I salari
DOI: 10.1401/9788815411143/c1
«Simile ad ogni altra contrattazione, quella delle mercedi {p. 23}dev’essere lasciata alla libera concorrenza del mercato, né mai il legislatore dovrebbe impacciarsene»
[12]
. Quest’affermazione centrale dei «Principi» di Ricardo tiene ancora il campo, nella sostanza, sin sul finire del secolo scorso
[13]
. Nonostante l’apparire di fenomeni non contemplati, e non assorbibili, nello schema dell’economia classica, quali le concentrazioni monopolistiche e il peso crescente del sindacalismo operaio, «dalle cattedre si continuava a parlare della concorrenza come della legge fondamentale»
[14]
. Negli economisti immediatamente posteriori a Ricardo è più marcatamente evidente la preoccupazione di contrastare, dal punto di vista teorico, la fondatezza delle «crescenti rivendicazioni delle unioni sindacali e di fornire altresì qualche giustificazione del profitto contro l’incipiente critica socialista»
[15]
. La contestazione dell’attitudine dell’azione sindacale ad elevare permanentemente il livello reale dei salari si sposa alla critica dell’intervento statale in materia. Il fondamento logico ne è infatti il medesimo: in entrambi i casi si tratterebbe del tentativo, velleitario, di forzare dall’esterno la dinamica di funzionamento del mercato del lavoro, dal cui spontaneo operare dipenderebbe, in ultima analisi, la determinazione del livello dei salari
[16]
.
¶{p. 24}
L’istanza di un intervento dello stato regolatore del livello minimo dei salari, che comincia ad emergere nell’ultimo decennio del secolo in vari paesi europei a fronte delle condizioni di disumano sfruttamento praticate nei «sweated trades»
[17]
, si trova così stretta fin dall’inizio fra il dogma (economico) della legge della domanda e dell’offerta e il suo pendant giuridico: l’affermazione rigorosa del principio della libertà contrattuale individuale. Senonché la teoria classica della sussistenza aveva subito una prima incrinatura con l’affermazione, già presente in Ricardo, che a determinare il «prezzo naturale» del lavoro (rectius della forza-lavoro) contribuiscono non soltanto il prezzo dei beni strettamente necessari alla conservazione puramente fisiologica dell’operaio come classe, ma anche le abitudini e i costumi prevalenti in un ¶{p. 25}dato contesto sociale
[18]
. L’affermazione, che in Ricardo ha quasi carattere parentetico
[19]
, era stata il punto di partenza della critica marxiana alla teoria classica del salario. La merce forza-lavoro — aveva spiegato Marx — essendo incorporata in esseri umani, presenta, rispetto alle altre merci, la caratteristica differenziale di avere un valore per così dire dilatabile: il valore della forza-lavoro, infatti, «è costituito da due elementi, di cui l’uno è unicamente fisico, l’altro è storico o sociale. Il suo limite minimo è determinato dall’elemento fisico, il che vuol dire che la classe operaia, per conservarsi e per rinnovarsi, per perpetuare la propria esistenza fisica, deve ricevere gli oggetti d’uso assolutamente necessari per la sua vita e per la sua riproduzione... Oltre che da questo elemento puramente fisico, il valore del lavoro è determinato dal tenore di vita tradizionale in ogni paese. Esso non consiste soltanto nella vita fisica, ma nel soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono dalle condizioni sociali in cui gli uomini vivono e sono stati educati»
[20]
. La contrattazione collettiva (ma anche il salario mini¶{p. 26}mo legale) adempie dunque, nell’ottica marxiana, alla funzione sociale in primo luogo di contrastare la tendenza periodica del prezzo di mercato della forza-lavoro a scendere al di sotto del limite minimo del suo valore
[21]
, ma soprattutto al compito di dilatarne (e consolidarne) l’elemento storico-sociale. In questi termini l’analisi marxiana rispondeva all’esigenza pressante di fornire «un fondamento razionale alla tesi della utilità e necessità degli sforzi che i lavoratori debbono compiere per migliorare anche in regime capitalistico le loro condizioni di vita»
[22]
.
In una prospettiva diversa, ma convergente sul punto della valorizzazione dell’azione collettiva e dell’utilità dell’introduzione di un salario minimo legale, si muovono i coniugi Webb. La prospettiva è diversa perché, mentre per il gruppo di sindacalisti influenzati dal marxismo, che sul finire del secolo contribuì così incisivamente a rinnovare il movimento operaio britannico, la rivendicazione di un salario minimo generale (come pure della limitazione della giornata lavorativa ad otto ore), potendo essere soddisfatta solo per via legislativa, costituiva l’anello di passaggio fra azione sindacale e azione politica della classe operaia
[23]
, nell’ottica «produttivistica » degli Webb è piuttosto dominante la preoccupazione di dimostrare la congruenza fra imposizione della nor¶{p. 27}ma comune ed esigenze dell’apparato produttivo. La norma comune, infatti, tanto nella versione contrattuale, quanto in quella legislativa, «impedisce al datore di lavoro di ovviare all’inferiorità tecnica con i bassi salari, lo costringe ad adottare metodi più moderni di riduzione dei costi; elimina le imprese parassite e ultramarginali favorendo lo sviluppo del sistema industriale»
[24]
. Di fatto, però, le due impostazioni convergono nel popolarizzare nei sindacati e fra gli operai, sin’allora piuttosto recalcitranti, l’idea dell’opportunità di una lotta per il salario minimo legale. Sono anzi proprio i due intellettuali fabiani, a fronte dei timori diffusi nelle trade unions che il salario minimo potesse trasformarsi in uno strumento per bloccare l’azione salariale del sindacato
[25]
, ad impostare il rapporto fra legge e contratto in termini assolutamente moderni e di esemplare lucidità. Ben lungi dall’ostacolare la contrattazione, il salario minimo per gli Webb risponde per un verso all’esigenza di garantire una tutela minimale a settori di forza-lavoro che il sindacato non è (o almeno non è ancora) in grado di raggiungere
[26]
, per altro verso offre un sostegno generalizzato di base all’azione sindacale, sempre suscettibile di miglioramenti attraverso i risultati della contrattazione collettiva
[27]
. Si tratta, in altri termini, di assumere consapevolmente l’op¶{p. 28}posizione alla dottrina della domanda e dell’offerta che, quantunque mai accettata interamente, aveva costituito il quadro di riferimento dell’azione salariale anche per le trade unions del «vecchio sindacalismo»
[28]
, comprendendo che la politica del salario minimo legale costituisce «il complemento ovvio dell’indirizzo della legislazione sulle fabbriche»
[29]
.
Ma un conto era contestare la validità del principio-cardine del liberismo economico sul piano dell’organizzazione e dell’azione collettiva, rivendicando tariffe salariali sufficienti (quanto meno) ai bisogni vitali anche in periodi di depressione economica
[30]
; altra (e ben più difficile) impresa era piegare la radicale ostilità dei pubblici poteri ad intervenire su un punto centrale (il punto centrale) della relazione di scambio fra capitale e lavoro, a tutela delle fasce più deboli e/o non organizzate di manodopera. Naturalmente i primi interventi di legislazione sociale avevano dapper
¶{p. 29}tutto intaccato lo schema della libertà contrattuale individuale inteso nella sua accezione più rigida; nello stesso senso andava la progressiva emersione del fenomeno sindacale dalla sfera dell’illiceità
[31]
. Né, del resto, si contestava, ormai da tempo, la legittimità dell’intervento statale per regolamentare il modo di pagamento del salario
[32]
. Ammettere un’analoga possibilità di intervento quanto alla misura di esso avrebbe significato, viceversa, operare uno strappo troppo netto rispetto alla logica di mercato. La determinazione quantitativa del salario andava lasciata alla libertà contrattuale delle parti (preferibilmente) individuali o (alla peggio) collettive, giacché, per dirla con le parole, eloquenti più di ogni altra considerazione, di un legislatore francese dell’epoca, «si la question du minimum de salaire était posée devant la Chambre, ce serait le socialisme en action qui se dresserait devant vous, et nous sommes résolus à le discuter en lui-même et à le combattre»
[33]
. Quel deputato esagerava, certamente
[34]
. Ma esprimeva, {p. 30}senza tanti giri di parole e col pregio (già allora) raro della chiarezza, sentimenti diffusi nei vari establishments nazionali: che quella della determinazione del salario fosse una trincea dalla quale non bisognava arretrare, una sorta di affare privato di cui mai lo Stato, ricardianamente, avrebbe dovuto «impacciarsi».
Note
[12] Ricardo, Principi dell’economia politica, Torino, UTET, 1856 (ma 1817), p. 421.
[13] La discussione circa gli effetti della contrattazione collettiva e dell’intervento dello Stato, tramite la fissazione di un salario minimo legale, sul livello dei salari non può considerarsi esaurita, del resto, neppure ai giorni nostri: sul punto cfr. sin d’ora Dobb, I salari, Torino, Einaudi, 1965 (trad, dalla IIa ediz. del 1959), p. 125 ss.
[14] Giugni, Introduzione a Perlman, Per una teoria dell’azione sindacale, Roma, Ediz. Lavoro, 1980 (ma 1956), p. 3.
[15] Dobb, Storia del pensiero economico, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 27. Nello stesso senso si v. Roll, Storia del pensiero economico, Torino, Boringhieri, 1967, p. 352 ss., con particolare riferimento a Nassau Senior, «sulle cui convinzioni fondamentali nulla getta una luce maggiore che la sua violenta opposizione al sindacalismo operaio» (ivi p. 355).
[16] Cfr. Dobb, I salari, cit., p. 98 ss., 125 ss. Assolutamente esplicite al riguardo le tesi di Mountifort Longfield: nelle sue «Lectures on political economy» tenute a Dublino nel 1833 egli afferma l’impossibilità di «regolare complessivamente i salari, sia con l’organizzazione dei lavoratori, sia con misure legislative» giacché «l’ammontare dei profitti e dei salari è chiuso entro confini che nessun corpo legislativo, con l’esercizio diretto della propria autorità, può estendere. Le leggi e l’organizzazione dei lavoratori possono solo provocare danni, mai vantaggi»: citazioni da Dobb, Storia, cit., p. 27, 105 ss. È appena il caso di ricordare che quando Longfield tiene le sue «Lectures» il parlamento inglese aveva da non molto tempo cessato di legiferare in materia salariale: nel 1813, infatti, erano state abrogate le ultime leggi che regolamentavano il livello massimo dei salari. L’abrogazione, peraltro, sopravveniva quando la funzione sociale dell’istituto era già da tempo esaurita: con essa si giungeva a suggellare, con ritardo, la realtà di un capitalismo «divenuto abbastanza forte da render tanto inattuabile quanto superflua una regolamentazione legale del salario»: così Marx, Il capitale, I t. 2, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 803 (ivi ampi ragguagli sugli interventi legislativi sui massimi salariali dal XIV secolo in poi). Per una valutazione più completa delle teorie tradizionali dei salari si deve tener conto che non tutte presentano un pari grado di rigidità: l’interpretazione marshalliana, ad esempio (che peraltro è espressa in forma compiuta sul finire del secolo: i «Principles» sono pubblicati nel 1890), è sicuramente meno schematica e più aperta ad ammettere l’influenza dell’azione sindacale. Non a caso di Marshall è stato detto che si trattava di «un riformista liberale: sebbene non intendesse rinunciare ad alcun argomento che la moderna scienza economica potesse offrire in difesa del capitalismo, egli era anche restio a sbarrare la strada a tutte le proposte di riforme»: Roll, Storia, cit., p. 408.
[17] D’obbligo il riferimento all’opera dei coniugi Webb: «Quando qualsiasi uomo di Stato europeo si determinerà a prendere seriamente di fronte il problema dei sweated trades, egli dovrà svolgere ed ampliare le leggi sulle fabbriche del suo paese in un codice del lavoro sistematico e comprensivo, che prescriva il minimum delle condizioni sotto la cui osservanza soltanto la comunità può permettere che l’industria venga esercitata, e comprendente non solo determinate misure precauzionali di igiene e di sicurezza ed un maximum di ore di fatica, ma anche un minimum di guadagni settimanali»: Industrial democracy (1897), trad. it. La democrazia industriale, Torino, UTET, 1912, p. 704. Tutta l’introduzione alla seconda edizione di Industrial democracy, scritta nel dicembre del 1901, è ispirata ad una vigorosa difesa dell’idea di salario minimo legale.
[18] Cfr. Ricardo, Principi, cit., p. 412 ss. Com’è noto Ricardo distingue fra prezzo naturale del lavoro, inteso come «quello che sia indispensabile perché tutti in genere i lavoranti possano sussistere e perpetuare la loro specie senza accrescimento o diminuzione» e prezzo corrente che è «quello che realmente se ne paga, come naturale effetto del rapporto tra la domanda e l’offerta; giacché il lavoro è più caro quando scarseggian le braccia, men caro quando abbondano» (p. 412): da questa distinzione parte anche l’analisi marxiana per dare fondamento, attraverso la sottolineatura dell’elemento storico-sociale del valore della forza-lavoro (le abitudini e i costumi di Ricardo), alla necessità ed utilità dell’azione salariale del sindacato. Non a caso gli economisti di scuola marginalista, à la Jevons, polemizzeranno aspramente con la teoria di Ricardo, imputandole, nella sostanza, il grave torto di aver spalancato la porta al sistema marxiano: cfr. Dobb, Storia, cit., p. 171.
[19] In effetti Ricardo, sulle orme di Malthus, sembra ritenere che l’operare della legge della popolazione sia atto a controbilanciare gli effetti di abitudini e costumi nella determinazione dei livelli salariali: cfr. Dobb, I salari, cit., p. 102.
[20] Marx, Salario, prezzo e profitto, Roma, Editori Riuniti, 1977 (ma 1865), p. 106. Marx, naturalmente, si allontana da Ricardo anche per l’esplicito rifiuto della teoria malthusiana della popolazione. Che lo spessore scientifico di tale teoria fosse inconsistente sarà dimostrato definitivamente alla fine del secolo XIX, quando si scoprirà che il tasso di natalità fra le persone con livello di vita più elevato tende ad essere non più elevato, ma più basso. Anche per contrastare il diffondersi di concezioni riduttive dell’azione sindacale all’interno dei nascenti movimenti operai Marx scrisse Salario, prezzo e profitto: l’occasione immediata fu data dalla necessità di replicare alle tesi dell’operaio inglese John Weston, che aveva sostenuto, in pratica, l’inutilità dell’azione salariale del sindacato. Ma già precedentemente, com’è noto, Lassalle aveva contribuito a propagare nel movimento operaio tedesco la c.d. «legge bronzea del salario»: cfr. Abendroth, La socialdemocrazia in Germania, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 20 ss., ed anche Lenin, Sui sindacati, gli scioperi, l’economismo, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 5. Sulla natura sociale, e perciò relativa, dei bisogni Marx aveva già insistito in Lavoro salariato e capitale, Roma, Editori Riuniti, 1977 (ma 1849), p. 54.
[21] Marx, in realtà, condivideva con Ricardo la convinzione non solo che il prezzo di mercato della forza-lavoro oscillasse attorno al suo valore ma anche che non se ne potesse tenere troppo a lungo discosto. Per questo l’azione salariale del sindacato trova fondamento, più che nell’esigenza di contrastare le fluttuazioni verso il basso del prezzo di mercato, soprattutto nell’esistenza di quello ch’egli chiama elemento storico-sociale del valore della forza lavoro.
[23] Cfr. Morton e Tate, Storia del movimento operaio inglese (1770-1920), Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 192 s. La rivendicazione di un salario minimo legale figura anche altrove fra gli obbiettivi dell’azione politica socialista: in Francia, ad esempio, il partito socialista la inserì nel proprio programma, alla cui stesura parteciparono anche Marx ed Engels, sin dal congresso di Parigi del 1880: si V. Raynaud, Vers le salarire minimum. Étude d’économie et de législation industrielles, Parigi, Sirey, 1913, p. 367. Sull’azione dei socialisti italiani si veda più avanti nel testo.
[24] Giugni, introduzione, cit., p. 22.
[25] Cfr. Webb, La democrazia industriale, cit., p. 710.
[26] Ibidem, p. 42.
[27] Ibidem, p. 735: «…il metodo del contratto collettivo ha anch’esso la sua legittima sfera d’azione. Nella nostra analisi delle caratteristiche economiche della norma comune abbiamo fatto osservare quanto sia essenziale, nell’interesse di ogni industria in particolare, ed anche della comunità in complesso, che nessuna categoria di operai rimanga paga del minimum nazionale garantito dalla legge...». E più avanti: «... Insomma, per tutto ciò che eccede il minimum nazionale... i salariati debbono fare assegnamento sul metodo del contratto collettivo» (p. 737). Sul rapporto fra legge e contratto negli Webb si v. Sciarra, La democrazia industriale in Gran Bretagna dagli Webb al rapporto Bullock, in Aa. Vv., Democrazia politica e democrazia industriale, Bari, De Donato, 1978, p. 11 s; Pedrazzoli, «Industrial democracy» di Sidney e Beatrice Webb: ottant’anni dopo, in «Pol. dir.», 1983, p. 685 ss. Non va trascurato che nello stesso torno di tempo l’idea di salario minimo, sub specie di «giusto» salario, trova un’eco anche nel pensiero sociale cattolico, a seguito della pubblicazione nel 1891 dell’enciclica Rerum novarum. Ma mentre nelle correnti di pensiero socialista si compie il tentativo di fondare la rivendicazione del salario minimo su basi scientifico-razionali, l’enciclica si limita ad operare un répêchage dell’idea cristiano-medioevale di giusto salario, elaborata dai canonisti come applicazione specifica della teoria del giusto prezzo nei contratti. Restando indeterminata quanto agli strumenti di attuazione del salario minimo, l’enciclica, inoltre, si poneva su un terreno più arretrato anche rispetto al dibattito in corso negli ambienti cattolici, dove proposte di intervento dello Stato in materia erano già state esplicitamente avanzate, per es. dal cardinale Manning in Inghilterra e da padre Liberatore in Italia (sulla «Civiltà cattolica» del 1889). Anche per questo riguardo, dunque, si può convenire con chi ha scritto che «la politica sociale di Leone XIII ha i tratti essenziali di tutti gli altri aspetti della sua politica: genialità d’intuizioni, una certa nebulosità dei programmi, indeterminatezza dei punti d’arrivo»: Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1963, p. 316. Questa sostanziale ambiguità della posizione dei cattolici troverà riflesso nel dibattito che in tema di salario sufficiente si avrà all’Assemblea Costituente; ma per una valutazione critica di posizioni emerse nel periodo immediatamente precedente v. sin d’ora Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 23 s.
[28] La legge della domanda e dell’offerta, spiegano gli Webb, si era già da tempo rivelata inadeguata per la determinazione di un minimo di condizioni igieniche nelle fabbriche, di misure antinfortunistiche, come pure della durata massima della giornata di lavoro (p. 551). Ma per arrivare a contestarla apertamente anche sul piano delle condizioni salariali bisognerà aspettare le prime grandi sollevazioni di operai non qualificati (e fino ad allora non organizzati). Quando poi la depressione economica dei primi anni ’90 metterà in pericolo i livelli salariali anche degli operai qualificati, organizzati nei sindacati tradizionali, il ripudio della dottrina della domanda e dell’offerta nelle trade unions diverrà definitivo (p. 555 s; cfr. anche Morton e Tate, op. cit., p. 193 ss.).
[29] Webb, op. cit., p. 710.
[30] Si ricordi l’esempio della Miners’ Federation, citato in nota 28, durante la depressione industriale del 1892-1893.
[31] Val la pena di notare come vi sia un nesso evidente fra il riconoscimento delle libertà sindacali e della legittimità di rivendicazioni salariali: in Inghilterra, ad esempio, allo Statute of Labourers del 1349 aveva fatto seguito, nello stesso secolo XIV, la considerazione della coalizione fra operai come delitto grave. La legittimità di essa, per contro, segue l’abolizione dell’ultima legge sui massimi salariali, avvenuta 11 anni prima: in proposito si v. Marx, Il capitale, cit., p. 802; Kahn-Freund, Labour and the law, Londra, Stevens & Sons, 1972, p. 170.
[32] Cfr. Pic, Traité élémentaire de legislation industrielle, Parigi, Rousseau, 1930, p. 648. Il primo Truck Act fu approvato in Inghilterra nel 1831: sulle ragioni dell’opposizione sindacale a tale forma di pagamento si v. Webb, op. cit., p. 316 s., Marx, op. ult. cit., libro it. 1°, p. 208. Sui Truck Acts cfr. da ultimo, da noi, Liebman, Contributo allo studio delle fonti di regolamentazione giuridica del rapporto di lavoro subordinato in Gran Bretagna, in «Riv. dir. lav.», 1979, I, p. 590.
[33] Le parole del deputato Aynard furono pronunciate durante la discussione che porterà all’approvazione dei decreti Millerand: la citazione è in Raynaud, op. cit., p. 69. Lo spettro del socialismo, del resto, sarà fatto balenare ovunque con estrema facilità dagli oppositori del salario minimo legale: opinioni analoghe a quelle del deputato Aynard sosterrà, ad esempio, l’ala estrema del partito conservatore durante il dibattito parlamentare precedente l’emanazione del Trade Boards Act. Sulla posizione assunta, da noi, da L. Barassi v. infra nel testo; per quanto riguarda, infine, il riaffiorare di simili concezioni durante il new deal roosveltiano si v. il paragrafo n. 4.
[34] Anche se, nella sua esagerazione, percepiva lucidamente che il salario minimo legale costituisce un fattore di turbativa degli spontanei equilibri di mercato di efficacia, potenzialmente, più intensa della stessa contrattazione collettiva: in condizioni di mercato del compratore, coniugate, come spesso succede, a debolezza sindacale, la contrattazione, di per sé, può non essere in grado di assicurare salari sufficienti e il salario minimo legale può reagire anche sui livelli da essa determinati.