19] Ivi comprese quelle con disabilità derivanti da problemi di salute mentale; sul punto, cfr. il General comment n. 5 del Comitato ONU, disponibile all’indirizzo https://www.ohchr.org/en/documents/general-comments-and-recommendations/general-comment-no5-article-19-right-live e il relativo commento, dedicato proprio alle ricadute del General comment sulle persone con disabilità derivanti da problemi di salute mentale, di Gooding [2018].
[20] ... mettendo quindi a repentaglio la garanzia di altri diritti pure tutelati dalla Convenzione ONU, come, ad esempio, quello consacrato all’articolo 15, relativo al divieto di sottoporre le persone con disabilità a tortura, a pene o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
[21] Sull’opportunità di un approccio disability neutral al fine di limitare gli interventi esterni nella sfera personale e giuridica delle persone con disabilità, cfr. Flynn e Arstein-Kerslake [2017].
[22] Sui trattati sui diritti umani come strumento paternalista, cfr. Lixinski e Peleg [2022].
[23] Resta inteso che è possibile, ovviamente, utilizzare le tecnologie digitali in una prospettiva capacitante e antipaternalista: si rimanda, sul punto, alle considerazioni di Gooding, Arstein-Kerslake e Flynn [2015].