Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c5
T. suggerisce la parola da usare. «Discrepanza». E poi c’è questa voglia di annullarsi, a cui ho effettivamente ripensato mentre mettevo a posto i miei appunti.
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R.: «L’altra volta mi diceva che vuole che chi ha le sue foto le bruci».
I.: «Sì, chissà che non lo abbiano già fatto. Come se non fossi mai esistita».
Alla morte dei suoi genitori, non avendo un lavoro, T. non ha possibilità di mantenere la casa. Nel frattempo aveva cominciato la frequentazione con un uomo, conosciuto perché faceva parte della rete parentale: «Una sua zia aveva sposato un fratellastro di mia madre che era ammiraglio».
Lui è un uomo in difficoltà, che aveva precedentemente tentato il suicidio per una donna. Quando viene ricoverato in ospedale per due mesi e curato per un disturbo bipolare, T. gli sta vicino: «Dietro la nostra frequentazione si riprende, ma minaccia di farsi del male se lo lascio».
Questo ricatto emotivo la spaventa. Lei segue il suo percorso in ospedale, l’uomo le si affida completamente, i medici parlavano con lei, le spiegavano come doveva assumere i farmaci:
Mi raccomandarono una sola cosa, di parlargli sempre con calma e a bassa voce, evitare tensioni, concludere la giornata in maniera rilassata.
A un certo punto, lui comincia a desiderare di ricongiungersi con i suoi familiari, un fratello e una sorella, che vivono in un’altra regione. Lei decide di seguirlo:
Allora me ne vado via con lui.
Me ne vado perché i miei genitori sono morti. Prima mio padre. Se n’è andato con il carro comunale. Dopo una vita di lavoro. Lì per lì non ci pensai, poi con gli anni ci ho riflettuto. Il carro comunale...
Restai con mamma, dovevo prendermi cura di lei e l’ho fatto, la lavavo, la facevo mangiare quando a un certo punto si allettò. Le facevo tutto. Eppure, qualche volta si è lamentata di me con la sua amica che veniva a trovarla. Io me ne andavo di là per discrezione, le sentivo parlare, sentivo che l’amica le diceva: «Non voglio neanche sentire. L’avessi avuta io una figlia come lei». Alla morte di mia mamma, ho circa trent’anni e resto senza niente. Niente. Non so che fine abbiano fatto le cose. Non avevamo molto. Avevamo un tagliacarte prezioso che avevano regalato a mio padre, tutto intarsiato. Quando divenne arteriosclerotico, mia madre lo avvolse in uno straccio e lo gettò. Aveva paura che potesse fare qualcosa di imprevedibile. Non è stato possibile per me avere la pensione di reversibilità di mio padre.
Non mi restava che andar via con lui. Non avevo più niente, non avevo più nessuno.
T. si prende cura del suo compagno, con il quale, dice, non si è mai voluta sposare: «Mi sarei dovuta sposare con rito civile e non mi andava, non me la sentivo, o chiesa o niente». Conducono una vita matrimoniale pur non dormendo insieme, dice: «Dormiamo in due letti separati. Instauriamo una convivenza fraterna. Lui non mi tocca. O poco. Per ragioni di salute».{p. 117}
Ancora una volta, mentre si sta parlando d’altro, senza alcun tipo di sollecitazione da parte mia, l’intervistata esprime delle considerazioni sul luogo in cui si trova. È evidente la sua volontà di fornire delle informazioni, di cercare una sponda per il suo disagio:
Qui dentro c’è odio. Io non parlo con nessuna. Scambio poche parole. C’è odio. Rubano. A messa tutto un vociare, gliel’ho detto al prete: «Io non ci vengo più». Non ha senso una messa in queste condizioni. Uno di loro [un ospite] mi ha detto «ti faccio sanguinare dalla bocca», lo ha ripetuto più volte. Anche altre schifezze, certe schifezze, molte altre schifezze irripetibili. Poi sempre storie, storie contro di me che sono diventata bersaglio, mi dicono che puzzo, che non mi lavo ma non è vero. Se non faccio volentieri la doccia è perché ho paura di scivolare; prendo dei farmaci oleosi, per questo mi capita di fare una scoreggia, scusa se ti parlo con schiettezza.
Mi dicono che non mi lavo, sono stata sgridata per questo davanti ad altre persone, ed è stato davvero molto, molto brutto. Io qui non ci sto più bene, vorrei andare via.
Dopo questa esternazione, il tono diventa dolente:
Non sono mai più tornata a [omissis]. Non vedrò mai più [omissis], il mio quartiere. Ma ormai, le persone amiche sono tutte morte. Quello che mi dispiace però è che non sarò sepolta accanto ai miei genitori, nella Cappella [omissis] insieme a loro.
Il successivo incontro, il terzo, lo svolgo di mattina.
Mentre salgo le scale sento nitidamente una donna piangere, singhiozzare e qualcuno cercare di tranquillizzarla. Al mio ingresso, però, non c’è nessuno nella sala d’accesso e il pianto pian piano si spegne.
Nel corridoio un paio di donne sono già sistemate sulla sedia, una di loro mi colpisce per l’acconciatura particolarmente curata; l’operatrice mi accompagna da T., mi dice che T. sta bene quando mi vede, che è contenta, ma il fatto che ieri mi sia dedicata solo a lei ha scatenato qualche gelosia. La rassicuro, oggi vedrò certamente anche un’altra persona.
Appena entriamo in stanza, T. afferma: «Questa donna qui [indirizzando lo sguardo alla compagna di stanza], la sua presenza mi infastidisce». Cerco un modo per alleggerire la tensione che vedo ispessirsi nel suo sguardo e sulle sue labbra, allora le chiedo se ama leggere.
Si, ho sempre letto molto. Adesso non più perché non ci vedo bene. Ho letto i classici. Hugo, I miserabili; Manzoni. D’Annunzio non mi piaceva, proprio non mi piaceva lui, le sue idee. Invece adoravo Italo Calvino, Il barone rampante. Quella vita tra gli alberi, quell’idea di libertà.
Il ricordo di queste letture amate le strappa un sorriso, e ci riporta con calma alla nostra conversazione. T. mi racconta di un periodo di vita, {p. 118}dopo il trasferimento con il suo compagno, molto quieto: «La nostra vita è tranquilla, stiamo bene, siamo sereni». T. gestisce la pensione d’invalidità del compagno, prima mette via i soldi delle spese, poi, con quello che resta, vivono: «vivevamo discretamente». La passeggiata, il gelato, di sera la televisione. I parenti di lui stanno sempre vicini alla coppia e rappresentano un punto di riferimento:
Hanno sbagliato soltanto quando è morta la sorella, glielo hanno detto subito: era mezzanotte. Il professore lo aveva detto che la sera doveva stare rilassato, che dovevano calare le tensioni di sera, bisognava parlare a voce bassa... Invece glielo hanno detto e lui ha avuto una brutta crisi.
Quel momento segna un punto di non ritorno, la situazione dell’uomo peggiora, i medicinali non fanno più effetto. Dopo qualche anno anche l’uomo muore.
T. resta a vivere in quella città, in quella casa, ancora per un paio d’anni. I parenti del compagno la aiutano, un proprio cugino la aiuta, le danno dei soldi mensilmente: «Io accetto con contegno, non prendo mai più del dovuto. Nel frattempo muore anche mia cognata, moglie del fratello del mio compagno».
Intorno ai sessant’anni T. comincia ad avere crisi di panico. «Quando mi ammalo nessuno della famiglia mi accudisce. Nessuno si prende cura di me». Il medico le prescrive dei farmaci: «25 gocce di EN, poi mi dice di aver fiducia nel fatto che, da sola, sarei riuscita pian piano a portarle a 16, e così è stato». T. ribadisce la circostanza con orgoglio. Ma comincia ad avvertire la solitudine, ha paura: «Non posso, non voglio più stare sola. Decido di trovare un’altra sistemazione».
T. vuole un altro posto in cui stare, vuole avvicinarsi ad alcuni suoi parenti che vivono in un paese vicino alla sua città d’origine:
Faccio questa scelta per mancanza di soldi, per vecchiaia, per solitudine. Non mi sono confrontata con nessuno, non c’è stato un gruppo familiare coeso. Del resto, mio cognato si è risposato nel frattempo con una giovane, certo in casa non vogliono me.
Degli oggetti della casa in cui ha vissuto con il suo compagno nulla è rimasto:
Sono venuta qui senza niente; per quanto riguarda la mia famiglia d’origine, ora è rimasto un cugino che ha novantuno anni. Non lo vedo più. Nessuno si è preso cura di me. Questo lo dico con un certo rancore interno.
Per la sistemazione di T. interviene un cugino di secondo grado di sua madre, che conosce un sacerdote e le indica il posto in cui attualmente vive:{p. 119}
Mi dicono che ci starò bene. Io decido poi di confidarmi con una cugina. Le parlo della mia situazione. Ecco, lì mi sarei aspettata... Anche lei viveva sola. Lei non mi propone di accogliermi e stare insieme. Dentro di me, mi aspettavo forse di poter andare a stare con lei. In quella conversazione lei fu molto brusca. Poi si scusò. Mia cugina era stata un’insegnante, una persona dura di carattere, molto rigida con tutti, tranne che con i bambini della scuola. Si scusò e me lo disse: «ho un brutto carattere e questo sicuramente è uno sbaglio nei confronti degli altri».
A sessantatré anni T. arriva nella struttura. Sono trascorsi 17 anni: «sapevo che era una struttura, ma non che fosse il mendicicomio, mi dicono: vedrai, è bello, ti troverai bene».
All’ingresso, ricorda di essere stata molto ben accolta. C’erano delle brave suore, ricorda di essere stata a lungo serena perché era, finalmente, in compagnia. Fu sistemata in una camera singola:
Per cinque anni ho avuto una camera privata, poi mi hanno spostata in questa. Nessuno mi spiegò le ragioni. Nessuno mi disse nulla; qualcuno, non ricordo se fu mio cugino, mi disse: «meno sai meglio stai».
Qui non sto più bene ora. All’inizio sì, qualche volta uscivo anche per una passeggiata. Anche con la macchina sono uscita, per andare a fare la pratica della pensione. Ora è da tanto che non esco. Se esco di qua con i piedi, non ci torno più.
Qui T. non ha possibilità di scegliere le compagne di stanza, ne ha cambiate tante, tante sono morte; le sue giornate si susseguono tutte uguali, poche parole scambiate con gli operatori o con qualcuna tra le altre compagne con cui il grado di confidenza è altalenante; tuttavia, T., che ha un’ottima capacità di elaborare il carattere di chi la circonda, sceglie di volta in volta se cercare o meno un dialogo.
Mi colpisce, ancora una volta, l’improvvisa interruzione del racconto per far filtrare qualche informazione sullo stile dell’istituzione. Lo fa consapevolmente. Trattiene delle cose e altre le rende esplicite, definitive:
Qui mi odiano tutti. Non mi danno ascolto. Io con quella in camera non ci voglio stare: oggi ha fatto una pipì lunga a terra. Non ci voglio stare, ma non mi ascoltano. [omissis] non mi rivolge nemmeno lo sguardo; non mi chiamano mai per nome. Un’altra, poi, un’inserviente che viene di pomeriggio, mi si rivolge dicendo: «vieni qua, togliti da là ». Con dei modi...
Quelle che stanno allettate, non ti dico come le muove. Sbattute di qua e di là.
La sera alle 7 dobbiamo stare nelle stanze. Finiamo di mangiare alle 6 e mezza; entro in stanza, prendo le medicine, faccio passare un’oretta sennò vado a letto col peso sullo stomaco. Io me ne vorrei andare via da qui. Ma tu conosci una struttura che con 500 euro al mese possa prendermi? Io non saprei dove andare. Secondo te, tra una come me che paga 500 euro e una che può pagarne 1.000 a chi la danno una stanza migliore? {p. 120}
Definitiva la sua parola sulla non volontà di continuare a vivere in questo luogo [5]
:
Per quanto tempo ancora posso reggere così? Io me ne voglio andare, qui non sto più bene e quando sarò in un altro posto, come prima cosa mi faccio fare una lobotomia, così dimentico tutti gli anni che ho passato qui dentro.

2. Le uova nel grembiule (A., 1936)

Alzava lo sguardo timidamente, le volte scorse, al mio passaggio. Mi hanno detto che le farebbe piacere parlare con me. Nella sua stanza c’è un’altra ospite, in carrozzina, di spalle, alla finestra, che guarda fuori. A. la guarda e con lo sguardo lascia intendere che non si sente a suo agio, così l’operatrice ci accompagna in un salotto luminoso, arredato con bei mobili antichi. Su uno di essi, due madonne, pallido volto di porcellana. Mi accomodo, mi presento, le spiego. Mostra di comprendere il mio ruolo e quello che le rappresento: «Vedete, le gambe non funzionano [è in carrozzina] ma la testa sì. Poi magari glielo dite pure a loro [riferendosi al personale]», anche lei si raccomanda.
A. è in pigiama, ha il viso largo, i capelli corti e candidi, lo sguardo dolce, appare serena.
Proviene da un paese poco distante, «figlia di genitori bravissimi», racconta; il papà lavorava la terra, la mamma è sempre stata in casa. Oltre a lei, un figlio maschio e una femmina, nata quando A. ha dieci anni.
Mentre racconta prende la busta di stoffa appesa al bracciolo della carrozzina e da questa estrae un’elegante borsetta di pelle nera, uno scatto della clip dorata: «Guardate», dice. Mi porge una fototessera in bianco e nero che ritrae una bella donna, robusta, occhi seri: «Sono io». Osservo bene il suo viso da giovane, ne ha mantenuto i tratti. La lunghezza media dei capelli scuri, l’acconciatura con le punte rivolte all’insù, mi riporta all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso; avvenente come un’attrice, A. ha l’orgoglio dell’antica bellezza e del duro lavoro che ha accompagnato la sua vita.
A scuola non ci andavo volentieri, i genitori mi iscrissero ma io preferivo andare a giocare con una mia amica; così, la maestra disse a mia mamma: «Che cosa la fai venire a fare a scuola? Lei preferisce andare con la sua amica a giocare nei sentieri di montagna». Mi chiamavano la montanara. Per questa ragione a scuola non ci sono più andata.
{p. 121}
Note
[5] Sui temi legati al collocamento involontario, cfr. le relazioni al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale [2017; 2018; 2019; 2020; 2021; 2022; 2023] e Tarantino [2023].