Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c22
Come quelle di tutti gli altri cittadini, anche le scelte delle persone con disabilità non si collocano nel vuoto, non sono frutto di una maggiore o minore «capacità di operarle», non sono maggiormente autentiche quando sono meglio formulate, ma si concretizzano come processi relazionali complessi, in cui si giocano affetti, relazioni, legami, aspettative. Anche il modo in cui si sceglie, al pari del funzionamento, non è univoco, ma è diverso per ciascuno e si sviluppa o si contrae in modo diacronico e situato: più ampia è la possibilità di scegliere e praticare l’esistenza in modo libero, più le opportunità di scelta diventeranno concrete e articolate [Badii e Fabbri 2011].
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Nel corso dello scorrere dell’esistenza ciascuna persona incontra diversi scenari esistenziali: attraverso i contesti di apprendimento, di socializzazione, di partecipazione, ciascuno si costruisce gradualmente un’idea di quelle che possono essere le prospettive, i contesti, le modalità dell’esistenza e inizia a orientarsi verso qualcuno di questi [D’Andrea 2009]. Si tratta di processi plastici, evolutivi che si modificano ripetutamente e anche talvolta in modo radicale, combinando continuamente relazioni, aspettative, idea di sé, preferenze e opportunità reali.
Da questo processo complesso, personale e culturale intrecciato, spesso le persone con disabilità e le loro famiglie rimangono escluse: vengono tagliate fuori dalla spinta sociale e culturale al futuro ogni qualvolta nelle conversazioni, nei colloqui, persino in sede di progettazione, le caratteristiche della disabilità vengono considerate capaci di orientare lo spazio di praticabilità del futuro. Ogni qualvolta, fin dall’infanzia della persona, progettando il futuro, non ci si chiede che cosa quella persona desideri ma che cosa sa fare, si sposta la centratura di quell’esistenza dall’opportunità di scegliere alla valutazione del funzionamento, sottraendo a quella persona un’opportunità concreta di partecipare e direzionare la costruzione del suo progetto di vita.
Il progetto personalizzato ha dunque la funzione esattamente opposta al «valutare la capacità di scegliere»: ha una finalità proattiva nei confronti delle scelte, che passa dall’ampliamento delle opportunità concrete di praticarle, quotidianamente, su base di uguaglianza con gli altri.

3. La direzione del progetto e gli obiettivi

3.1. Un futuro di scenari situati a cui aspirare

Come ogni forma di progettazione, anche quella personalizzata definisce degli obiettivi che si collocano, per definizione, nel futuro. Il futuro, tuttavia, per le persone con disabilità non è una dimensione scontata, ma costituisce un orizzonte da riconquistare [Corbett e Barton 2018]. Ad oggi, infatti, lo scenario culturale prevalente in cui si è indotti a immaginare il futuro, la vita adulta, delle persone con disabilità è quello della perdita dei genitori. Il concetto del «Dopo di noi» contiene in sé una serie di convincimenti non discussi, mai condivisi esplicitamente, ma molto potenti: il fatto che la famiglia di origine sia e resti per tutta la vita l’unico centro di legami affettivi significativi [Beach e Schulz 2017], la convinzione che alla necessità di supporto per la persona corrisponda una non adultità, che la persona con disabilità – in quanto «non del tutto autonoma» – non cresca, non raggiunga mai una dimensione di cittadinanza [Kohn e Blumenthal 2014], {p. 514}l’idea che sarà sempre oggetto di un accudimento infantilizzante in ogni aspetto dell’esistenza [Prinz 2018], che è questo di cui «ha bisogno». Il futuro che si prospetta nell’orizzonte del Dopo di noi è dunque un futuro in cui la persona è immobile dal punto di vista sociale, delle relazioni, della cittadinanza: in cui ciò che cambia è solo chi si occupa di lei mentre ella resta comunque e soltanto un oggetto di cura. Il tempo entro cui si dipana la vita delle persone con disabilità in questo scenario è un tempo bizzarro a-biografico e bipartito (durante e dopo di noi), senza riferimenti sociali, psicologici, culturali, schiacciato tra un prima e un dopo addensati attorno a un evento largamente aleatorio, tardivo rispetto a ogni possibilità di progettualità esistenziale e, non ultimo, doloroso: la morte dei genitori [Chou et al. 2009]. Tale orizzonte temporale distorto è correlato alla discriminazione sistematica che colpisce le persone con disabilità e sottrae loro il potere di desiderare e di aspirare a costruire il proprio futuro sulla base dei tempi, degli accadimenti, delle esperienze della vita di ciascuno. Il futuro è collocato dentro uno schema rigido, basato sull’esistenza in vita dei propri genitori, primariamente come soggetti che garantiscono un luogo in cui abitare assistiti [Colleoni 2006]. In questo modo il futuro si schiaccia in un luogo e le risposte diventano quasi automaticamente istituzionalizzanti: al venir meno di un luogo in cui abitare assistiti (la casa familiare) è necessario garantire un altro luogo in cui abitare assistiti (la struttura).
Alle persone con disabilità, dunque, spesso fin dalla nascita, viene sottratto il futuro e con esso l’abitudine e la possibilità concreta di progettarlo [Lövgren e Rosqvist 2013]. Per queste ragioni, al fine di costruire una progettazione personalizzata partecipata – che possa dirsi autenticamente orientata a realizzare desideri e aspirazioni delle persone – occorre mettere loro a disposizione non solo una raccolta di desideri espressi in modo puntuale, ma un processo che consenta di riattivarli, di costruirli, di esperire condizioni differenti di presente e di futuro [Gauthier-Boudreault et al. 2018]: si tratta di «capacitazione», cioè di «messa in situazione autentica di cittadinanza», di sperimentazione di possibilità, di desiderio che può realizzarsi, di restituzione di senso di autoefficacia, di acquisizione della consapevolezza e dell’effettiva possibilità di avere potere sulla propria vita. Gli obiettivi del progetto, in questo quadro, non sono funzionamenti, ma scenari di cittadinanza: il progetto tende non verso una singola acquisizione, ma verso un sistema esistenziale in cui la persona possa muoversi liberamente tra le attività, le frequentazioni, le opportunità, le relazioni che riconosce rispondenti ai suoi desideri in quella fase della sua vita. In questo senso si definisce già dagli obiettivi quella che più sotto verrà articolata come personalizzazione comunitaria: un progetto orientato in questo modo non può per definizione muoversi nel vuoto o nel chiuso di un’istituzione ma, dal momento che i progetti si dipanano nel mondo di tutti, nelle comunità, {p. 515}nelle città, più ricchi sono gli scenari, più vengono arricchite le esperienze [Shogren 2013]; quando si aprono scenari per futuri desiderati, il progetto si autoalimenta in termini di inclusione e piena partecipazione.

3.2. Un potere a somma zero nel determinare la direzione

Una delle radici storte che spesso limita l’efficacia della progettazione personalizzata come strumento di deistituzionalizzazione è la concezione, guidata dalla cultura neopositivista che pervade spesso ancora le scienze sociali, della disabilità come un dato [Heller et al. 2011]: qualcosa di incontrovertibile, astorico e aculturale, le cui caratteristiche e conseguenze necessariamente impattano in un certo modo sulle vite delle persone [Shogren e Shaw 2016]. Per mettersi nella condizione di costruire professionalmente un progetto personalizzato partecipato, al contrario, è necessario muovere dalla consapevolezza che la disabilità, e persino la menomazione, non sono dati, quanto piuttosto presi: elementi – tra i tanti che esistono e che fanno parte dell’universo personale e sociale di quello specifico essere umano – che vengono appunto presi, scelti, assunti come dotati di maggiore potere informativo rispetto ad altri, trattati come in grado di orientare le scelte, di determinare i percorsi, di giustificare il mancato godimento dei diritti. Non più, quindi, una caratteristica determinante, la categoria primaria per leggere quell’esistenza, ma un elemento che, in interazione con altri che quella esistenza intercetta, contribuisce a definire una situazione di deficit di cittadinanza, per contrastare la quale è diritto della persona accedere a un supporto professionale e risorse dedicate. In particolare, il progetto personalizzato partecipato sottrae alla condizione di disabilità – sia nelle sue declinazioni qualitative (tipi di disabilità), sia in quelle che aspirano allo scettro di quantitative (distanza dalla norma, misurata attraverso il parametro della «gravità») – il potere di circoscrivere il campo dell’esperienza. Al contrario, esso è lo strumento attraverso cui la persona esercita uno dei poteri di autodeterminazione più importanti: scegliere il punto di accesso alla propria esistenza. Autodeterminare il punto di accesso alla propria esistenza è, infatti, una dimensione di potere molto grande, da cui le persone con disabilità sono sistematicamente escluse: nelle progettazioni tradizionali per definire la direzione del progetto, per stabilirne gli obiettivi e gli indirizzi, gli elementi da prendere in considerazione in via preliminare sono diagnosi (singola o aggregata nei gruppi di diagnosi definiti dai «tipi di disabilità»), patologia, e gravità. Essi vengono usati per circoscrivere preventivamente il campo entro cui i desideri e le aspirazioni della persona si potranno declinare. Ciò non è congruente con il fatto che ogni cittadino non discriminato deve essere messo in condizione di orientare il proprio {p. 516}progetto di vita secondo desideri e aspirazioni, senza movimenti preventivi a circoscrivere [Wehmeyer 2003]: per le persone con disabilità si tratta di un’operazione che necessita di un sostegno professionale non perché esse siano strutturalmente incapaci di direzionare la propria esistenza, ma perché la discriminazione che esse subiscono insiste proprio su questo aspetto, che impatta sulla capacità di aspirare. Le persone con disabilità sono discriminate, infatti, anche a monte rispetto alle barriere che incontrano nell’accedere ai contesti, nel momento in cui la loro possibilità di aspirare incontra sistematicamente barriere – culturali, sociali, materiali, relazionali – che bloccano i tentativi di sognare il futuro e schiacciano tutto sulla gestione del presente. La progettazione personalizzata partecipata ha, invece, un rapporto dinamico con il presente: la costruzione delle aspirazioni delle persone, di tutte le persone, nasce e si sviluppa in modo profondamente intrecciato con il contesto di vita, con le esperienze, con le opportunità attuali. Il presente serve per costruire il futuro. Al fine di strutturare un sistema in grado di agire con efficacia in questo senso, è necessario dunque immaginare meccanismi sempre integrati, in situazione reale di ampliamento delle opportunità, potenziando le azioni finalizzate a mettere le persone in condizione di esperire la possibilità sistematica e situata di autodeterminarsi fuori dalla cornice di una messa alla prova o di un fatto eccezionale.
Il lavoro dei servizi nella progettazione personalizzata partecipata, dunque, non si colloca a monte di questo ampliamento (attraverso, ad esempio, percorsi addestrativi che aiutano la persona a maturare i requisiti), né a valle (attraverso verifiche e ratifiche di autonomie raggiunte): il lavoro dei servizi in questo scenario consiste nel configurare un sistema di interventi che integrino sistematicamente e strutturalmente la possibilità di direzionare il corso della propria esistenza. Tale possibilità è strettamente connessa con il fatto che l’espressione di preferenze, intenzioni, disaccordi, desideri, aspettative è considerata valida in quanto espressa da un soggetto che è pienamente cittadino, indipendentemente dalle sue caratteristiche [Rovatti 2013].
Si tratta in questo senso di agire per potenziare la forma di capitale del soggetto detta capitale retorico: non una dotazione intrinseca che attiene alla capacità della persona, ma una costruzione sociale, che sostiene l’autodeterminazione della persona attraverso rapporti di reciproca validazione tra i cittadini della medesima collettività.

3.3. Costruire gli obiettivi specifici in una cornice antiabilista

Una volta innescati i processi volti ad ampliare per le persone opportunità esistenziali e capacità di aspirare, un ulteriore passaggio nella {p. 517}costruzione del progetto personalizzato è dato dalla declinazione in sotto-obiettivi degli scenari esistenziali che la persona delinea e desidera. Tale suddivisione è funzionale al fatto che il progetto non si esaurisce nell’espressione di uno o più desideri, ma deve dotarsi di strumenti e mettere in campo azioni volti a renderli reali nella vita della persona.
Affinché la progettazione personalizzata partecipata possa operare la declinazione di tali obiettivi in un quadro di deistituzionalizzazione è necessario che sia inserita in una cornice concettuale che problematizza il concetto di «autonomia».
La progettazione educativa per le persone con disabilità, infatti, afferisce spesso a percorsi addestrativo-normalizzanti finalizzati a modificare il funzionamento della persona avvicinandolo a uno standard considerato normotipico [Loja et al. 2013]. A fronte dell’espressione del desiderio di uno scenario esistenziale (vivere in un certo quartiere come un libero cittadino, lavorare, avere una famiglia) vengono stabilite delle modalità di funzionamento, di comportamento, di azione quotidiana che divengono per le persone con disabilità requisiti: esse sono spinte a raggiungerli, pena il non poter accedere allo scenario desiderato [Jahoda e Markova 2004]. Il framework dell’autonomia agisce quindi implicitamente sulla definizione degli obiettivi dei progetti, secondo un meccanismo che muove da due assunti mai discussi. Il primo assunto di base è che, anche se è noto che tutte le persone hanno modalità e livelli di funzionamento differenti – ciascuno differente dall’altro e ciascuno differente nel tempo e nello spazio – vi sono alcune tra queste differenze che devono essere necessariamente modificate per poter partecipare alla società [Wolbring 2012; Goodley 2014]. Tutto il discorso sull’autonomia assume, infatti, che vi siano dei modi di pensare, di muoversi, di comportarsi che impattano sull’esperienza quotidiana della persona limitandone inevitabilmente la partecipazione: ogni specifico contesto in cui quella persona vorrebbe partecipare richiederebbe un funzionamento – o un insieme di funzionamenti – differenti. Tale richiesta viene considerata – secondo assunto – come statica e immodificabile e quindi l’unico scenario possibile per la partecipazione diventa la modifica del funzionamento della persona. In una progettazione nella cornice dell’autonomia, dunque, l’espressione di desideri e aspirazioni può anche avvenire liberamente, ma, per potervi davvero accedere, la persona con disabilità deve imparare a funzionare come il contesto si attende (spesso, in modo un po’ arzigogolato, come gli operatori si aspettano che il contesto si aspetti, poiché le valutazioni delle competenze di autonomia avvengono spesso fuori dai contesti reali di vita) oppure desideri e aspirazioni saranno considerati al di fuori della sua portata [Goodley 2014].
La progettazione personalizzata partecipata orientata alla deistituzionalizzazione, invece, non assume che il contesto sia immodificabile: se
{p. 518}una condizione di disabilità impatta in una barriera è la barriera a doversi modificare, non la persona. Tale progettazione, dunque, agisce sull’altro termine della difficoltà di partecipazione: il soggetto da trasformare non è la persona ma il contesto, che può modificare le sue richieste e le forme di modalità – di forma del corpo, di uso dei sensi, di funzionamento cognitivo, di modi di relazionarsi – attese [Medeghini 2015]. Questo processo di modifica dei contesti va a guidare la definizione degli obiettivi, che può essere messa in campo congiuntamente dalla persona con disabilità e dagli operatori che sostengono il suo progetto.
Note