Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c1
Si tratta di andare oltre la ratio individuale (che con un generoso slancio potremmo dire biografica) proposto da alcuni strumenti pubblici di intervento locali, regionali e nazionali (dal progetto individuale sancito dalla legge n. 328 del 2000, al budget di salute al «Dopo di noi»). Peraltro, queste misure hanno spesso mostrato alcuni limiti strutturali che impediscono loro di essere realmente centrate sugli individui, essendo continuamente assestate su logiche assistenziali e meccanismi in cui è la risposta istituzionale a determinare la biografia e non viceversa. Lungi dalla nostra prospettiva pensare che l’individuo e la sua biografia debbano essere misura del mondo, anche se, al contrario, le singole biografie svelano, spesso, più generali meccanismi del mondo. Ciò che ci interessa
{p. 53}sottolineare è che i deficit degli interventi legati alla disabilità hanno, come esito, un impatto non emancipatorio sulle persone con disabilità.
Tutt’al più che, senza affermarlo chiaramente, la logica dei servizi si basa sulla prospettiva biografica. I servizi rispondono, sempre, a bisogni che hanno una concretezza e una storia nella quotidianità delle persone con disabilità e dei loro familiari (e con un peso crescente in situazioni complesse). Tuttavia, come si è visto anche nella vicenda qui raccontata, lo fanno rispondendo al tema della disabilità (come è costituzionalmente dovere dell’istituzione pubblica), non all’impatto della disabilità nella vita di un individuo (dimensione che può emergere solo attraverso la biografia). Ma all’interno di questa dinamica la biografia non scompare, essendo la vita stessa degli individui.
Ciò che accade, invece, è che le risposte dei servizi si basano spesso sulle biografie delle persone. La loro efficacia sociale (esistenziale per le persone) è in effetti, in gran parte, direttamente proporzionale al fatto che le persone e le famiglie siano in misura di mobilitare diverse forme di capitale (sociale, culturale, economico, relazionale). Senza dirlo, i servizi stessi, o prevedono il fatto che le famiglie ci mettano del proprio (cioè queste forme di capitale) o, in loro assenza o parzialità, non sono in misura di fornire risposte socialmente adeguate, se non quella dell’assistenzialismo e tutte le note conseguenze (istituzionalizzazione, segregazione, ecc.) [7]
.
È un non detto dei frammenti biografici proposti in questo testo. Senza l’immane investimento di capitali di diversa natura (economici, relazionali, di tempo, di energie, di paure, di relazioni, ecc.) messi in campo dai genitori di Moreno (e dalla rete familiare di sostegno), la vita di questo ragazzo a cosa sarebbe destinata? Quali scenari riusciamo a prevedere e prefigurarci? Quali scenari riusciamo a pensare in condizioni diverse, in cui i capitali culturali, economici e relazionali si assestano in condizioni di povertà? Per ovvie ragioni, in questo testo non ci siamo soffermati su una minuziosa analisi dei capitali in questione. Non era l’obiettivo, che resta quello di evidenziare quanto la dimensione biografica sia una svolta decisiva per pensare la disabilità e per tentare di intervenirvi.
La questione è chiara. La complessità delle vite delle persone con disabilità e dei familiari, cioè la pratica e materiale quotidianità entro cui si gioca la loro esistenza, la possibilità di far fronte al presente e proiet{p. 54}tarsi verso il futuro, raramente incontra i servizi. Questi molto spesso soddisfano alcuni bisogni (ma non possiamo rallegrarcene solo perché lo fanno – è sancito costituzionalmente – e che ciò, comunque è «meglio di niente»), ma si collocano all’interno di dinamiche in cui gran parte delle risorse (in termini di tempo, sforzo, denaro, abnegazione, rinuncia, possibilità di sostegno di larghe reti di relazioni, ecc.) sono mobilitate con la propria storia (cioè la propria biografia) e a proprie spese. In sostanza, di fronte a condizioni complesse che mettono in discussione le vite delle famiglie e degli individui, la minano dal profondo, la possibilità di condurre esistenze non alienate, non svilite è in gran parte esito di dinamiche, meccanismi, reti di relazioni, capitali agiti dalle famiglie e su cui si basano i servizi stessi. È perché i familiari di Moreno si organizzano a modo loro, e sotto il velato ricatto della risposta istituzionalizzante che ciascun familiare sa che, se mai non ce la facesse, gli verrebbe prospettata, che si possono fare «proposte educative» che sviliscono le esistenze degli individui. L’incapacità dei servizi di basarsi sulla biografia delle persone con disabilità produce, continuamente, dinamiche che rispondono ad alcuni bisogni e necessità, senza però andare oltre. Ciò che serve alle persone e alle famiglie per andare oltre quanto fornito dai servizi è mobilitato dalle famiglie stesse, se ne hanno le possibilità e le disponibilità (materiali, sociali, culturali, psicologiche, ecc.). In sostanza, si salva chi può, se riesce: secondo le classiche dinamiche di riproduzione sociale che permangono fino a quando, eventualmente, non si esauriscono, in chi ne dispone, le diverse forme di capitale.
Alcuni approcci sistemici che sono stati formulati a partire da riflessioni (e qualche pratica) su alcuni servizi per la disabilità adottano l’approccio biografico [8]
. Non si tratta, naturalmente di introdurre nuove figure all’interno dei servizi per la disabilità (gli esperti di biografia), ma di raccogliere le dimensioni biografiche profonde (non quelle che ci si fa raccontare per anamnesi varie) al fine di fornire risposte realmente centrate sugli individui.

7. Il «Dopo di noi»

Può sembrare tremendo. Ma, nel momento stesso in cui ho ricevuto la prima comunicazione, ho immediatamente cominciato a pensare alla mia morte. E credo che per la mamma di Moreno sia andata allo stesso modo.
Da allora, non ho mai smesso di pensare a che cosa potrà essere la vita di Moreno quando noi genitori non ci saremo più.{p. 55}
Credo che questo pensiero non possa essere compreso nella sua pienezza, se non sei un genitore di un figlio con una disabilità complessa come quella di Moreno. Non è un’accusa, la mia. Non ci sono limiti cognitivi o colpe. Semplicemente, non è possibile.
Il «dopo» è una cantilena che occupa uno spazio costante nella mia testa. È un assillo dal quale non riesco a sottrarmi. Anche quando provo a rimuoverlo o a chiedergli tregua perché non ne sopporto il peso, in realtà mi accorgo che non faccio altro che chiamarlo ulteriormente a me.
Che cosa faremo? Che cosa stiamo facendo? Ogni tanto ne parliamo. Io e sua mamma, intendo. Ma entrambi ci sentiamo ancora troppo giovani per pensarci concretamente. O, forse è meglio dire così, entrambi non siamo ancora pronti per sederci a un tavolo e domandarci: dunque?
Però prima o poi lo faremo. Con buona pace di Moreno, che dovrà prendersi quello che trova. Ma la sensazione di oggi è che, se riusciremo, è perché ci siamo arrivati da soli.
Forse troveremo una casa per Moreno. E magari saremo riusciti a mettere da parte qualche soldo, oltre alla sua pensione, per pagare qualcuno che voglia continuare a prendersi cura di lui, quando noi non saremo più in grado di farlo.
Ma la questione non è «soltanto» materiale. Quali saranno le esigenze di Moreno? E, soprattutto, quali sono e quali saranno i suoi desideri?
Il «dopo di noi» è un discorso al plurale. Sia perché la questione riguarda principalmente Moreno e non solamente noi genitori, sia perché non è per nulla scontato che noi tre riusciremo concretamente a trovare una risposta da soli.
E, a ben guardare, anche i tempi dei verbi dovrebbero forse cambiare. Perché l’uso del tempo futuro rischia di cancellare un presente che di questo futuro è piena sostanza.
Occorre partire da un punto fermo: queste riflessioni intersecano la biografia di un ragazzo che non ha ancora vent’anni e di due genitori che hanno appena superato la boa dei cinquanta. Con ogni probabilità, se Moreno oggi avesse il doppio degli anni (e i suoi genitori avessero vent’anni in più), troverebbero spazio altre riflessioni e altre (in)certezze.
È un aspetto che non possiamo sottovalutare e che certamente rappresenta un limite, per quanto comprensibile, della biografia in esame. Per un verso, perché è lecito ipotizzare che le disponibilità materiali, con il passare del tempo e salvo imprevisti, possano garantire maggiori possibilità di scelta. Per un altro verso, perché è altrettanto verosimile immaginare che un adulto di settant’anni non abbia la medesima forza e integrità fisica di quando ne aveva cinquanta e neppure un’identica disponibilità alla cura.
Tuttavia, anche posta in questi termini, la questione rimane aperta e rimanda a due piani di riflessione. Da un lato, in senso più generale, occorre infatti interrogarci sul ruolo attribuito alla cura nel nostro Paese, tanto sotto il profilo culturale quanto sotto quello giuridico, che del primo è, al contempo, esito e potenziale veicolo di trasformazione [Casalini 2015; 2022]. Come si è già anticipato, la cura (anche e soprattutto nella sua {p. 56}accezione di assistenza materiale) ha una chiara connotazione femminile e domestica. Un aspetto che pare trovare una sua legittimazione anche sul fronte giuridico, proprio in ragione dell’attuale assenza di un intervento organico in materia [Verga 2022].
Da un altro lato, con riferimento più specifico al tema del «dopo», risulta piuttosto evidente come, ancora oggi, la questione sia fortemente legata alle capacità e alle disponibilità individuali e familiari, anche a fronte delle previsioni del nostro ordinamento che, sul piano formale, da diversi anni si è attivato per promuovere un cambio di direzione, precisamente nell’ottica di garantire la vita indipendente delle persone con disabilità e la loro piena partecipazione sociale.
Questa lettura trova conforto nell’analisi degli attuali esiti della legge n. 112/2016 «Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare». Senza addentrarci nei singoli aspetti che caratterizzano la legge in esame – anche se occorre sottolineare come il legislatore abbia individuato una platea di beneficiari certamente inferiore a quella dei reali protagonisti di un progetto mirato alla vita indipendente – è infatti sufficiente osservare come, ormai a distanza di diversi anni, meno di seimila persone hanno concretamente goduto delle sue previsioni, tra l’altro con forti discrepanze a livello regionale. Un dato che non lascia dubbi sui suoi attuali profili di efficacia e che lascia chiaramente intendere come le previsioni sul «dopo» non siano ancora oggi accompagnate da concreti interventi nel «durante» [Ministero del lavoro e delle politiche sociali 2020].
Alla luce di questo scenario, vi è poi una considerazione finale che merita di trovare un piccolo spazio in questa sede. Perché se già gli attuali esiti della legge offrono un panorama certamente poco confortante, non è forse inopportuno soffermarsi anche sul titolo della legge.
Per due motivi. In primo luogo, come si è detto poc’anzi, la titolarità di un eventuale accompagnamento in un percorso che non conduca all’istituzionalizzazione sembra essere materia solamente delle persone con disabilità complessa (grave, usando il linguaggio della legge). Se per certi versi tale scelta pare comprensibile, per altri versi si corre il rischio di dare per scontato che, in presenza di disabilità meno complesse, vi siano automaticamente le disponibilità emotive e materiali per avviare un percorso che conduca alla vita indipendente.
In secondo luogo, il richiamo alla privazione del sostegno familiare ci rimanda (e, purtroppo, rafforza) le considerazioni avanzate più sopra, ovvero che i percorsi verso il «dopo» debbano prevalentemente restare nelle mani dei capitali individuali e familiari e che la mano pubblica debba intervenire solamente se questi vengono meno, con evidenti margini di rischio nella definizione delle traiettorie esistenziali delle persone con disabilità.{p. 57}
Note
[7] Qui si adottano le nozioni di riproduzione sociale e di ineguaglianza delle diverse forme di capitale di cui dispongono gli individui e le configurazioni familiari proposte dalla sociologia di Pierre Bourdieu. Per quanto il sociologo francese non fosse un sostenitore della biografia come strumento di comprensione del sociale, la condizione di disabilità sembra rappresentare, proprio quando si studiano le biografie, uno di quegli «sconvolgimenti importanti» [Bourdieu 1998, 157] suscettibili di produrre cambiamenti di posizione sociale e di configurarsi come una caratteristica biologico-sociale che complica le condizioni della formazione e del realizzarsi dell’habitus [Schianchi 2019, 59].
[8] Si pensi al genogramma familiare adottato in famiglie in cui sono presenti situazioni di disabilità [Sorrentino 2006], oppure alle aperture possibili, all’interno di un incontro tra familiari e operatori, di alcuni servizi per la disabilità [Cuppari e Formenti 2023].