Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c22
La progettazione personalizzata
partecipata orientata alla deistituzionalizzazione, invece, non assume che il
contesto sia immodificabile: se
¶{p. 518}una condizione di
disabilità impatta in una barriera è la barriera a doversi modificare, non la
persona. Tale progettazione, dunque, agisce sull’altro termine della difficoltà di
partecipazione: il soggetto da trasformare non è la persona ma il contesto, che può
modificare le sue richieste e le forme di modalità – di forma del corpo, di uso dei
sensi, di funzionamento cognitivo, di modi di relazionarsi – attese [Medeghini
2015]. Questo processo di modifica dei contesti va a guidare la definizione degli
obiettivi, che può essere messa in campo congiuntamente dalla persona con disabilità
e dagli operatori che sostengono il suo progetto.
L’obiettivo di ogni intervento,
in tale modalità, non è rendere la persona con disabilità meno
disabile ma consentirle di praticare la partecipazione in ogni
specifico contesto individuato, modificando le barriere che si concretizzano nella
richiesta di uno specifico funzionamento. Tale prospettiva può essere definita
antiabilista in quanto l’abilismo è proprio la concezione
secondo cui essere una persona con disabilità è strutturalmente e ontologicamente
peggio che non esserlo [Ostiguy et al. 2016; Nario-Redmond
et al. 2019].
Se, dunque, i percorsi «verso
l’autonomia» sono stati per molti anni un viatico efficace per far uscire le persone
con disabilità dall’esclusione sociale estrema e dalla completa passivizzazione
delle loro esistenze, ad oggi la cultura dell’autonomia spesso finisce per definire
una sorta di soffitto di cristallo determinato dal massimo grado di normalizzazione
raggiungibile. Se da una parte, infatti, è vero che fino a che
riesce a seguire il cammino di normalizzazione in qualche misura la
persona acquista empowerment e libertà, dall’altra si innesca
un meccanismo sottostante che fonde, per quella persona, il potere sulla propria
vita con l’acquisizione di una normalizzazione progressiva. Tale fusione finisce per
determinare perdita di potere per la persona, poiché la sua libertà rimane
strettamente intrecciata con quello che riesce a fare. Si crea
uno scivolamento culturale in cui l’autonomia, da viatico di
empowerment diviene un obiettivo a sé stante, un valore di
per sé, una caratteristica avulsa e la sua valutazione si scollega dalla possibilità
concreta e situata di partecipare.
Nel perseguire, dunque, la
cosiddetta autonomia la persona viene espropriata dalla possibilità di
autodeterminare le proprie traiettorie esistenziali, in quanto ogni obiettivo da
perseguire è inscritto a monte in un quadro, appunto, di «maggiore» autonomia.
Saraceno a questo proposito afferma che
Uno dei tanti miti, ma più spesso mistificazioni, della cultura riabilitativa psichiatrica ma anche più in generale della cultura assistenziale rivolta ai «deboli» e agli «esclusi» è il riferimento all’«autonomia» come obiettivo primario [...] la questione di fondo ha a che a vedere con il modello sociale che si persegue: quello dell’autonomia è quello darwiniano ove è perseguita la capacità del sin¶{p. 519}golo a partecipare vittoriosamente alla battaglia della sopravvivenza (autonomia); l’inclusione sociale sarebbe quindi il miglioramento delle dotazioni individuali danneggiate affinché il soggetto possa essere alla pari con gli altri: la stessa logica di riparazione di un guasto alla macchina [Saraceno 2021, 38].
La cornice antiabilista offre
dunque una guida per costruire una progettazione personalizzata partecipata
orientata alla deistituzionalizzazione, che si muova su direttrici indipendenti
dalle acquisizioni in termini di autonomia e sia accessibile a tutte le persone con
disabilità.
L’autonomia, la vicinanza della
persona al funzionamento normotipico, non costituisce in questo tipo di
progettazione un elemento in grado di discriminare percorsi, circoscrivere orizzonti
esistenziali, guidare gli obiettivi [Shogren et al. 2014]. Ciò
che orienta la costruzione del progetto sono la partecipazione sociale e l’accesso a
tutte le dimensioni della cittadinanza, non la misurazione della prestazione
attraverso cui la persona lo ottiene: l’inclusione è garantita alla persona
attraverso i sostegni, i vettori di facilitazione, gli elementi di modifica dei
contesti che vengono scelti, definiti e attuati non perseguendo modelli astratti e
aprioristici di essere umano (più o meno autonomo, in possesso di determinati set di
competenze, ecc...), ma mediante la valutazione professionale situata delle
modifiche che impattano in modo più profondo e stabile possibile su quel dato
contesto.
In questo senso la
progettazione personalizzata che si muove in una cornice antiabilista agisce nelle
comunità e sulle comunità, in particolare impattando sulle possibilità che i
contesti hanno di considerare la disabilità come una delle possibili forme di
diversità umana. Le progettazioni di ciascuna persona attraversano i contesti
definendo e ridefinendo le direttrici della partecipazione in termini inclusivi,
così come avviene in tanti altri campi della differenza: così come le sale di
preghiera degli aeroporti sono multiconfessionali perché ammettono la
varietà di religione possibile tra i diversi viaggiatori, così come
si vanno via via definendo assetti della lingua sempre più inclusivi, che
ammettano le diverse possibilità di identificazione di
genere nel discorso comune, allo stesso modo una progettazione
personalizzata accompagna le comunità a concretizzare l’inclusione della disabilità
come una delle forme della diversità umana, non come una minorità da accogliere o un
difetto da riparare. Tale approccio alla definizione degli obiettivi consente dunque
di legarli operativamente a desideri e aspirazioni e di farlo indipendentemente
dalla condizione di disabilità [Barbuto et al. 2007], senza la
necessità di definire «sacche di eccezioni», di circoscrivere o escludere alcune
persone che non hanno le caratteristiche perché sia ragionevole aspettarsi obiettivi
di normalizzazione. Tale totale inclusività costituisce una risorsa fondamentale
della progettazione personalizzata, perché la rende uno strumento adatto a tutte le
persone con disabilità, nessuno escluso. ¶{p. 520}
4. Strumenti del progetto personalizzato
4.1. Strumenti di base
4.1.1. Vettori di facilitazione
La progettazione
personalizzata partecipata è dunque orientata alla deistituzionalizzazione,
quando si muove nella cornice di un modello emancipatorio, in grado di costruire
un piano personalizzato orientato da desideri e aspirazioni della persona che si
dipani nell’esistenza quotidiana fornendo i necessari sostegni, agendo per
rendere accessibili e praticabili i contesti di tutti nella piena cittadinanza,
indipendentemente dal funzionamento di ciascuno. Una volta orientato il progetto
e definiti gli scenari-obiettivo (essere una lavoratrice, essere padre, vivere i
molteplici aspetti dello sport agonistico, essere un attivista
ambientalista...), infatti, è necessario inserire nel progetto le azioni che
costruiscono le condizioni concrete di praticabilità di tali scenari nelle
comunità di riferimento.
Il pieno riconoscimento
della persona come cittadino, infatti, non è un atto puntuale, ma si realizza
attraverso il modellamento dinamico dei contesti di vita in cui in quella
specifica comunità si dipanano gli scenari esistenziali tratteggiati (i
contesti, le associazioni, i luoghi in cui le lavoratrici, i padri, le sportive
e gli ambientalisti di quella comunità praticano quella dimensione della
cittadinanza). In questa fase, il progetto personalizzato assomiglia a una
mappa, progressivamente costruita dalla persona e da chi la supporta nella
progettazione, in cui i diversi contesti di vita vengono rappresentati con le
opportunità e le barriere che presentano.
In questa mappa vengono
definite, attraverso strumenti di volta in volta disegnati ad
hoc, le azioni da svolgere nel progetto, costruite sotto forma di
vettori di facilitazione: di azioni cioè volte a
modificare le condizioni di partecipazione di quello specifico contesto, al fine
di consentire l’accesso alla specifica forma di diversità di cui quella persona
titolare del progetto è portatrice.
Nella costruzione di tali
vettori, la restituzione del potere alle parole e al discorso della persona non
si ferma allo scambio tra persona e operatore (o équipe) ma viene integrata in
ogni contesto di vita, in modo che si crei un circolo virtuoso: il progetto si
declina modellando i contesti affinché la persona con disabilità acquisisca
dentro di essi sempre maggiore possibilità di autodeterminarsi, di parteciparvi
come cittadino, di modellarli a sua volta. In questo modo la mappa
progressivamente si allarga, i livelli di partecipazione di moltiplicano,
aprendo anche spazio a ulteriori e inimmaginati scenari di
futuro.¶{p. 521}
4.1.2. La conoscenza situata: nei contesti e dei contesti
Nel processo di costruzione
del progetto fino a qui descritto, si nota come non sia necessario un momento di
conoscenza «preliminare»: fin dal primo momento la conoscenza tra la persona e
l’équipe che la sostiene avviene nei contesti di vita reali, in situazioni in
cui la finalità non è mai quella di valutare, raccogliere o categorizzare le sue
caratteristiche.
Tale informazione
paradiagnositica, infatti, non si rivela utile né ai fini di costruire gli
scenari che fanno da orizzonte di cittadinanza verso cui orientare il progetto,
né a scegliere i contesti (che sono scelti sulla base dei desideri e non delle
caratteristiche), né ad attivare i vettori di facilitazione volti a rimuovere le
barriere di contesto (che, essendo di contesto, difficilmente possono essere
valutate fuori contesto).
L’oggetto delle valutazioni
che vengono operate durante la progettazione non è mai la persona, né sono le
sue caratteristiche, ma sono i contesti di vita, le modalità di partecipazione
sociale della sua comunità. Questo avviene per due ragioni, una funzionale e una
legata allo scenario della CRPD.
Una prima ragione attiene
all’efficacia delle azioni di facilitazione: se ci si muove in situazione reale,
è necessario operare una valutazione sempre in grado di integrare tre parametri:
natura della barriera (relazionale, comunicativa, fisica, cognitiva, culturale,
ecc...), la sua modificabilità in quello specifico contesto (dalla disponibilità
alla modifica delle barriere relazionali alla possibilità di adattamenti
architettonici...) e la sostenibilità delle azioni necessarie alla facilitazione
(intensità, durata, costo, necessità di reiterare gli interventi opportuni).
Solo dalla valutazione dei tre parametri integrati e della successiva
comparazione tra le diverse azioni di facilitazione possibili in quello
specifico contesto si può valutare la scelta delle azioni da svolgere. Tale
valutazione, tuttavia, riguardando parametri specifici connessi alla
partecipazione di quella persona in quel contesto in quel momento nel tempo,
deve necessariamente avvenire in situazione reale di partecipazione, non a
monte, in forma astratta o inautentica, e necessita in modo strutturale del
contributo della persona in qualità di co-valutatore dell’accessibilità della
situazione.
La seconda ragione per cui
la conoscenza necessaria alla progettazione personalizzata e partecipata può
svilupparsi soltanto in termini situati è relativa al significato che la CRPD dà
alla partecipazione. La partecipazione ai contesti di vita, per la persona con
disabilità, costituisce un diritto, non un’opzione terapeutica che il
professionista può disporre se lo ritiene opportuno: se la persona ha il diritto
a frequentare un certo contesto il compito dell’operatore non può che essere
favorire l’esercizio di tale diritto e nessuna valutazione previa può
restringere tale opportunità [Griffo 2012]. ¶{p. 522}
4.2. Strumenti psicopedagogici e organizzativi
4.2.1. La lingua madre progettuale e il controllo sul progetto
Come già descritto, la
progettazione personalizzata partecipata costituisce un processo che richiede
un’alta professionalizzazione dell’operatore, che è chiamato ad accompagnare e
sostenere l’emancipazione – e la piena cittadinanza della persona con disabilità
– attraverso l’oggetto mediatore dinamico che è il progetto. Chi la mette in
campo, dunque, deve dotarsi di strumenti psicopedagogici in grado di muoversi
sempre in modo armonico tra la dimensione concreta (la messa a punto dei
sostegni e l’eliminazione delle barriere) e la dimensione di
empowerment della persona. Abbiamo già citato
l’importanza in questo senso del passaggio da discorso a progetto: questa si
declina, nel momento concreto della stesura, in due aspetti pratici, ma con un
grande impatto sui processi.
Il primo aspetto riguarda
la lingua madre progettuale cioè
la lingua in cui il progetto viene pensato e scritto, è quella che ne definisce i significati profondi ed è quella che, sola, è in grado di esprimerne la pienezza. La lingua madre in progettazione educativa classica è il linguaggio tecnico: un linguaggio che la persona che domanda sostegno spesso non padroneggia, che non è quello in cui pensa, attraverso cui si rappresenta e attribuisce senso alla sua vita. Si tratta di un linguaggio che, anche se è in grado di comprendere, la persona può sempre e solo usare sotto forma di parole tradotte, sia in entrata che in uscita [Curto 2021, 99].
La definizione della lingua
madre progettuale ha una consistente influenza sui rapporti di potere nei
processi di progettazione: nel momento in cui la lingua madre progettuale è
quella della persona, infatti, l’operatore ha autenticamente bisogno di lei per
costruire il senso e la direzione del progetto. Il definire se stessi con le
proprie parole, i tentativi di dare una direzione al proprio progetto di vita,
l’attribuire senso agli eventi della propria esistenza diventano, da elementi
disturbanti o note a margine, componenti strutturali del discorso tra persona e
professionista: condizioni di possibilità necessarie affinché la progettazione
proceda. Di conseguenza, l’operatore è chiamato a ricercarle e spinto a creare
le condizioni per generarle. In questo modo, discorso professionale ed
emancipazione si connettono in un circolo virtuoso in cui l’uno, per
svilupparsi, necessita dell’altra. Il discorso sulla progettualità esistenziale
così generato diviene facilmente trasformabile in un progetto di vita poiché
contiene già gli elementi di empowerment che al progetto di
vita sono necessari. La scelta della lingua madre progettuale è una delle
modalità in cui si declina la rinuncia al declassamento del discorso altrui,
necessario per configurare
¶{p. 523}un passaggio dal discorso al
progetto di natura capacitante. Anche in condizione di marginalità e difficoltà
estrema, la riabilitazione della capacità di aspirare diventa a pieno titolo
obiettivo e strumento del progetto di vita poiché il progetto stesso, per
procedere, ha bisogno di un discorso su sé sempre più ricco di prospettive e
aspirazioni che nasca dalla persona e che si radichi nel suo sistema di
significati.
Note