Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c1
Proprio sotto questo profilo, il rapporto tra biografia e disabilità assume una valenza specifica. Più precisamente perché, dal nostro punto di vista, la condizione di disabilità (e le menomazioni stesse), non determinano, automaticamente e meccanicamente, un certo vissuto e un certo percorso.
{p. 38}E il fatto di analizzare la vicenda a partire da due punti di vista distinti è funzionale proprio a considerare la forza e la portata di quanto è accaduto pur continuando a mantenere un carattere aperto. In questa biografia, come si vedrà, sono state fatte delle scelte e si sono verificati degli eventi, mentre altri eventi non si sono verificati e altre scelte non sono state effettuate. Sarebbe potuta andare diversamente? Quali altri sviluppi avrebbero potuto presentarsi e accadere? In quali condizioni e a quali costi?
Certamente, come detto, condividiamo l’idea che la disabilità non produca, deterministicamente e automaticamente, una specifica biografia individuale e familiare. E proprio in ragione di questo, si tratta dunque di comprendere in che modo la presenza di una condizione di disabilità si articoli con i vissuti quotidiani e materiali, con il presente, con le aspettative e le progettualità per il futuro, con gli spazi di incertezza, con i vincoli e con gli spazi di libertà.
Allo stesso tempo, però, non si può pensare che la condizione di disabilità non possa produrre certi effetti (anche se a priori non sappiamo quali), né che i modi, molto concreti, di affrontare la disabilità non abbiano ricadute sulle persone coinvolte. Soprattutto se tale scenario si costruisce, come in questo caso specifico, attorno a un ragazzo con ridotte autonomie personali, alto e con continuo bisogno di forme di sostegno.
In particolare, le nostre argomentazioni si soffermano su alcuni nodi. Il primo passaggio, con tutta evidenza, è l’incontro con la disabilità. Sotto questo profilo, le criticità cruciali che possono fin da subito definire le traiettorie esistenziali sono legate al tema della cosiddetta «prima comunicazione». Il secondo passaggio riguarda l’ingresso nel contesto sociale. Chiaramente il riferimento è l’eventuale iscrizione alla scuola materna e, successivamente, alla scuola dell’obbligo. Il terzo passaggio è il limbo che connota quel tempo compreso tra la fine della scuola dell’obbligo e il raggiungimento della maggiore età. È forse questa fase della vita a risultare meno tutelata dai servizi, che di fatto delegano al contesto familiare ogni aspetto della cura e dell’assistenza della persona con disabilità. La maggiore età segna il quarto passaggio, essendo il periodo in cui, proprio in una prospettiva di possibile vita indipendente, si palesano diverse scelte «di direzione». In quest’ottica, diventa centrale una riflessione sulle modalità di accesso ai servizi (e di eventuale uscita), nonché sui protocolli e sulle regole informali che li caratterizzano (l’istituzionalizzazione non è solamente «un luogo e un tempo», ma è anche «logica» e prospettiva di pensiero). L’ultimo passaggio tocca la delicata questione del cosiddetto «Dopo di noi». Un tema che non può che essere sviscerato a partire dal significato, non soltanto letterale, che vogliamo attribuire al «durante noi». E in questo senso, il racconto delle traiettorie esistenziali delle persone con disabilità altro non è se non una narrazione del «durante», delle sue criticità e delle differenti direzioni che possono essere intraprese.{p. 39}

3. L’incontro con la disabilità e la prima comunicazione

Moreno, secondogenito, è nato un paio di settimane prima del termine. Un tempo sufficiente per non collocarlo nella categoria dei prematuri. È nato con parto cesareo, perché quando ha manifestato le prime intenzioni di venire al mondo, ha pensato bene di fare una piroetta nella pancia di sua mamma e di mettersi seduto.
Dopo i due giorni canonici in ospedale, siamo rientrati a casa, come sempre accade se non vi sono complicazioni dopo il parto.
Poi è successo qualcosa. Circa tre settimane dopo il parto, di colpo, senza avvisaglie apparenti, Moreno ha smesso di mangiare. Dopo diverse ore, siamo andati in ospedale.
Apparentemente, nulla giustificava una qualche preoccupazione. Almeno, questo è stato il nostro percepito. Resta il fatto che i medici decidono di ricoverare Moreno «per questa notte, così vediamo come va». Ovviamente insieme a sua mamma.
Nel giro di poche ore, Moreno viene trasferito d’urgenza nel reparto di patologia perinatale, dove resterà per ventisei giorni. Ventisei giorni di «non sappiamo che cosa sia successo, stiamo facendo il possibile per salvarlo».
Superata questa fase, Moreno non è più in pericolo. Ha ricominciato a mangiare, ha preso peso e la setticemia è rientrata.
Moreno torna tra le nostre braccia. Le nostre, che prima non potevano toccarlo. E così siamo lì, con Moreno in braccio e un medico che si trova a chiudere con noi la pratica delle dimissioni.
«È presto per dirlo. Vostro figlio potrebbe avere questo o quest’altro. Forse potrà camminare, ma non è detto. Avrà bisogno di molte attenzioni. Non sappiamo che cosa sia successo. Un’ischemia, questo sappiamo. A volte, basta una vena disegnata male... Vi abbiamo già fissato un appuntamento per il prossimo controllo».
Sommati i dettagli di contorno, la pratica è durata forse un’ora.
Per quanto si tratti di un fenomeno tutt’altro che infrequente, essendo una delle possibili condizioni che caratterizzano la nostra esistenza, l’incontro con la disabilità è sempre (e comprensibilmente) un evento destabilizzante e che inevitabilmente coglie impreparati i protagonisti. È un trauma, il lutto di una vita e un’idea di vita che non sarà come la si immaginava e la si sognava. Si apre un baratro. Questo accade sia quando l’incontro avviene fin dalla nascita, sia quando, nel corso della vita e per cause diverse (malattia, incidente, senilità) il nostro corpo e/o la nostra psiche subiscono una o più modificazioni che limitano (o, comunque, rendono meno agevole) le possibilità di agire, ovvero, per richiamare le parole fatte proprie dalla Convenzione ONU, impediscono la «piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri» [2]
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A seconda di quando questo evento si presenta, sono anche diversi gli attori che ne vengono direttamente coinvolti, oltre alla persona con disabilità: i genitori (e i fratelli, come nel caso di questa biografia), ma anche i compagni e le compagne e/o i figli.
La letteratura, specie di natura psico-pedagogica [Zanobini et al. 2002; Sorrentino 2006; Korff-Sausse 2006; Mazzoncini e Musatti 2019; Cinotti 2021], ha ampiamente sottolineato quanto la comunicazione della diagnosi di disabilità corrisponda a consegnare nelle mani dei genitori o dei diretti interessati un «pacco bomba a orologeria». Del resto, i racconti dei genitori e delle persone che hanno acquisito una disabilità nel corso della vita (come testimonia la produzione editoriale di racconti a tema) immancabilmente si soffermano su questo passaggio, proprio perché quella data e quel momento diventano una tappa indelebile della vita successiva.
A fronte di questa realtà, e nonostante siano state pensate forme di servizi legate a questo momento [Caldin e Serra 2011], questi restano casi isolati e ci si trova, quasi sempre e in termini strutturali, di fronte a un duplice vuoto. Da un lato, i professionisti sono raramente in grado di tenere in considerazione le numerose dinamiche che si innescano alla comunicazione della diagnosi. Da un altro lato, i familiari (o le persone che acquisiscono una disabilità nel corso della vita) si ritrovano completamente privi di sostegni, per quanto previsti dalla stessa normativa che governa le politiche della disabilità in Italia [3]
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L’incontro con la disabilità coincide in ogni caso con un immediato cambio di prospettiva esistenziale. Le persone direttamente coinvolte si trovano cioè, dall’oggi al domani, a dover riprogettare da zero la propria esistenza, con la comprensibile difficoltà di dover trovare nell’immediato una serie di risposte ai quesiti posti dalla nuova condizione individuale (e familiare).
Come si può agevolmente comprendere, in particolare nel periodo iniziale, tale riprogettazione è tutt’altro che priva di criticità che, senza abusare di facile retorica, possiamo definire talvolta insostenibili o che comunque mettono a dura prova sia l’equilibrio psichico delle persone coinvolte, sia le loro dinamiche familiari e le loro relazioni sociali. Come è stato rilevato, infatti, «il loro impatto sulla struttura della famiglia è profondo, ed è dimostrata una elevata incidenza di depressione e stati di ansia [...] e di divorzi» [Serra et al. 2020].{p. 41}
Il tema delle separazioni successive all’evento assume una dimensione particolarmente rilevante. Sebbene non vi siano, a nostra conoscenza, indagini organiche che possano aiutarci a quantificare il fenomeno, non pare inopportuno evidenziare come già questa fase iniziale possa rappresentare uno snodo cruciale nella (ri)definizione di una traiettoria esistenziale, con possibili ricadute nelle fasi successive. A titolo d’esempio, con riferimento alla figura del caregiver, l’ISTAT ci ricorda che nel nostro Paese si tratta per lo più di figure femminili e, più precisamente, di donne-madri sole o che comunque si occupano in maniera pressoché esclusiva di un figlio anche in presenza di un compagno o di un marito [ISTAT 2019a]. Una situazione che determina preoccupanti profili di impoverimento in capo alle donne caregiver (e ai loro figli), non soltanto in termini economici, ma anche in termini di carenza o pressoché totale assenza di relazioni sociali [ISTAT 2019b].
Con tutta evidenza, dunque, già lo snodo iniziale dell’incontro con la disabilità, non ha «solamente» un impatto significativo sul vissuto psicologico dei protagonisti, come si sottolineava poc’anzi, ma non di rado definisce fatalmente numerose traiettorie esistenziali caratterizzate da elevati rischi di isolamento individuale e familiare.
In questo frangente iniziale, assume un ruolo particolarmente significativo, per non dire fondante, appunto la prima comunicazione, vale a dire, come si è anticipato poc’anzi, il momento in cui alla persona interessata e/o ai suoi familiari vengono trasmesse le prime informazioni su quanto è accaduto (laddove è possibile formulare una diagnosi) e su quali potrebbero essere (il condizionale è d’obbligo) gli esiti dell’evento.
Come è facile intuire, si tratta di un passaggio estremamente delicato, nel quale convergono simultaneamente sensibilità, aspettative, vissuti e capitali individuali differenti [Bourdieu 1983] e la cui conduzione (non soltanto con riferimento ai contenuti, ovvero al «cosa», ma anche in merito alle modalità, ovvero al «come») ha inevitabilmente delle ricadute sul posizionamento delle persone interessate, sia nei confronti dell’evento, sia in un’ottica di futura collaborazione medico-paziente, sia, infine, in una prospettiva più ampia che, come si è detto, non di rado sfocia in scelte esistenziali irreversibili che compromettono le relazioni tanto all’interno quanto all’esterno della famiglia.
Sotto questo profilo, sono almeno tre gli aspetti critici su cui occorre focalizzarsi.
In primo luogo, si tratta di evidenziare come la prima comunicazione si risolva nella maggior parte dei casi in un unico colloquio, in genere in sede di dimissioni ospedaliere e, tra l’altro, di breve durata. Al contrario, proprio in ragione dell’impatto sull’equilibrio psichico delle persone direttamente coinvolte, meglio sarebbe se assumesse le sembianze di un percorso che, oltre alla presenza delle figure mediche già incontrate in {p. 42}ospedale, prevedesse al contempo il contributo di altre figure specialistiche, in primo luogo psicologi e psicopedagogisti, ovvero figure che possano accompagnare i protagonisti dell’evento per un periodo più lungo e con precise competenze professionali [Buckman 2003].
In secondo luogo, è altrettanto opportuno sottolineare come non sia previsto un cammino di formazione specifico su questo tema durante gli anni universitari che precedono la laurea in medicina e in quelli della specializzazione. Si tratta di un vuoto inspiegabile, per non dire sorprendente, che meriterebbe un tempestivo intervento mirato a una nuova progettazione delle carriere formative delle future classi mediche. Una progettazione che, se pare irrinunciabile per alcune specializzazioni (per esempio, pediatria e neonatologia), in realtà dovrebbe coinvolgere le carriere universitarie di tutti gli studenti in medicina, proprio perché l’incontro con la disabilità non è un evento di esclusiva competenza dei reparti di neonatologia.
In terzo luogo, occorre registrare la quasi totale assenza di un accompagnamento informativo meramente materiale, ma altrettanto importante.
Quando siamo usciti dall’ospedale, non sapevamo dove sbattere la testa. In un’ora, la nostra vita è stata ribaltata. Insieme al dolore per quanto era accaduto a nostro figlio, ci siamo visti catapultati in una dimensione di assoluta incertezza. Oltre allo sconforto, avevamo anche esigenze «semplicemente» materiali. A chi ci rivolgiamo se abbiamo bisogno di questo? E a chi, se abbiamo bisogno di quest’altro? Per diversi anni, la nostra è stata una rincorsa alla ricerca del numero di telefono giusto, della consulenza precisa, dell’ufficio preposto alle nostre pratiche.
La prima comunicazione, infatti, pur nelle sue criticità, potrebbe rappresentare anche un’opportunità preziosa se affiancata anche da una primaria restituzione di informazioni in merito agli aspetti procedurali, legislativi, sanitari e assistenziali – ovvero, in merito alle tutele previste dall’ordinamento e alle modalità per accedervi – nonché ai servizi presenti sul territorio che, con le loro peculiari specificità, possono accompagnare le persone con disabilità e i loro familiari in questa prima fase della «nuova» vita [4]
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{p. 43}
Note
[2] Il concetto di «piena ed effettiva partecipazione» è ripreso in più punti nel testo della Convenzione, a partire dal Preambolo, lett. e).
[3] Alcuni commi della legge n. 104/1992 (art. 5) segnalano questi obiettivi: «d) assicurare alla famiglia della persona handicappata un’informazione di carattere sanitario e sociale per facilitare la comprensione dell’evento, anche in relazione alle possibilità di recupero e di integrazione della persona handicappata nella società; [...] h) garantire alla persona handicappata e alla famiglia adeguato sostegno psicologico e psicopedagogico, servizi di aiuto personale o familiare...».
[4] In particolare su questo aspetto, si rimanda all’approfondimento dedicato alla creazione di uno sportello informativo sulla disabilità, che auspicabilmente dovrebbe avere una sua diramazione proprio negli ospedali, a supporto di questo delicato snodo esistenziale. Vedi infra «A chi lo chiedo? Proposta per un Punto Unico Informativo sui benefici, le tutele e i servizi a favore delle persone con disabilità e dei loro familiari».