Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c5

Lavinia D’Errico Storie di ordinaria vecchiaia

Notizie Autori
Lavinia D'Errico insegna nei corsi di specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità all’Università di Napoli Suor Orsola Benincas∂a. PhD in Scienze filosofiche, è ricercatrice presso il Robert Castel Centre for Governmentality and Disability Studies (CeRC) e presso il Consorzio Universitario per la Ricerca Socioeconomica e per l’Ambiente (CURSA). È componente dell’editorial board di «Minority Reports. Cultural Disability Studies».
Abstract
Da ogni porta aperta, al mio passaggio, si sollevano teste bianche e sguardi acquosi; molte carrozzine disposte in cerchio, nelle sale comuni, come un mesto girotondo. T. racconta di un sistema, a suo dire diffuso, di raccomandazioni per poter ottenere una stabilità lavorativa, il suo racconto è forse frutto di una modalità familiare di intendere e interpretare questo aspetto; comunque, nel sistema educativo familiare, il volere dei genitori sembra aver prevaricato il suo desiderio d’indipendenza. Alla morte dei suoi genitori, non avendo un lavoro, T. non ha possibilità di mantenere la casa. Nel frattempo aveva cominciato la frequentazione con un uomo, conosciuto perché faceva parte della rete parentale. Lui è un uomo in difficoltà, che aveva precedentemente tentato il suicidio per una donna. Quando viene ricoverato in ospedale per due mesi e curato per un disturbo bipolare, T. gli sta vicino. Intorno ai sessant’anni T. comincia ad avere crisi di panico. A sessantatré anni T. arriva nella struttura. Sono trascorsi 17 anni: «sapevo che era una struttura, ma non che fosse il mendicicomio, mi dicono: vedrai, è bello, ti troverai bene». A. è in pigiama, ha il viso largo, i capelli corti e candidi, lo sguardo dolce, appare serena. A dodici anni A. comincia a lavorare in campagna, zappa la terra. Il marito viene a mancare nel 2011 per un infarto sopraggiunto dopo un intervento chirurgico. M. ha ottantadue anni, è sulla carrozzina, tutta coperta. Vive qui con suo figlio, che di anni ne ha cinquantaquattro, da sette mesi. All’età di ventiquattro anni, M. conosce l’uomo che diventerà suo marito dopo due anni di fidanzamento. Qui la vita che raccontano scorre ogni giorno uguale: «prima mi facevano camminare, ora non più e sto così», dice M. alludendo al fatto che sta seduta in carrozzina.
Un edificio massiccio, situato al centro di una malandata cittadina di provincia, poco distante dal capoluogo, che conta all’incirca 50.000 abitanti. Fu, in origine, Mendicicomio [1]
.
Un pesante portone di ferro dischiude l’accesso a un largo porticato in cui le mura sono sovrastate da lastroni di marmo che si susseguono con impressi volti in bianco e nero di antichi benefattori e parole di ringraziamento per la loro liberalità. L’ampio cortile conduce a sinistra alla cucina, a destra a uno scalone dagli alti gradini che porta a un ingresso con varie sale: si transita dall’una all’altra; verso sinistra c’è l’ala dedicata alle donne, a destra ci sono gli uomini.
Lungo i corridoi dalle bianche mura disadorne tante porte chiuse, tante porte aperte. Da ogni porta aperta, al mio passaggio, si sollevano teste bianche e sguardi acquosi; molte carrozzine disposte in cerchio, nelle sale comuni, come un mesto girotondo.

1. Con un certo rancore interno (T.O., 1942)

Entro accompagnata dall’operatrice nella grande sala dal pavimento bianco, lucidissimo, dove le vecchie donne sono disposte in cerchio, in silenzio, e vado da lei, seduta in una poltrona [2]
. Le spiego chi sono e il {p. 112}motivo della mia venuta, accetta l’intervista e si dichiara contenta di parlare, finalmente dice, con una persona più giovane. Ci spostiamo dalla sala comune alla stanza di T. L’operatrice ci accompagna, lei la segue con una borsa di plastica, di quelle per la spesa, in cui ha le sue cose.
La camera da letto è grande, spoglia, una finestra guarda su un verde giardino. La giornata è piena di sole, aria tiepida e luce su letti, sbarre, tavolino.
T. ha un colorito verdognolo, i capelli bianchi, tagliati male, ravviati con un cerchietto; denti di sopra lunghi, guasti, neri. Di sotto non ne ha. Fronte, naso, zigomi puntellati di bianco. Alle dita ha tre anelli, uno di essi è una tartaruga d’argento. Veste con poverissimi panni, sulle spalle uno scialletto.
Si esprime con linguaggio forbito, preciso; occhi vivacissimi, nella gestualità mi ricorda certi personaggi femminili delle commedie di Eduardo.
Questa donna ha per me qualcosa di magnetico.
I.: «Ho settantanove anni».
R.: «Li porta benissimo».
I.: «Non dica bugie, come potrei portarli benissimo con quello che ho avuto?».
R.: «Cosa ha avuto?»
Lo sguardo della donna per un attimo sembra smarrirsi mentre riorganizza i ricordi delle sue sofferenze:
Due cancri. Il primo me lo hanno tolto che avevo cinquantadue anni e ancora le mestruazioni. Sotto l’utero. Mi operai a [omissis]. Dissi al dottore mi tolga tutto. Mi ero scocciata delle mestruazioni. Le avevo avute a dieci anni e mezzo. Non ero preparata. Un giorno vidi una macchia di sangue e gridando chiesi aiuto perché pensavo di stare morendo. Mia madre mi spiegò, mi diede dei panni e mi fece vedere come fare. Mio padre non disse niente. Da allora soffrii molto per il ciclo. Al momento dell’operazione mi sono sentita liberata; mi hanno tolto l’utero, le ovaie, i linfonodi. Ho una spaccatura da qua a qua, dice indicando dal pube allo sterno; e poi facevo periodicamente i controlli. Mi dissero che ero guarita, ma mentre per loro dovevo essere guarita mi tornò il cancro al rene. Ma il rene non me lo tolsero. Mi curai, guarii ancora e il medico mi disse non farai più RX, solo eco di controllo. Sono ingrassata. Anche se gli ormoni non me li volle prescrivere, ingrassai. Prendo comunque molti farmaci e, tra questi, 25 gocce di EN. Il medico mi disse: «sono certo che ce la farai a portarle a 16». E ce l’ho fatta. Mi serve per stare calma, ho crisi di panico. Anche adesso sento il panico, ma non perché parlo con lei.
La donna si interrompe e beve un sorso d’acqua.
R.: «Lei ha un bel nome, antico».
I.: «Non mi piace, è il nome di una nonna morta, non va bene portare i nomi dei morti. Io sono molto superstiziosa: infatti a me non è andata bene».{p. 113}
Ha uno sguardo fiero quando mi racconta le sue origini. Dal lato paterno uomini di mare, un nonno generale di corpo d’armata; il papà capocannoniere. Dal lato materno nobili natali, il nonno marchese. Lo dice sommessamente. Il ritratto di un suo antenato è esposto al Museo [omissis]. «L’ho anche visto», dice.
Figlia unica, accenna ai suoi giochi su una coperta, da bimba.
Mi mettevano sulla coperta a giocare, ho imparato a camminare tardi perché una che mi teneva, mi fece cadere dal tavolo. Ho imparato a camminare a un anno, in quel periodo vivevamo a [omissis] per il lavoro di mio padre: quanto lavoro, quanti sacrifici.
Nella mia prima infanzia i miei genitori sono ritornati a [omissis].
Abitavo nel quartiere [omissis], adesso lì ci hanno costruito l’autostrada. Mio padre ha sempre lavorato tanto per sfamarmi, c’era stata la guerra, non c’era più niente. Una volta, ero piccola, da un giorno all’altro da casa sparì un mobile bellissimo, d’ebano con intarsi d’avorio, proveniva dalla famiglia di mia mamma, e io chiesi dove fosse. Mi fu risposto che aveva i piedi rotti ed era stato portato via per paura che inciampassi. Secondo me se lo è venduto. Lavorava tanto, non si risparmiava. Però era un uomo capace di toglierselo da bocca per aiutare gli altri. Io gliel’ho visto fare: cedere una frittatina, un pezzo di pane a chi aveva più bisogno. Questo vedevo a casa mia. Capitava ad esempio con la sarta che mi cuciva i vestiti, le davano da mangiare poi lei non voleva essere pagata e mia madre si arrabbiava: «devi prenderti i soldi, il tuo è lavoro».
Mamma, anche lei generosa. Aveva 12 anni quando le fu caricato sulle spalle il peso della famiglia, dopo la morte di sua madre, mia nonna, per un cancro. Ha dovuto assistere sua madre moribonda, poi i fratelli e darsi da fare in una casa di cinque stanze...
T. prosegue raccontandomi che ha frequentato la scuola, ha conseguito il diploma di terza media; poi si è fermata «per lacune in matematica», ma si è fermata, dice, «con rassegnazione».
Negli anni Cinquanta-Sessanta ha svolto una serie di lavori saltuari: commessa alla Standa, alla UPIM nel settore del vestiario, aiuto-pasticciera in un laboratorio dolciario nel suo quartiere di provenienza, baby sitter. Negli anni del boom economico non ha raggiunto uno status di dipendente inquadrata a tempo indeterminato, «perché non avevamo conoscenze, funzionava così per ottenere il posto fisso».
T. racconta di un sistema, a suo dire diffuso, di raccomandazioni per poter ottenere una stabilità lavorativa, il suo racconto è forse frutto di una modalità familiare di intendere e interpretare questo aspetto; comunque, nel sistema educativo familiare, il volere dei genitori sembra aver prevaricato il suo desiderio d’indipendenza.
La sua vita sociale a quell’epoca è composta da poche amiche con cui, qualche volta, va a ballare.
Durante un’uscita con le amiche conosce un giovane inglese, suo primo amore. Con lui si vede qualche volta, sempre in compagnia; nel {p. 114}momento in cui questi decide di dichiararsi muore in un incidente. A casa, lei trattiene il segreto e non si confida neanche con la mamma, ma suo padre si accorge della sua tristezza nei giorni seguenti: «mio padre, per mandar via quella tristezza, mi offre la prima sigaretta».
Ci interrompiamo perché T. ha voglia di fumare:
R.: «Fuma molto?» Le chiedo, colpita da quelle sue dita gialle.
I.: «Dammi del tu. No, non fumo molto. Cinque al giorno. Così non fa male. Del resto, anche a mio nonno il medico non tolse le sigarette a ottantadue anni, ne fumava dodici. Che senso avrebbe avuto?».
Apre la sua busta, rovista, si ferma: «Meglio di no – dice –. Poi qua in camera non si può. Possiamo fumare fuori ai balconi, nelle stanze no».
Si siede, volge lo sguardo in lontananza, segue ricordi: «Mio padre è morto a ferragosto. Ferragosto è un giorno che odio. Dissi a mia madre “non esiste più niente da questo momento, non esisterà più nemmeno il mio compleanno”».
T., a questo punto, mi guarda intensamente e, senza alcuna domanda da parte mia, mi dice con durezza:
Mi dicono che puzzo, che non mi lavo. Non è vero. Io mi lavo. Il bidè tre volte al giorno, m’insapono tutta, mi sciacquo. Non ho più neanche un pelo. Se lo chiedono glielo dica che non puzzo, che mi lavo.
Guarda l’orologio, meno dieci alle 12: «Ora dobbiamo mangiare me ne devo andare». Si alza con uno scatto veloce, prende la busta, le sue cose, ma le torna la voglia di fumare: «Me la fumo. Adesso devo. Le do fastidio? Mi affaccio alla finestra». Ci affacciamo, a me la vista piace, e glielo dico.
A me no – commenta – a me i giardini non piacciono. Neanche quando stavo a [omissis]. A me piaceva guardare le navi: il paesaggio marino, il paesaggio di un porto. Quello è il mio paesaggio.
Ritorna il suo sguardo duro mentre mi sfiora un braccio: «Alcuni lontanissimi parenti hanno una scatola di latta, di quelle antiche, con le mie fotografie. Ho detto che quando sarò morta dovranno strapparle o bruciarle».
R.: «Perché?»
I.: «Perché sto qua dentro. Io qua dentro ci sto per povertà».
Guarda di nuovo l’orologio:
I.: «Torni, venga di nuovo a trovarmi. Venga di pomeriggio. E mi raccomando, se glielo chiedono, se parlate di me in direzione glielo dica che mi lavo».
Quando entro per salutare nella mensa piena, la suora di spalle dirige una preghiera [3]
.{p. 115}
Secondo incontro, è pomeriggio. Quando entro sono tutte lì, vecchie donne disposte in cerchio, è quasi buio. Pregano con la suora che intona il rosario.
Mi avvicino, T. mi riconosce, esclama il mio nome e salta in piedi con la sua borsa: «Vieni, vieni. Vediamo se possiamo metterci in camera mia», dandomi subito del tu. Alla risposta positiva di [omissis] – l’operatrice a cui si rivolge per chiedere il permesso di spostarci –, mi guida verso la stanza e superiamo un altro piccolo corridoio, un altro cerchio di donne in carrozzina, in poltrona, in silenzio.
La camera è senza televisione. Tre letti. Tre piccoli armadi. Uno di questi armadi ha delle cinture di accappatoio che si sovrappongono e disegnano una diagonale vicino alle maniglie a precluderne l’accesso perché non ci sono chiavi. Sopra agli armadi pacchi di pannoloni.
In uno dei letti, una donna d’età compresa tra i 50 e i 60 anni. Non è italiana, non parla e non comprende la lingua. La saluto, non risponde. Resta sul letto sdraiata tra le sbarre, lo sguardo triste, triste e perso, triste e vuoto. Resterà in questa stessa posizione per tutto il tempo in cui mi trattengo. A un certo punto [omissis] entrerà a vedere se va tutto bene e se lei è ancora lì: «Bisogna fare attenzione – dice l’operatrice – perché scappa».
I.: «Poi non sei più venuta».
R.: «La settimana scorsa mi hanno detto che non potevo perché c’erano casi COVID» [4]
.
I.: «Eh sì. Qualcuno, venuto da fuori lo ha portato».
R.: «Ma qualcuno degli ospiti nuovi o qualche visitatore?»
I.: «Lasciamo stare, meglio non parlarne».
R.: «Grazie per avermi concesso ancora del tempo».
I.: «Grazie a te. Ti aspettavo tanto però prima di continuare mi devi dire come esco da questa cosa che stai facendo? Cosa si capisce di me?»
R.: «Io non sono una psicologa. Ecco, mi trovo di certo di fronte a una donna intelligente, vivace, in lei c’è molta energia. Nonostante questa vivacità, mi sembra di capire, lei ha lasciato andare in qualche momento le redini della sua vita: il volere dei genitori, mi diceva l’altra volta, ha prevalso».
I.: «Esatto, è così».
R.: «C’è una frattura dentro...».
I.: «Una discrepanza».
T. suggerisce la parola da usare. «Discrepanza». E poi c’è questa voglia di annullarsi, a cui ho effettivamente ripensato mentre mettevo a posto i miei appunti.
{p. 116}
Note
[1] Nel testo, i dati personali e geografici sono stati interamente oscurati. Nella trascrizione degli stralci di intervista la sigla R. indica il ricercatore, mentre I. indica l’intervistato. Le espressioni dialettali degli intervistati sono state tradotte per non renderne direttamente rintracciabile l’area di provenienza. Le traiettorie esistenziali sono state ricostruite secondo le indicazioni metodologiche di Bourdieu [1993]. Cfr, anche, Bourdieu e Wacquant [1992]. Sullo stile d’analisi dell’etnografia sociale, cfr. Dal Lago e Giglioli [1983] e Dal Lago e De Biasi [2002]. Sulle forme di testualizzazione della ricerca qualitativa, cfr. Cardano [2020].
[2] Nella serie fotografica realizzata da Mario Giacomelli nella Casa di riposo di Senigallia, tra il 1955 e il 1983, si rinviene ancora l’immagine più prossima a questi luoghi tutti simili. Un estratto della serie è riprodotto in Giacomelli [2017].
[3] Molte scene richiamano le immagini manicomiali realizzate da Carla Cerati. Sul tema, cfr. Cerati [2023].
[4] Per una prima ricostruzione del trattamento delle persone anziane e con disabilità nelle strutture residenziali durante la pandemia da COVID-19, cfr. Tarantino e Bernardini [2022] e Gaino [2021].