Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c1
Come è noto, per lo meno ai suoi genitori, la vita di Moreno prevede di frequente una serie di «regolarità». E l’improvvisazione è una competenza che soprattutto i suoi genitori hanno sviluppato precisamente per gestire tutte quelle situazioni che se ne discostano. Tra queste regolarità rientrano sicuramente le attività legate alla cura della persona (igiene, pasti ecc.), che nel corso di una giornata si ripetono ciclicamente. Ma
{p. 48}altrettanto regolari per lui risultano essere le relazioni, sia con i familiari (per forza di cose), sia con la cerchia parentale e amicale. Nei primi anni di vita, questo è avvenuto quasi esclusivamente tra le mura domestiche, ovvero in un contesto conosciuto, e comunque alla presenza di figure note.
La prima uscita di casa, che come nel caso di Moreno, non di rado avviene con l’ingresso nella scuola dell’obbligo (sebbene possa essere preceduta dalla frequenza della scuola materna), comporta un dislocamento di queste regolarità o, per meglio dire, una sorta di loro sdoppiamento anche in un nuovo contesto e alla presenza di nuove figure di riferimento.
Come è facile intuire, se questo passaggio in molti casi non risulta indolore anche a prescindere dalla presenza di una disabilità, sicuramente rappresenta uno snodo critico per lo/la studente con disabilità, che oltre a imparare a riconoscere un luogo «altro» rispetto a quello casalingo – anche in termini di relazioni – si trova nella situazione di doversi affidare a persone «altre» rispetto ai genitori, anche per l’espletamento di attività intime quali, per esempio, il cambio del pannolino. In una situazione di disabilità complessa come quella del protagonista di questa biografia, è del tutto lecito immaginare come le nuove strategie di adattamento richiedano dei tempi lunghi per potersi consolidare. A maggior ragione se la scuola di riferimento non è raggiungibile a piedi, ma richiede un servizio di trasporto, ovvero un altro luogo nuovo e altre nuove figure con cui interagire.
Per quanto complicato, come anticipato, questo passaggio tuttavia si consolida nel tempo e diventa anch’esso una regolarità. Salvo poi, appunto, svanire al termine della scuola dell’obbligo che, di fatto, riporta la persona con disabilità alla situazione precedente l’ingresso a scuola. Una situazione che, con ogni probabilità, è stata col tempo dimenticata e nella quale, inspiegabilmente, ci si ritrova da un giorno con l’altro.
Sotto questo profilo, la durata di questo ritorno alla vita precedente è un fattore determinante, nel senso che, in previsione di un nuovo passaggio in un nuovo contesto di comunità «altro» rispetto alla famiglia, andrebbe mantenuta l’abitudine a quello sdoppiamento di regolarità cui si faceva riferimento poc’anzi. Appunto per evitare un nuovo sedimentarsi di «vecchie» abitudini e le fatiche di un nuovo (perché a questo punto, risulterebbe tale) apprendimento nel momento in cui si riesce finalmente a staccare il tagliando che consente di iniziare un percorso di crescita in nuovi contesti, quali i servizi semiresidenziali.
In un’ottica di vita indipendente, dunque, questo vuoto d’interventi – che si traduce nella scarsa considerazione della centralità e della delicatezza di questa fase – può risultare fatale. Anche in ragione del fatto che non è neppure trascurabile sottolineare come questo periodo coincida esat{p. 49}tamente con gli anni dell’adolescenza che, come ben sappiamo, se sono critici per qualunque ragazza e ragazzo, lo sono certamente anche per gli adolescenti con disabilità.

6. I servizi per gli adulti con disabilità. Nuove considerazioni su biografia e disabilità

Moreno inizia a frequentare il CDD nell’ottobre del 2021, cioè due anni e mezzo dopo la fine della scuola dell’obbligo, essendo finito in una lista d’attesa bloccata da una riorganizzazione dei servizi semiresidenziali e dalla mancata assunzione di figure educative che avrebbe potuto ampliare l’offerta dei medesimi servizi (a beneficio non soltanto di Moreno, ma anche di altre persone in graduatoria). Poi ci si è messa di mezzo anche la pandemia, che ha ulteriormente rallentato i tempi di accesso.
Come è noto, la riapertura dei servizi alla persona ha previsto comunque una serie di restrizioni e di modalità operative ben lontane da quelle adottate in epoca pre-Covid.
In tutta onestà, confesso che il primo giorno al CDD è stato vissuto da noi genitori con grande entusiasmo. Non posso nascondere, infatti, che sia stata una sorta di liberazione. Non nel senso che abbiamo finalmente assaporato la gioia di esserci liberati di Moreno per diverse ore al giorno. No, non è questo. Anche perché ricordo perfettamente di aver attraversato i primi giorni senza di lui con un’insostenibile sensazione di smarrimento. Semmai, è stata una liberazione perché, finalmente, Moreno aveva la possibilità di sperimentare altri luoghi e di confrontarsi con altre persone che non fossero i suoi genitori e i suoi fratelli.
Ma non avevamo messo in conto la portata delle restrizioni in fase di riapertura, come ad esempio l’impossibilità di essere presenti nei primi giorni dell’inserimento. E, soprattutto, non avevamo minimamente contemplato che questo luogo «altro» prevedesse un rigido regolamento interno preposto alla scansione delle attività interne, sia nei termini delle offerte educative in senso stretto, sia in quelli relativi non tanto al momento del pasto (che pare comprensibile), quanto ai momenti dedicati all’igiene personale.
Dopo due anni e mezzo, Moreno si è ritrovato in un contesto completamente nuovo (senza appunto un adeguato accompagnamento dei genitori, ai quali era precluso l’ingresso al Centro), con persone ignote e con richieste e regole da seguire del tutto estranee a quelle che aveva sperimentato negli ultimi anni.
Con tutta evidenza, Moreno ha manifestato il suo disappunto, con le modalità di una persona che non vede, che non può dire verbalmente quello che sta provando e che, di quello che accade intorno a lei, ne comprende gli esiti, ma non le ragioni.
In questa sede preferisco sorvolare sulle «proposte educative» che abbiamo ricevuto in risposta ai suoi comportamenti di rifiuto. Segnalo soltanto che, a oggi, con motivazioni contrapposte, Moreno risulta «allontanato» da due CDD differenti. Per ora, noi genitori abbiamo ancora la forza e la voglia di cercare un terzo CDD. Ma nell’ottica di Moreno, questo significa ripartire ancora una volta da zero. E forse anche lui qualche ragione può averla, se ogni tanto si arrabbia.{p. 50}
Anche perché, mi piace evidenziarlo, questi comportamenti «nuovi» non hanno cancellato la sua voglia di entrare in relazione e neppure la sua disponibilità ad accettare delle richieste. Con modalità del tutto sue, certo. E appunto, talvolta accompagnate da un rifiuto che si manifesta anche con un comportamento aggressivo. Ma la sua «anima sociale» non è sparita. Faccio un esempio. Proprio nel periodo più critico in cui frequentava il CDD, è venuto a trovarci un giovane educatore che ha «lavorato» un paio di anni con Moreno ai tempi della scuola. Non si incontravano da quasi tre anni. Eppure, è bastato un minuto: l’educatore ha iniziato a emettere dei suoni e Moreno si è seduto sulle sue gambe per iniziare a giocare con lui. Insomma, Moreno ha mantenuto questo lato del suo carattere, anche se nel frattempo è diventato un uomo e, come tutti, ne ha modificati alcuni aspetti. Forse anche perché crescendo – chissà – ha maturato una maggiore consapevolezza delle sue difficoltà.
Emergono qui, anzitutto, attraverso il racconto del padre, dimensioni dell’interiorità e dell’emotività di Moreno che, chi non lo conosce, tenderebbe a ridurre alla dimensione biologica e di soddisfazione di bisogni primari. Lo strumento biografico ci serve, invece, a restituire significato non solo alla sua esistenza, ma agli stessi bisogni. L’impossibilità di poterli soddisfare in autonomia non solo complica le cose (come sa il padre e qualsiasi caregiver), ma apre luoghi di relazione e di significato che, presi come siamo nel considerare l’individuo come individuo autonomo, non percepiamo. Chi ha lavorato a fianco di bambini con difficoltà complesse ci ha restituito non solo l’immagine di noi stessi (delle nostre paure e difficoltà a rapportarci con la disabilità), ma la loro esistenza:
L’incontro con questi bambini segnati da una grave alterazione obbliga a un capovolgimento di prospettiva al fine di considerare i loro balbettii, i gesti saccadici, i tremori, le parole esitanti, i disegni maldestri come portatori di un messaggio. [...] Riconoscere l’handicap significa non negarlo, né minimizzare le conseguenze, né cercare di essere rassicuranti. Vedere il bambino handicappato così com’è con i suoi deficit, i benefici secondari che trae dalla sua dipendenza, l’aggressività e le rivendicazioni che vuole esprimere; ovvero ammettere la personalità, la sofferenza, il destino, senza farne una vittima [Korff-Sausse 2006, 19].
Secondo una più generale prospettiva sociale che emerge da questa biografia è chiaro che, più si cresce, più le difficoltà e i rischi che i percorsi di vita incontrino gravi criticità aumentano, come è noto. Questi stralci di biografia si sommano a quanto già visto con la scuola e il periodo successivo: la necessità di servizi specifici si confronta, continuamente, con dinamiche che si giocano all’interno di percorsi e servizi pensati e forniti sulla logica della gravità.
La risposta, concreta e culturale, alle reali dinamiche di separazione, confinamento, segregazione a cui sono spesso soggette le persone con disabilità «grave» (Merlo e Tarantino 2018], si formula solo a partire {p. 51}dalla presa in considerazione di quelle specifiche necessità e condizioni (qui quelle di Moreno) in risposta alle quali le istituzioni totali trovano la loro legittima ragione d’essere: la miglior risposta a chi necessita di «maggior sostegno».
Anche a questo ci serve il racconto della biografia di Moreno fattaci da suo padre. Che tipo di servizi e di percorsi siamo capaci di immaginarci per persone che sono in queste condizioni di complessità che, come sappiamo, non sono poi così rare? I forti limiti delle logiche assistenziali e centrate sul concetto di gravità, a cui ci rimandano la vicenda qui raccontata, la letteratura citata e quella che ci ha formato sono continuamente evidenti. Lungi da noi, dunque, il legittimare l’esistente poiché, bene o male, risponde ai reali e vitali bisogni delle persone con disabilità e delle famiglie. Non possiamo, però, neanche pensare di contestare l’esistente solo sulla base di noti princìpi (centrati sui diritti umani e sulla Convenzione ONU) e sul contrasto a continue forme di pregiudizio, stigmatizzazione, segregazione, discriminazione, violenza reale o simbolica a cui sono sottoposte spesso le persone con disabilità, specie quelle più complesse. E a cui queste stesse, come emerge nel racconto su Moreno, cercano talora di ribellarsi, quando riescono, fin quando ne hanno possibilità e forza, prima di una più frequente acquiescenza coi trattamenti che si subiscono.
Il problema, però, è che in alcune specifiche condizioni, come quelle di Moreno, per esempio, non possiamo pensare come si è capito che aveva un senso ragionare rispondendo, nella pratica, all’idea che «la libertà è terapeutica».
Cosa sia la libertà per Moreno (e per i suoi familiari) non ci è ancora noto e lui, forse, difficilmente riuscirebbe a esprimerlo, e certamente noi faremmo fatica a comprenderlo. Con queste contraddizioni, che non sono un gioco intellettuale, ma stanno nelle esistenze delle persone, siamo costretti a confrontarci. Del resto, la forma assistenzialista risolve queste contraddizioni, annullando, dietro la risposta ai bisogni, la dimensione esistenziale delle persone con disabilità e dei familiari. È qui che si ripropone, a nostro avviso, la biografia come strumento euristico attorno a cui centrare la riflessione, la ricerca e anche la fornitura di servizi.
È necessario aprirsi alla biografia delle persone, anche quelle con disabilità complesse. Si tratta dunque di mettere le persone nella condizione di dire loro di se stessi chi sono, come si sentono, cosa desiderano, anche quando non riescono a farlo con le proprie parole. Si tratta di comprendere i significati che la disabilità vi ha assunto. Si tratta di comprendere come sia possibile pensare, e realizzare, l’autodeterminazione e l’insieme di misure e sostegni che la garantiscono, ma anche i bisogni di protezione, come emerge anche in alcuni saggi di questo volume, oltre a quelli primari.
La biografia è particolarmente interessante, non solo per conoscere meglio le persone, ma per aprire scenari di vita ed educativi inaspettati. {p. 52}È naturalmente un campo da praticare con cautela, competenza, ma di cui è chiara la fertilità.
Attraverso la ricostruzione della storia di vita è possibile integrare anche uno degli strumenti che più si cerca di promuovere in contesti educativi e scolastici, la Classificazione ICF. Quest’ultima, infatti, nel «fotografare» la condizione della persona in una logica contestuale individuando barriere e facilitatori per la quotidianità, la partecipazione sociale, ecc. sceglie di tralasciare i fattori personali (intesi come il retroterra personale della vita e dell’esistenza di un individuo). Al contrario, la storia di vita delle persone (e delle famiglie) permette di comprendere meglio i vissuti, le identità, i traumi, le reti di relazioni, i conflitti, le solitudini, le delusioni, i fallimenti, le speranze, i desideri, ecc. Tutto ciò ha numerosissime valenze. Il racconto di sé, per chi è ordinariamente considerato in modo sminuito o solo come portatore di bisogni, restituisce valore e dignità a quella storia di vita nel suo complesso, al di fuori dei bisogni per cui si rivolge a un servizio. La difficoltà, le ovvie reticenze che molte persone con disabilità esprimono in contesti in cui è chiesto loro di raccontarsi, sono proprio la misura della necessità di riportare quelle persone nel loro complesso, non solo il loro racconto, in territori e dimensioni di autentico riconoscimento e non solo in un «estorcere» informazioni che rendano il quadro diagnostico più complesso e articolato. La costruzione di queste dinamiche può avvenire solo in una relazione autentica di reciproco riconoscimento. Comprendere quali significati, quali implicazioni profonde (non solo in termini tecnico-organizzativi) assume la disabilità nella storia e nel vissuto della persona, così come nella sua famiglia, è centrale.
Tutto ciò può favorire la stessa costruzione di azioni e progetti educativi realmente costruiti a partire dalle persone, dalla loro storia, oltre che dai loro bisogni primari, dai limiti e dalle difficoltà. Al contrario, la logica dominante è spesso un’altra e si basa su quanto un servizio, un’istituzione o un’azione educativa prevedono e presumono di dover fornire a quel tipo di condizione misurata in termini diagnostici, di deficit, di bisogni e non certamente di storia di vita.
Si tratta di andare oltre la ratio individuale (che con un generoso slancio potremmo dire biografica) proposto da alcuni strumenti pubblici di intervento locali, regionali e nazionali (dal progetto individuale sancito dalla legge n. 328 del 2000, al budget di salute al «Dopo di noi»). Peraltro, queste misure hanno spesso mostrato alcuni limiti strutturali che impediscono loro di essere realmente centrate sugli individui, essendo continuamente assestate su logiche assistenziali e meccanismi in cui è la risposta istituzionale a determinare la biografia e non viceversa. Lungi dalla nostra prospettiva pensare che l’individuo e la sua biografia debbano essere misura del mondo, anche se, al contrario, le singole biografie svelano, spesso, più generali meccanismi del mondo. Ciò che ci interessa
{p. 53}sottolineare è che i deficit degli interventi legati alla disabilità hanno, come esito, un impatto non emancipatorio sulle persone con disabilità.
Note