Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c22
Al di là della dimensione
dell’importanza della diagnosi, la demedicalizzazione dell’approccio riguarda anche,
in modo profondo, la struttura della progettazione: una progettazione che si muove
in una cornice demedicalizzata, infatti, si compone di processi di ricostruzione del
senso dei fenomeni, delle esperienze, dei contesti in cui quella specifica esistenza
si sviluppa [Colucci 2006], seguendo un modello epistemologico differente rispetto
allo schema di matrice neopositivista eziologia (causa)-patologia (effetto)-sintomo
(fenomeno visibile conseguente). Applicare una cornice demedicalizzata significa,
dunque, muoversi nelle pratiche di progettazione mantenendo alta l’attenzione
nell’individuazione e nella neutralizzazione delle componenti medicalizzate che
residuano in circolo nel sistema di sostegni e servizi contemporaneo, sia a livello
dei metodi di approccio al singolo progetto sia a livello di
governance del sistema. In termini di sistema, come
declinato da Curto [supra], privilegiare modelli di
spie
¶{p. 508}gazione individuali, soluzioni basate sulla diagnosi e
modalità operative acontestuali, infatti, contribuisce a una rappresentazione dei
problemi sociali – per esempio il problema relativo all’housing
per le persone con disabilità, o la sottooccupazione delle stesse – come
effetti di micropatologie del singolo. Si prediligeranno, di conseguenza, sistemi di
servizi costruiti attraverso assetti che favoriscono interventi
riabilitativo-individuali basati «sulla traduzione in termini medici di problemi che
dovrebbero essere affrontati con misure sociali» collettive [Ongaro Basaglia e
Bignami 1982, 158] a scapito di modelli comunitari di emancipazione come la
personalizzazione comunitaria.
A completamento della cornice
emancipatoria, che fornisce una guida per costruire modelli di progettazione
personalizzata orientati alla deistituzionalizzazione, è necessario richiamare
l’antipaternalismo. Si tratta di un framework potente e
complesso, in cui la possibilità di orientare il corso della propria esistenza per
la persona con disabilità muove in un diverso rapporto tra capacità e rischio [Addis
2021].
Costruire modelli di
progettazione orientati alla deistituzionalizzazione implica dunque ridiscutere la
funzione di controllo assunta dal sistema di servizi alla luce della prospettiva di
uguaglianza di condizioni di cittadinanza proposta dalla CRPD [Griffo 2019].
2. La partecipazione alla costruzione e all’orientamento del progetto da parte della persona con disabilità
2.1. Dall’«assessment» preliminare alla co-costruzione del discorso progettuale
Nella costruzione professionale
del progetto personalizzato è consueto da tempo prendere in considerazione il
discorso della persona con disabilità: consentirle di esprimere preferenze,
esaminarne le attitudini, annotarne i desideri espressi. Tale «partecipazione» della
persona alla costruzione del progetto, tuttavia, si configura abitualmente con
caratteristiche particolari. In primo luogo, anche se è chiamata partecipazione non
si tratta di una co-costruzione strutturale, ma la «raccolta» di desideri e
preferenze viene circoscritta a momenti dedicati e puntuali. In secondo luogo, il
discorso della persona con disabilità viene trattato come un oggetto da osservare:
il professionista si trova a valutare se si tratta di un discorso sufficientemente
chiaro, sincero, valido e validabile – da prendere in considerazione cioè come
legittimato a direzionare quel progetto di vita – quali elementi siano invece da
classificare come sintomo, quali osservazioni siano rilevanti.
Sebbene presente da molti anni
nelle varie metodologie di progettazione, dunque, la presa in considerazione del
discorso della persona ¶{p. 509}con disabilità nei modelli classici
assumeva (e assume ancora) finalità prevalentemente di
assessment: sulla base della considerazione congiunta della
situazione di disabilità e delle preferenze, il progetto prevede la formulazione di
una sorta di «prognosi esistenziale» che comprende ciò che la persona può fare, dove
è meglio per lei vivere, se potrà lavorare e tutti gli altri aspetti dell’esistenza
[Dell’Acqua 2013]. Da tale prognosi discende la combinazione di luoghi e attività –
prevalentemente speciali – in cui quella persona potrà essere inserita in modo
appropriato, con le conseguenze per l’istituzionalizzazione evidenziate da Curto
[supra]. Il progetto costituiva, dunque, il luogo in cui
veniva formalizzato quell’«essere assegnati a un destino sulla base di una
caratteristica che spesso non si è scelta» che costituisce la definizione di
discriminazione [Tarantino et al. 2020] e la «partecipazione»
della persona si riduceva nell’esprimere qualche preferenza a livello micro (un
pasto o, nella migliore delle ipotesi, un compagno di stanza), o nell’optare tra ciò
che veniva predeterminato dalla procedura di assessment.
Tali modelli di progettazione,
pur se individualizzati, mantenevano un’evidente derivazione dal modello medico che
li ha resi obsoleti nel momento in cui i termini di uguaglianza sanciti dalla CRPD
hanno inserito nella progettazione personalizzata due dimensioni fondamentali:
l’orientamento del progetto alla piena cittadinanza e la finalità primaria di
realizzazione di desideri e aspettative della persona.
Tali innovazioni richiedono una
profonda innovazione dei processi di partecipazione della persona con disabilità
alla costruzione del suo progetto di vita. Poiché la disabilità non è più concepita
come una forma di patologia o minorità, ma come «una delle forme della diversità
umana» (CRPD, art. 3, comma d), non è più possibile utilizzare
un discorso diagnostico per circoscrivere il futuro né risulta appropriato costruire
un progetto-prognosi per orientarlo, ma è necessario dotarsi di strumenti capaci di
costruire un progetto personalizzato che parta dai desideri e
dalle aspettative delle persone, ampliandone le opportunità esistenziali e di piena
cittadinanza.
A partire da tali presupposti,
dunque, nell’impostare la costruzione professionale di un progetto personalizzato
partecipato orientato alla deistituzionalizzazione la persona con disabilità non
solo deve essere messa in condizione di dire la sua opinione, ma è la sua
espressione di volontà a dover orientare quello che nel progetto si fa
e, di conseguenza, ciò che nella sua vita accade o non accade: in questo
senso la partecipazione della persona assume un ruolo strutturale nella
progettazione [Curto et al. 2022].
Il discorso progettuale
partecipato, dunque, non è un momento definito nel tempo in cui si raccolgono
preferenze, ma è meglio definibile come un discorso sul futuro che contiene
desideri, volontà, aspirazioni e ¶{p. 510}obiettivi e che è volto a
costruirne la realizzazione attraverso un elenco più o meno articolato di azioni. Il
progetto personalizzato che ne esita è appunto l’insieme di quelle azioni (da
svolgersi nel presente) e delle loro finalità (da realizzarsi nel futuro) volte a
perseguire gli obiettivi prefigurati dall’interazione sistematica, situata e
continuativa con la persona che ne è titolare.
Ne deriva che la possibilità
per un discorso di orientare un progetto non è da ricercare nella qualità di quel
discorso, nelle sue caratteristiche intrinseche – più o meno chiaro, più o meno
«verbale» – ma nella rinuncia da parte dell’operatore al potere di trattarlo come un
oggetto di assessment, mantenendo nelle proprie mani la
possibilità di validarne o meno l’intenzione e la direzione [Basaglia et
al. 1979].
La possibilità di realizzare la
reale partecipazione della persona alla costruzione del suo progetto personalizzato
non dipende dunque, se non marginalmente, da parametri di gentilezza o accoglienza
nell’ascolto di desideri e aspirazioni, ma si configura in seguito alla possibilità
di far conseguire azioni dal discorso che la persona fa su di sé e sul suo mondo
sociale, dal modo in cui attraversa le relazioni, dai significati che attribuisce
alle esperienze.
Per poter costruire un progetto
partecipato, dunque, il discorso progettuale deve modificare la sua natura profonda,
trasformandosi da luogo diagnostico a luogo di costruzione e ricostruzione del
senso, luogo di esperienza comune tra operatore e persona [Colucci 2006].
2.2. Il progetto come misura di inversione dell’incapacitazione
Si è sopra descritto come nei
diversi modelli di progettazione in cui le persone con disabilità e le loro famiglie
venivano invitate a pensare al futuro, a immaginare cosa avrebbero voluto fare, a
esprimere aspirazioni e desideri, il loro discorso non venisse raccolto al fine di
orientare effettivamente il futuro, ma incappasse nel setaccio della valutazione,
per individuarvi segni – più o meno patologici – del presente. Accettazione della
condizione, superamento del «lutto» per la nascita di un figlio con disabilità,
aspettative più o meno «realistiche» sono solo alcuni degli assi di interpretazione
attraverso cui i discorsi e le aspirazioni delle persone con disabilità venivano
abitualmente analizzati. In questo modo, indipendentemente dall’accuratezza
dell’interpretazione in termini psicologici, si definivano precisi assetti di
potere: il fatto stesso che il discorso delle persone con disabilità e delle loro
famiglie potesse essere soggetto a un potere autorizzato a
recepirlo – declassandolo da espressione di volontà a «segno di» – aveva sulla
persona un effetto di incapacitazione primaria [Kukla 2014].
¶{p. 511}
Tale incapacitazione
costituisce uno dei processi chiave da invertire per consentire la piena
partecipazione della persona alla costruzione del progetto personalizzato orientato
alla deistituzionalizzazione.
La progettazione personalizzata
partecipata, dunque, si configura come un dispositivo capacitante, in quanto agisce
in modo proattivo sui meccanismi di disempowerment, modificando
le condizioni attraverso cui il discorso stesso tra persona e professionista si
costruisce [Guilfoyle 2003]. Il declassamento sistematico delle parole della persona
che ricopre la posizione di utente, che impediva nei vecchi modelli il trasformarsi
di quelle parole in progetto, viene ribaltato attivamente attraverso modalità
operative specifiche e finalizzate: l’operatore, privandosi della possibilità stessa
di valutare, classificare, dire «è segno di» si costringe a trattare il discorso
dell’altro non più come un luogo in cui cercare indizi a fini valutativi, ma come
luogo di parole legittimate a far accadere. In questi termini è
possibile affermare che la progettazione personalizzata partecipata è orientata alla
deistituzionalizzazione laddove si dota di strumenti per agire neutralizzando, con
azioni positive, lo squilibrio di potere tra discorso della persona e discorso
professionale. Ciò significa concretamente costruire processi sociali situati in
grado di far sgorgare azioni, nuove condizioni di esperienza, eventi puntuali,
opportunità, dalle affermazioni della persona [Curto 2022].
Un discorso progettuale così
costruito, dunque, non si limita a sostituire la voce narrante dell’operatore con
quella della persona (o di uno dei componenti della famiglia), ma modifica la sua
struttura del meccanismo di trasformazione da discorso a progetto. In questo modo il
progetto può diventare un utile oggetto mediatore di una pratica di accompagnamento
socio-educativo in cui l’emancipazione è allo stesso tempo mezzo e fine.
2.3. Partecipazione e scelte
Strettamente intrecciato con il
tema della partecipazione della persona con disabilità alla stesura del progetto vi
è quello della scelta. La necessità stessa di accompagnare e sostenere le vite delle
persone con disabilità attraverso un progetto personalizzato muove dal sostanziale
restringimento delle possibilità di scegliere la vita che ciascuno
desidera condurre che esse esperiscono. Tale riduzione di
opportunità, che viene declinata da Curto [supra] in relazione
al tema dell’accessibilità dei contesti, concerne strettamente la progettazione
personalizzata in quanto proprio il progetto si configura come il luogo in cui si
pianificano modalità, strumenti e sostegni volti all’espansione dei contesti
[Marchisio 2019].
Quando si parla di scelta per
le persone con disabilità appare in primo luogo fondamentale mantenere un orizzonte
di operatività, scongiurando ¶{p. 512}il rischio di costruire
discorsi astratti che la rappresentano come una sorta di «optare razionale e
informato» che la persona sarebbe chiamata a manifestare in modo puntuale e in
occasioni codificate. Le scelte, nella costruzione del progetto personalizzato, come
nell’esistenza di ciascun cittadino libero, si configurano, al contrario,
all’interno di un orizzonte esistenziale concreto, situato, articolato attraverso
contesti e relazioni che la persona esperisce o potrebbe esperire.
Lavorare sulla scelta nella
progettazione personalizzata, dunque, non significa lavorare sul concetto astratto
di «capacità di scegliere», ma agire concretamente sul ventaglio di opportunità
generabili nei contesti di vita. Coerentemente con il principio operativo della
CRPD, che raccomanda un sistema di sostegni costruito su base di uguaglianza con gli
altri cittadini, infatti, le scelte non sono osservabili dal punto di vista degli
esiti, ma vanno considerate sotto il profilo dei processi. Se si pensa alle altre
popolazioni discriminate risulta evidente come, a parità di condizione e di esito,
il fatto che la persona avesse o no l’effettiva possibilità di scegliere di
perseguire un dato scenario esistenziale risulta l’elemento dirimente per
comprendere se ci si trova davanti a una situazione discriminatoria oppure no
[Crenshaw 1989].
Per comprendere a fondo la
natura dei processi di scelta è importante considerare che la possibilità effettiva
di scegliere non deriva da un talento individuale, ma dalla combinazione di
molteplici fattori che comprendono inclinazioni personali, opportunità locali,
sistemi di relazioni e di valori, influenze culturali e costi della scelta.
A partire dai primi gesti di
autodeterminazione, quasi istintivi, della primissima infanzia, dunque, le scelte
costituiscono un’infrastruttura trasversale che attraversa tutta l’esistenza: a
parte alcune eccezioni che prevedono atti formali o rituali (la scelta di vendere
l’auto o di sposarsi), le scelte non richiedono un’espressione in formule
codificate, una validazione o una ratifica formale, ma si configurano come tali in
virtù del fatto che le azioni che ne conseguono sono considerate intenzionali e non
casuali.
Come quelle di tutti gli altri
cittadini, anche le scelte delle persone con disabilità non si collocano nel vuoto,
non sono frutto di una maggiore o minore «capacità di operarle», non sono
maggiormente autentiche quando sono meglio formulate, ma si concretizzano come
processi relazionali complessi, in cui si giocano affetti, relazioni, legami,
aspettative. Anche il modo in cui si sceglie, al pari del funzionamento, non è
univoco, ma è diverso per ciascuno e si sviluppa o si contrae in modo diacronico e
situato: più ampia è la possibilità di scegliere e praticare l’esistenza in modo
libero, più le opportunità di scelta diventeranno concrete e articolate [Badii e
Fabbri 2011].
¶{p. 513}
Note