Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c1
La prima comunicazione, infatti, pur nelle sue criticità, potrebbe rappresentare anche un’opportunità preziosa se affiancata anche da una primaria restituzione di informazioni in merito agli aspetti procedurali, legislativi, sanitari e assistenziali – ovvero, in merito alle tutele previste dall’ordinamento e alle modalità per accedervi – nonché ai servizi presenti sul territorio che, con le loro peculiari specificità, possono accompagnare le persone con disabilità e i loro familiari in questa prima fase della «nuova» vita [4]
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{p. 43}

4. La scuola. Quale?

Se non avessi un figlio con disabilità, con ogni probabilità avrei un’opinione diversa sul tema dell’inclusione. Certamente, avrei un’opinione differente a proposito delle scuole speciali.
L’idea di avere iscritto Moreno a una scuola speciale non mi entusiasma, anche se mi entusiasmano la classe che ha frequentato e le maestre che lo hanno accompagnato nel suo percorso scolastico. Ci tengo a dirlo, perché non mi piace nascondere quel filo di resistenza ideologica che ancora mi accompagna.
Credo che ogni genitore debba scegliere la scuola migliore per suo figlio. Del resto, vale per ogni figlio, a prescindere dalla disabilità. E, in fondo, non è quello che fanno tutti i genitori? Tra l’altro, sappiamo che sono diversi i fattori che orientano la scelta della «scuola giusta». Alcuni di ordine molto pratico: la vicinanza a casa o il poter contare su servizi e reti di relazione che agevolano la gestione materiale dei bambini, oltre a criteri di reputazione e di familiarità. Ad esempio, uno dei tanti motivi per i quali Moreno è stato iscritto in quella scuola è perché non era (e non è) autonomo neanche a tavola.
Mi piacerebbe un mondo senza scuole speciali, cioè un mondo dove, senza preoccuparsi della disabilità del figlio, un genitore possa iscriverlo alla scuola che preferisce, magari anche e soltanto per ragioni di comodità. Ma le scuole non sono tutte uguali, purtroppo (o per fortuna). E per Moreno, quando si è trattato di scegliere, alcune scuole erano meglio di altre.
Ribadisco le mie difficoltà nel sostenere quanto vado dicendo. Anche perché sia Jacopo sia Cosimo (i fratelli di Moreno) hanno avuto dei compagni con disabilità al nido e alla materna.
Però... però stiamo parlando di nido e materna. Un mondo diverso dalla scuola elementare. Banalmente, alla materna le sezioni sono uno spazio aperto, non segnato da file di banchi. La materna è un luogo che può essere «plasmato» e adattato con minori difficoltà (e resistenze). Per lo meno, questa è stata la nostra esperienza con Moreno.
Ma, appunto, stiamo parlando della scuola materna, non della scuola elementare.
A me basta questo, pensando a Moreno. Perché, tanto per capirci, Moreno seduto al banco sette ore... Perché Moreno ha bisogno di rotolarsi. Perché Moreno ha ancora il pannolino. Perché Moreno ha bisogno di essere aiutato a tavola. Perché Moreno ha bisogno sempre di qualcuno. Perché Moreno urla. Perché Moreno vuole dormire, ogni tanto. Perché Moreno è quel «bambino con problemi» che potrebbe trovarsi intorno altri venticinque «bambini con problemi a rapportarsi con lui». Perché Moreno non avrà mai bisogno delle tabelline o della classificazione dei metalli. Perché non è questo il suo mondo. E perché il nostro, di mondo, Moreno nemmeno lo vede. Ecco!
E allora è questa la mia domanda: di quale scuola ha bisogno Moreno?
Come è noto, l’Italia, sul fronte dell’integrazione scolastica (anche se oggi si parla di inclusione) [5]
ha avuto un ruolo pionieristico internazional{p. 44}mente riconosciuto quando, a partire dal 1977, ha ufficialmente inserito gli alunni con disabilità nelle «scuole ordinarie», cessando l’esperienza delle classi differenziali e delle scuole speciali. In realtà, queste ultime non sono state abolite, come emerge anche da questo racconto, ma sono rette da un precedente normativa (legge n. 118/1971), non abrogata. Sul territorio nazionale, secondo i dati della letteratura, si contano circa ottanta scuole speciali. Alcune sono di ordinamento privato e poggiano su istituti di riabilitazione, da qui la loro gratuità. Una forte concentrazione di queste istituzioni si trova in Lombardia, dove il fenomeno è stato maggiormente studiato [D’Alonzo 2012; Merlo 2015]. Inoltre, come segnalato anche altrove [6]
, si assiste al consolidarsi di un fenomeno ancora poco studiato e legato soprattutto alle scuole superiori: è ciò che personalmente definisco il profilarsi di «ordinarie scuole speciali». Si tratta di scuole pubbliche che raccolgono un gran numero di studenti con disabilità e certificazioni varie configurandosi, di fatto, come scuole speciali che rispondono ad alcune dinamiche specifiche e, nello stesso tempo, liberano le scuole ordinarie dall’incombenza di realizzare percorsi didattici per alunni con disabilità.
La scarsa letteratura, a parte i testi citati, attorno alla concomitanza di scuole ordinarie e scuole speciali è giustificata da una sorta di «patto consensuale» per cui le prime non sono spesso in grado di gestire situazioni di disabilità complesse, cosa che invece fanno le seconde. La cosiddetta pedagogia speciale è tra le discipline più attente a queste dinamiche, anche se non mancano alcune critiche [D’Alessio 2015] e non sono rare alcune desolanti constatazioni:
alla scuola speciale o classe differenziale va pian piano sostituendosi il banco, sempre in prima fila, speciale e differenziale dove l’insegnante di sostegno e l’alunno con disabilità, in un rapporto assistente-assistito, intessono relazioni perimetrate e solipsistiche costruendo un mondo nel mondo, un cantuccio relazionale che somiglia sempre di più a una inespugnabile fortezza. [...] Il compito del sostegno affidato «per sempre» a una persona, magari specializzata, rischia di portare una sorta di esproprio e requisizione del riconoscimento relazionale [Fiorucci 2017, 84].{p. 45}
A questa realtà si affianca il serpeggiare, nella scuola stessa e nella stessa accademia internazionale, di un «inclusio-scetticismo» che mette fortemente in discussione la possibilità di costruire, nella scuola di tutti, percorsi scolastici qualificanti attenti ai bisogni educativi di tutti gli alunni [Ianes e Augello 2019]. In questo scenario complessivo, spesso ammantato da retoriche inclusive, sono soprattutto le situazioni più complesse a porre problema, quelle in cui esistono difficili autonomie personali, ridotte possibilità di apprendimento secondo gli ordinari criteri scolastici, limitate possibilità di socializzazione. Pur non mancando risultati e dati significativi sull’inclusione scolastica italiana [Dell’Anna et al. 2023], resta, nel vissuto di molte famiglie, la scelta di mandare i propri figli in scuole speciali legata ai timori, o l’esperienza diretta, che le scuole ordinarie non siano in grado di dare risposte adeguate a specifiche condizioni di disabilità [Merlo 2015]. Ecco un’altra dimensione entro cui conoscere analiticamente le biografie e i percorsi familiari, che potrebbe fornire risposte scientifiche e permettere di prospettare percorsi alternativi. Sono numerosi fattori, complessi e articolati, che ruotano attorno al fatto che numerose famiglie scelgono di mandare i propri figli con disabilità in scuole speciali. Senza arrivare a stigmatizzare chi fa queste scelte (anche se le reticenze del racconto di Verga e il malcelato senso di colpa di alcuni genitori di fronte alla loro scelta della scuola speciale dicono qualcosa di molto più profondo di questi sentimenti), la continua presenza di scuole speciali è stato letto, oltre che come deficit strutturale della scuola pubblica, come rispondente a principi di segregazione.
Il ritorno delle classi speciali e la chiara centralità di un principio di segregazione categoriale sono indizi di un rapporto irriflesso tra disabilità e società. Le classi speciali emergono come adattamenti in un sistema di welfare locale che non riesce a garantire il mix a scuola. Ma perché questi adattamenti hanno fatto ricorso proprio a una soluzione improntata a un principio di segregazione per semplificare le cose, renderle più sostenibili per famiglie, bambini e operatori? Perché proprio a questo principio e non a un altro? Probabilmente per ragioni di isomorfismo istituzionale, perché l’insieme dei servizi per questa categoria sono improntati a un principio di segregazione. Si riscontra una chiara propensione a impostare progetti, interventi e servizi per persone con disabilità come progetti, interventi e servizi dedicati ed esclusivi. Per loro e per loro solamente. La segregazione su base categoriale emerge come principio organizzatore dei centri diurni, delle classi speciali, dei servizi di inserimento lavorativo, e così via. Trasformando delle persone (con disabilità) in categoria amministrativa: disabili (comunque persone, ma fra parentesi). O nel linguaggio insolente di alcuni operatori sociali «handicapponi» (sic). Questo principio ordinatore, la segregazione, è tanto naturalizzato che spesso neanche si pensa a quale potrebbe essere un’alternativa [Vitale 2015, 164].
Tutto verissimo; credo sottoscriverebbe anche l’altro autore di questo testo, che ha scelto di mandare Moreno in una scuola speciale e non torne{p. 46}rebbe sui passi di quella decisione. Il problema è che è necessario, anche in fase analitica, prendere in considerazione le esperienze e le esistenze delle persone. Le concrete dimensioni di alienazione, isolamento, chiusura su di sé, incapacità di proiettarsi nel futuro vissute da molte famiglie non possono essere ignorate. La citata letteratura psico-pedagogica è su questo tema unanime, anche se non vi ricorre il concetto di alienazione: le famiglie sono talmente oberate (alienate) dalla complessità della gestione delle condizioni di disabilità dei figli che le mancate risposte sociali e didattiche, il loro continuare a essere impostate su criteri amministrativi, giuridici, diagnostici, culturali e sociali di inferiorizzazione [Schianchi 2021] rendono, magari a malincuore, ma concretamente, perseguibile, come opzione primaria o come ripiego, la soluzione della scuola speciale. Del resto, è questo insieme di sedimentate mancate risposte di reali soluzioni alternative a problematiche per cui sono necessarie concrete risposte specifiche, le necessità, le difficoltà, le paure, la ricerca di serenità da parte dei familiari a giustificare e legittimare, continuamente, sulla base della gravità, la presenza di «istituzioni speciali» (con i mercati del lavoro e gli interessi economici che vanno insieme).
Ecco allora che lo strumento biografico permette di farci uscire, analiticamente, da risposte predefinite alle condizioni di «gravità». Peraltro, quello biografico si rivela anche uno strumento che, sul piano delle pratiche sociali, ci può permettere (ma per fare questo bisogna fare ricerca) di affrontare questioni che non abbiamo neanche risolto sul piano puramente teorico.
Qualsiasi teoria sociale della disabilità deve evitare l’errore di fondere e semplificare la varietà delle diverse esperienze delle persone disabili, o di banalizzare la vita con una menomazione grave. La menomazione è scalare e multidimensionale, e le differenze fra le menomazioni contribuiscono a creare il livello di svantaggio sociale che gli individui affrontano.
L’incapacità di riconoscere il continuum della menomazione contribuisce ad alimentare certi argomenti sterili sulla natura della disabilità. Io credo che molti di coloro che vedono la disabilità come una tragedia da evitare a tutti i costi in realtà vedano solo l’estremità di questo continuum che riguarda i casi più gravi. E molti di coloro che negano la menomazione possa essere problematica e vedono la disabilità semplicemente come una differenza come tante altre, stanno considerando solo l’estremità dei casi più lievi nel continuum. In altre parole, le due fazioni non stanno parlando della stessa cosa: poiché quando parlano di disabilità stanno immaginando casi totalmente diversi, non possono giungere a un accordo su come si dovrebbe concepire o definire la disabilità. Qualsiasi teoria adeguata della disabilità deve tenere conto delle diversità [...] Per alcuni individui, la menomazione è un fattore estremamente limitante, tanto da rendere quasi irrilevante qualsiasi manipolazione sociale o rimozione delle barriere. Per altri, la menomazione in sé non pone grandi limiti: è piuttosto la reazione degli altri a causare problemi di esclusione e svantaggio [Shakespeare 2017, 112-113].{p. 47}

5. Quando la scuola finisce...

Dopo la fine della scuola dell’obbligo (giugno 2019), la vita di Moreno è ritornata esclusivamente alla sua dimensione familiare che, per quanto abbiamo cercato di rendere congeniale alle sue esigenze (anche di relazione con altri luoghi e altre figure diverse dai genitori), è risultata certamente distante da quella che aveva apprezzato per molti anni prima.
Mi si dirà: «Ma non avete fatto domanda per accedere a un servizio?» Sì, lo so, la domanda me la sono rivolta da solo per rendere nota la risposta, che ovviamente è affermativa: a memoria, eravamo in lista d’attesa già da molti mesi prima che terminasse la scuola.
Ecco, dunque, perché talvolta sorrido amaramente: eravamo già abituati all’assenza dei servizi!
L’ombrello della scuola dell’obbligo, per quanto bucato, comunque ripara. A prescindere dalle riflessioni e dalle scelte effettuate in merito al percorso scolastico, dalla prima elementare fino ai sedici anni, la persona con disabilità non è in carico solamente alla famiglia.
Tuttavia, con il termine dell’obbligo scolastico può presentarsi, come nel caso di Moreno, una lunga fase di attesa per l’ingresso in un servizio che possa accogliere ed educare una persona con disabilità, anche (e direi: preferibilmente) in una prospettiva che possa garantire la sua piena partecipazione alla vita sociale e un percorso di vita indipendente o, comunque, il più indipendente possibile [Bernardini 2021]. Una fase che, anche senza pandemia, può appunto durare alcuni anni.
Si tratta con tutta evidenza di un periodo particolarmente critico sotto diversi punti di vista, sia per quanto concerne la riorganizzazione della vita familiare e lavorativa, sia per quanto attiene alle ricadute sui singoli componenti della famiglia, in termini di relazioni presenti e future, in particolare per il componente con disabilità.
Tralasciando tutte le considerazioni del caso in materia di riorganizzazione lavorativa, adottiamo, come è corretto che sia, la prospettiva della persona con disabilità. In particolare, per una persona con disabilità complessa come quella del protagonista di questa storia, infatti, soprattutto l’ultima dimensione relazionale appena richiamata presenta alcune criticità che, in un’ottica che mira a un futuro inserimento in un nuovo contesto di comunità diverso da quello familiare, non di rado risultano, se non insanabili, certamente estremamente complicate da risolvere.
Come è noto, per lo meno ai suoi genitori, la vita di Moreno prevede di frequente una serie di «regolarità». E l’improvvisazione è una competenza che soprattutto i suoi genitori hanno sviluppato precisamente per gestire tutte quelle situazioni che se ne discostano. Tra queste regolarità rientrano sicuramente le attività legate alla cura della persona (igiene, pasti ecc.), che nel corso di una giornata si ripetono ciclicamente. Ma
{p. 48}altrettanto regolari per lui risultano essere le relazioni, sia con i familiari (per forza di cose), sia con la cerchia parentale e amicale. Nei primi anni di vita, questo è avvenuto quasi esclusivamente tra le mura domestiche, ovvero in un contesto conosciuto, e comunque alla presenza di figure note.
Note
[4] In particolare su questo aspetto, si rimanda all’approfondimento dedicato alla creazione di uno sportello informativo sulla disabilità, che auspicabilmente dovrebbe avere una sua diramazione proprio negli ospedali, a supporto di questo delicato snodo esistenziale. Vedi infra «A chi lo chiedo? Proposta per un Punto Unico Informativo sui benefici, le tutele e i servizi a favore delle persone con disabilità e dei loro familiari».
[5] Sul piano concettuale i termini non sono sinonimi. La storia della scuola italiana per tutti distingue tra una fase iniziale, definita dell’inserimento, la successiva, negli anni Novanta, basata sull’integrazione e quella odierna, avviata col nuovo millennio, centrata sull’inclusione. Quest’ultima, in ambito scolastico, è stata divulgata con la Conferenza dell’UNESCO di Salamanca del 1994 (e rafforzata dalla Convenzione ONU del 2006) che definisce, appunto, come inclusione un processo orientato da scelte culturali, politiche ed etiche realizzate da modelli scolastici indirizzati alla costruzione di un ambiente educativo capace di accogliere tutti, puntando sulla partecipazione e senza escludere: le differenze di ciascuno (la disabilità nel nostro caso) devono essere affrontate nelle classi di tutti, secondo il principio delle pari opportunità e della mancata discriminazione, secondo specifiche strategie e modalità che affrontano quelle condizioni, non secondo una logica che esclude in base a criteri di normalità.
[6] Si veda infra «Esperti di disabilità? Riflessioni sulla formazione in ambito socio-educativo e scolastico».