Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c16
In primo luogo, merita citare la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Stanev c. Bulgaria [56]
: in questa pronuncia la Corte, oltre a ritenere la sussistenza del trattamento inumano o degradante nei confronti di una persona con disabilità psichica, parzialmente interdetta e posta sotto tutela, con internamento coattivo in istituto per
{p. 406}pazienti psichiatrici in luogo di montagna remoto, con cibo insufficiente e di cattiva qualità, in edificio con riscaldamento inidoneo, con toilette in stato non dignitoso e docce prive di minimi requisiti di igiene e disponibili una sola volta a settimana, ha considerato violate anche varie disposizioni contenute nell’articolo 5 in tema di libertà e sicurezza. In particolare, la detenzione è stata ritenuta non giustificata ai sensi dell’articolo 5, par. 1, lett. e), della CEDU non emergendo che si trattasse di «alienato», dato il biennio trascorso tra la perizia psichiatrica e il ricovero, senza che il tutore si interessasse di accertare se vi fossero cambiamenti nelle condizioni di salute; inoltre, non vi era stata per l’interessato la possibilità di richiedere il riesame in sede giudiziaria della misura (art. 5, par. 4) né di richiedere un indennizzo (art. 5, par. 5).
Per quanto di interesse, l’articolo 5, par. 1, lett. e), CEDU stabilisce che la detenzione di una persona «alienata» [57]
per dirsi legittima deve rispettare tre condizioni minime: in primo luogo, sono necessarie visite e perizie accurate e imparziali sulla condizione della persona; in secondo luogo, la situazione del soggetto deve essere di gravità tale da giustificare il confinamento obbligatorio; infine, la legittimità di un confinamento continuato e permanente deve dipendere dalla persistenza della gravità della situazione.
L’articolo 5, par. 4, CEDU stabilisce, poi, che «ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha diritto di indirizzare un ricorso a un tribunale affinché esso decida, entro brevi termini, sulla legalità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegale». In sostanza, qualsiasi soggetto che sia ristretto nella sua libertà per un periodo di tempo indeterminato ha diritto a intervalli ragionevoli [Daly 2020] a una revisione del provvedimento giudiziario, affinché si valuti la persistenza degli elementi di liceità sopra indicati.
Anche nel caso Mihailovs c. Lettonia [58]
, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riscontrato la violazione dell’articolo 5 CEDU poiché il Governo non aveva dimostrato la presenza di alcuna malattia mentale nel ricorrente, né aveva dimostrato che fossero state prese in considerazione {p. 407}alternative meno ristrettive all’internamento, come l’assistenza socio-sanitaria territoriale; inoltre, la Corte ha rilevato che al ricorrente non era stata fornita la possibilità di accedere a rimedi di tipo giudiziale per contestare la propria istituzionalizzazione coatta; né era previsto un sistema di periodica e automatica judicial review degli internamenti involontari.
Orbene, avuto riguardo ai requisiti individuati dalla Corte di Strasburgo, occorre chiedersi se i ricoveri coatti disposti nell’ambito dell’amministrazione di sostegno, secondo le prassi che si è commentato nel precedente paragrafo, siano da ritenersi compatibili con il sistema di garanzie previste dalla CEDU.
L’impianto normativo attuale non consente di ritenere pienamente legittime tali prassi, né rispetto alla Costituzione come si è visto, né tanto meno rispetto alla Convenzione, che richiede – quantomeno – una revisione periodica del provvedimento di ricovero coatto che nei fatti non avviene. Sebbene, invero, il beneficiario dell’amministrazione di sostegno possa indubbiamente adire il giudice affinché riveda la propria decisione, chiedendo altresì la cessazione della misura (art. 413 c.c.), è pur vero che mancando un procedimento di revisione automatica degli internamenti volontari, l’iniziativa è di fatto rimessa al singolo interessato che spesso non sa nemmeno di avere il diritto di opporsi o di reclamare il relativo provvedimento né tanto meno dispone degli strumenti per farlo, soprattutto laddove ogni contatto con il mondo esterno alla struttura è di fatto filtrato dall’intermediazione dell’amministratore di sostegno.
Dubbi ancora maggiori di compatibilità con l’ordinamento sovranazionale sussistono, poi, con riguardo all’istituto dell’interdizione, laddove si consideri che l’interdetto non risulta nemmeno legittimato a richiedere al Tribunale la revoca della misura (cfr. art. 429 c.c.).
Alla luce delle considerazioni che precedono, il giudice tutelare dovrà selezionare in maniera accurata, sin dalla proposizione del ricorso per l’apertura dell’amministrazione di sostegno, l’effettiva necessità dell’applicazione della misura di protezione.
Bisogna pertanto evitare abusi che possano comportare un’applicazione fin troppo generalizzata della misura. Da un lato, occorre evitare che l’amministrazione di sostegno si trasformi in una sorta di misura di welfare, sollecitata dai servizi socio-sanitari per ottenere un esonero dalle dovute attività di assistenza, che bene inteso – al di là di quanto si possa ritenere – non vengono meno per effetto della nomina dell’amministratore [59]
. Dall’altro, occorre evitare che la misura possa trasformarsi in un {p. 408}meccanismo con il quale consentire (anche aggirando i presupposti del trattamento sanitario obbligatorio) l’istituzionalizzazione forzata di una persona, ottenendo il consenso all’ingresso in struttura – rifiutato dal beneficiario – per il tramite di un rappresentante legale.
Si auspica, dunque, che la figura dell’amministratore di sostegno, sorta con l’intento di conferire dignità e maggior autonomia alla persona, possa conservare tale carattere, senza subire distorsioni dettate dalla presunta necessità del giudice tutelare di arrogarsi funzioni che non gli competono.

6. Il giudice tutelare come garante della libertà negativa e come promotore della libertà positiva nell’ambito della misura dell’amministrazione di sostegno

Nella presente trattazione si è cercato di delineare la figura di un giudice tutelare in grado di tracciare i limiti costituzionali e internazionali alle pratiche di istituzionalizzazione forzata e, allo stesso tempo, capace di creare (e/o favorire) le condizioni per la realizzazione, attorno al soggetto beneficiario dell’amministrazione di sostegno, di una rete di relazioni in grado di attuare un progetto di cura, di vita e di sostegno, nel quale il beneficiario sia effettivamente parte attiva e non meramente passiva.
Se in molti casi pratici quella dell’istituzionalizzazione forzata, suggerita dall’amministratore di sostegno ovvero dal personale socio-sanitario, viene prospettata come l’unica via percorribile per un’effettiva tutela del soggetto beneficiario dell’amministrazione di sostegno, il giudice tutelare dovrà farsi garante della libertà negativa del soggetto che rifiuti tale ricovero, impedendo il perpetrarsi di abusi al di fuori dei limiti costituzionali tracciati. Né l’amministratore di sostegno né il giudice tutelare potranno, dunque, sostituire la propria volontà a quella della persona beneficiaria nel consentire un ricovero in struttura di cura e/o assistenza.
In via del tutto complementare, compito del giudice tutelare è quello di individuare le modalità attraverso le quali l’interferenza altrui può consentire concretamente l’esercizio della scelta e dell’autodeterminazione. Il giudice, in questo senso, deve favorire e stimolare l’attuazione di interventi positivi che consentono alla persona di poter esercitare il proprio potere di scelta come valorizzato dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, sì da rimuovere – unitamente all’opera dell’amministratore {p. 409}di sostegno e dei servizi socio-sanitari – gli ostacoli alla situazione di vulnerabilità in cui la stessa potrebbe trovarsi, affinché altre scelte possano effettivamente dirsi praticabili in concreto.
Pertanto, a fronte di simili ipotesi, laddove l’amministratore di sostegno richieda l’autorizzazione al ricovero del beneficiario contro la sua volontà, il giudice, riconosciuta l’impossibilità di accogliere simile autorizzazione per le ragioni che si è indicato, dovrebbe allo stesso tempo farsi carico di disporre ulteriori misure a sostegno della persona, sì da verificare le ragioni per le quali non sono state ritenute praticabili diverse alternative. In tal senso, il giudice dovrebbe invitare l’amministratore di sostegno ad adoperarsi per l’avvio e/o il proseguimento di un apposito percorso, che veda coinvolti, oltre allo stesso amministratore, i familiari e i servizi socio-sanitari territoriali (ognuno per il proprio campo di competenza), finalizzato all’individuazione delle misure di sostegno più adeguate per la persona beneficiaria, anche nell’ottica (semmai) di favorire un eventuale ricovero della persona presso una struttura di assistenza e di cura con il suo consenso, laddove tale ricovero risulti assolutamente indispensabile per la cura della persona.
Non va sottaciuto che le procedure in cui viene avanzata istanza di autorizzazione al cosiddetto ricovero coatto sono per lo più procedure estremamente complesse in cui si impone una verifica costante e attenta del giudice tutelare in ordine a tutti i passaggi posti in essere dall’amministratore di sostegno, mediante la fissazione di una o più udienze nel contraddittorio tra il beneficiario e coloro che ne hanno cura, sì da indagare la realtà soggettiva dell’interessato e attuare un progetto condiviso.
Il giudice tutelare deve, perciò, assicurarsi che l’amministratore di sostegno funga da strumento di raccordo delle diverse professionalità coinvolte, adoperandosi per la costruzione di una rete attorno al beneficiario, costituita dai familiari, dal personale medico che lo ha in cura, dai servizi sociali territoriali affinché tutti si adoperino – ognuno per il proprio campo di competenza – nell’individuazione delle misure di sostegno più adeguate e nella creazione del progetto di vita [60]
. Nel fare ciò l’amministratore deve {p. 410}agire in supporto del soggetto fragile, e non quale vicario detentore della volontà del soggetto che non comprende il suo vero interesse. Allo stesso tempo, il giudice tutelare dovrà saggiare la volontà del beneficiario in maniera diretta, non limitandosi ad acquisirla per il tramite di soggetti terzi.
È stato osservato [Celentano 2018] che il giudice tutelare assume, nell’ambito dell’amministrazione di sostegno, un altissimo rilievo sociale che gli impone una continua osservazione del soggetto della tutela.
In altre parole, il giudice tutelare, senza sostituirsi alle competenze delle altre professionalità coinvolte, ha il compito di vigilare sul corretto svolgimento del rapporto tra amministratore di sostegno e amministrato, affinché il soggetto fragile non diventi mero oggetto di un progetto terapeutico e assistenziale di cui non è parte, e di verificare il pieno rispetto dei suoi diritti e delle sue libertà. Tali considerazioni impongono, pertanto, che anche il progetto di vita e/o di cura eventualmente stilato in favore della persona beneficiaria dell’amministrazione di sostegno dai servizi socio-sanitari all’uopo deputati veda il beneficiario come soggetto e non come oggetto dello stesso, nella convinzione che il progetto potrà essere attuato solo nella misura in cui il beneficiario si veda effettivamente coinvolto nello stesso e lo accetti pienamente come parte effettiva di esso. Per questo motivo, sarebbe opportuno che il progetto in questione, laddove accettato, venga a fare parte del decreto di nomina, attraverso una modifica dello stesso per il tempo in cui il beneficiario lo faccia proprio in quanto rispondente alla propria volontà.
È, dunque, auspicabile che sempre più territori si dotino di specifici protocolli o linee guida condivisi, che possano favorire il necessario raccordo e una piena collaborazione fra gli organi di giustizia e i servizi socio-sanitari, poiché solo l’instaurazione di una rete può costituire un argine all’utilizzo dell’amministrazione per finalità estranee a quelle per cui è stata concepita.
Note
[56] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, Stanev c. Bulgaria (n. 36760/06), 17 gennaio 2012.
[57] La dicitura «alienato» è utilizzata proprio dall’articolo 5 della Convenzione e necessita evidentemente di essere superata, in quanto fa riferimento ancora al paradigma medico ed è in palese contrasto con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
[58] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Mihailovs c. Lettonia (n. 35939/2010), 22 gennaio 2013. Il caso riguardava un soggetto epilettico, sottoposto a tutela su iniziativa della moglie, poi nominata tutore dello stesso. Nello stesso periodo, il ricorrente veniva ricoverato in un ospedale psichiatrico dove è rimasto per due anni per poi essere trasferito in una struttura statale socio-assistenziale su richiesta della moglie: in tale situazione, il ricorrente non poteva uscire dalla struttura da solo, né poteva ricevere visite senza il consenso del tutore o ricevere personalmente la corrispondenza. Dal procedimento, è risultato inoltre che gli ospiti della struttura che si allontanavano senza il permesso della direzione venivano ricercati dalle forze di polizia e ivi riportati coattivamente.
[59] Tribunale di Modena, 6 agosto 2009: «l’amministrazione di sostegno non deve essere strumentalizzata dai servizi sociali e/o di salute mentale che, in difetto dei relativi presupposti, volessero in tal modo ottenere l’esonero dalle attività di assistenza cui sono istituzionalmente deputati. Conseguentemente, all’amministratore di sostegno può essere demandato l’incarico – esplorativo – di valutare se le condizioni del beneficiario siano realmente tali da giustificare una stabile Ads, oppure se, in mancanza di particolari esigenze patrimoniali e della persona, le relative problematiche possano invece trovare organica e naturale gestione da parte dei predetti pubblici organismi, senza necessità di imporre limitazioni della capacità d’agire dell’interessato».
[60] La necessità di una progressiva e piena condivisione di questi principi ha condotto a inserire un’espressa previsione in tal senso nel Protocollo procedimentale in materia di amministrazione di sostegno stipulato tra il Tribunale di Chieti e l’Ordine degli Avvocati di Chieti, ove si è ritenuto di specificare i principi guida che, tra gli altri, devono condurre l’opera dell’amministratore di sostegno: par. 4: «Gli Avvocati ed i Praticanti Avvocati nominati Amministratori di Sostegno svolgono l’incarico affidato con attenzione alla cura del beneficiario e con diligente gestione dei rapporti giuridici facenti capo all’amministrato come previsto nel decreto di nomina, instaurando rapporti con i soggetti familiari e non che si occupano del beneficiario sia privati che pubblici, al fine di costruire una rete di relazioni utili al benessere della persona nel rispetto dei limiti e delle competenze di ciascuna figura professionale. L’incarico di Amministratore di Sostegno non va inteso come volto, unicamente, alla risoluzione di problemi burocratici, ma finalizzato alla costruzione di un progetto che migliori la qualità della vita della persona fragile stimolando, altresì, gli opportuni interventi da parte della famiglia e degli organi di assistenza».