Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c5
A scuola non ci andavo volentieri, i genitori mi iscrissero ma io preferivo andare a giocare con una mia amica; così, la maestra disse a mia mamma: «Che cosa la fai venire a fare a scuola? Lei preferisce andare con la sua amica a giocare nei sentieri di montagna». Mi chiamavano la montanara. Per questa ragione a scuola non ci sono più andata.
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Veniva dalle parti nostre un professore che insegnava nelle case per fare punteggio. Studiavo con lui, lui mi ha insegnato a fare la firma e i numeri. Le lettere dell’alfabeto però mi si confondevano. Quando mi sono sposata nessuno sapeva che non sapevo né leggere né scrivere; i conti invece, quelli li so fare: facevo più in fretta io con il cervello che gli altri con la penna.
A dodici anni A. comincia a lavorare in campagna, zappa la terra. Ama molto il lavoro, i soldi che guadagna servivano per le esigenze di casa, i denari non bastavano, c’erano difficoltà economiche: «io ero molto comprensiva sulla situazione dei miei genitori e mi accontentavo, non facevo richieste. Mia sorella invece era molto diversa».
A 17 anni si innamora. Il primo amore «l’ho amato tanto, tanto. Devo dirlo, io non ho amato mio marito quanto ho amato lui». Ne chiedo il nome con curiosità, A. esita poi tace e mi intenerisce questo suo non volerne rivelare il nome, questo suo segreto.
Dovete immaginare che quando mio marito è morto, lui si è fatto avanti un’altra volta. «Vattene», gli ho detto. «Ora sei libera», ha risposto. «Vattene», gli ho ripetuto.
Lui era stato una grande delusione per me. Il nostro fu un fidanzamento lungo e romantico, allora non era come adesso. Durò otto anni, poi improvvisamente venni a sapere che lui aveva un’altra, che era una sua cugina, e che stavano per sposarsi. Nell’ottobre ebbi due dolori: lui si sposò e dopo qualche giorno morì mio padre.
Aveva venticinque anni, e la sua vita andò avanti. A sua sorella diceva: «Voglio andare a prendere le uova nel grembiule [mima il gesto di sollevare i lembi inferiori di un grembiule, a mo’ di cestino, per contenere le uova prese dal pollaio]». Un modo di dire contadino, per indicare che il suo sogno era quello di sposare un uomo di campagna.
Dopo qualche anno conobbe L., anche lui lavorava la terra.
L. era «una bravissima persona» e A. racconta che il bene per lui è maturato piano piano, ma sua mamma volle che si sposassero subito. Dopo un anno erano già marito e moglie.
Lui dichiarava 32 anni, quindi cinque più di me. Quando andammo a dare parola, invece, lui disse la sua vera età, mi feci il conto: aveva nove anni più di me. Quella bugia mi fece restare un po’ male.
Si sposarono, dopo un po’ una gravidanza, ma alla gioia del concepimento seguì il dolore dell’aborto; poi, in seguito a un tumore all’utero, fu sottoposta a un intervento di isterectomia:
Mi fecero lo strappamento e figli non ne sono più potuti venire.
Io volevo adottare un bambino, lo proposi a mio marito che si dimostrò d’accordo. Andammo a [omissis] dal giudice e ci propose una ragazza di 15-16 {p. 122}anni; mio marito a quel punto disse no. Del resto anche per me, un conto era crescermi un bambino piccolo, ma con una già grande... Le cose restarono così. Io però non sono mai stata gelosa della maternità di altre donne, questo no.
La vita per i coniugi era dura: sveglia alle tre, prima usciva il marito mentre lei organizzava la casa e il pranzo, poi lo raggiungeva in campagna:
A mezzogiorno tornavamo a casa, pranzavamo, lui andava a riposare e io riordinavo, alle 15 uscivamo un’altra volta, preparavamo la carretta e andavamo al mercato dove vendevamo le cose che coltivavamo. La sera, poi cenavamo presto e andavamo a dormire. Questa è stata la nostra vita, del resto, lo avevo detto a mia sorella che quella era la vita che volevo. E infatti mia sorella fa la signora e io sono rimasta cafona. Mio marito mi ha sempre rispettata e mi ha lasciato anche comandare, gestire il denaro.
Quando ero giovane sposa per sei anni ho abitato in una casa a pigione nei pressi di quella di mia suocera, poi ce la siamo comprata. Io avevo una suocera non troppo brava, al contrario di mia mamma che era bravissima. Mio marito, rispetto ai suoi parenti che conosceva bene, mi diceva: «Non rivelare le nostre cose, a loro farebbe piacere se fallissimo». Figuratevi che mia suocera e mia cognata andavano a guardare nella spazzatura per capire cosa mangiavamo. Quando ero entrata in famiglia, vedendomi robusta, mia suocera disse: «Ingrasserà ancora e si sformerà». Mio marito però mi proteggeva da queste cose. Una volta non mi sentivo bene e non lo accompagnai in campagna. Nonostante questo andai a casa della suocera, feci mangiare la giumenta. Poi entrai in casa sua e mi sedetti un momento; mia cognata, che era andata ad aiutare mio marito, tornò dalla campagna con la bicicletta, e mia suocera commentò acidamente il mio malessere e il fatto che sua figlia fosse andata a lavorare al mio posto. Fortunatamente un mio cognato, finanziere, prese le mie parti.
Aveva dei tratti un po’ egoistici mio marito. Da mia mamma, che pure abitava vicino, potevo andare solo una volta a settimana perché le giornate erano piene di lavoro. Mia mamma era comprensiva, ma a volte io avrei avuto bisogno di vederla e ancora oggi porto il rimpianto e lo scrupolo di non aver fatto tanto per lei, di aver fatto per lei meno di quanto ho invece fatto per mia suocera. Mio marito diceva: «Quando morirò ti agghinderai e uscirai ogni volta che lo desideri». Ma io non sono mai andata in giro, dopo la sua morte; non sono più uscita dalla vedovanza.
Mia madre mi mandava qualche ambasciata attraverso dei vicini che percorrevano la mia strada; una volta gli dissi: «ho fatto un brutto sogno», «ho capito – rispose – vuoi andare da tua mamma» e mi accompagnò. La domenica però, sempre, dopo la messa, mi accompagnava da mia mamma in motoretta.
La nostra vita era questa, il lavoro. I conti li sapevo fare: quando l’ho conosciuto non aveva niente, nemmeno la zappa. Io ho messo da parte e abbiamo acquistato due trattori, l’automezzo, la zappatrice. Una vicina disse a mia suocera: «la montanara ha reso uomo tuo figlio». Non pensavamo a vacanze, ristoranti. Il compleanno, per esempio. Al compleanno a me piace ricevere un regalo. La sua famiglia comprava i dolci, la torta per la festa in casa. Ma io volevo il regalo, che me ne dovevo fare della torta? I dolci li sapevo fare e me li facevo io.
Ci siamo messi i denti [l’informazione indica il denaro speso per cose non frivole]. Lui li sopportava benissimo, io no. Non me li riesco a tenere, mi fa male {p. 123}lo stomaco. Poi qualche passeggiata a [indica località di turismo religioso], ma niente di più. A Natale, a Pasqua ognuno preparava una cosa e mangiavamo con la famiglia, con i nipoti.
Dalla parte di L. abbiamo tre nipoti, figli di suo fratello: un geologo, un’insegnante e un ragioniere; dalla parte mia, due nipoti commercianti e una che lavora a [omissis], che sono i figli di mia sorella.
Con i nipoti siamo stati molto legati. Con una in particolare che si chiama A., nipote dalla parte di L. Lei è legatissima a me e io a lei; da ragazzina si confidava con me, la coprivo quando cominciava a uscire col fidanzatino.
In verità era con A. che io volevo stare.
Il marito viene a mancare nel 2011 per un infarto sopraggiunto dopo un intervento chirurgico. Alla sua morte «mi mancarono le gambe», tuttavia, sorretta dall’affetto della famiglia, A. resta a vivere in casa, sola, per tre anni: «per farmi forza pensavo che L. sarebbe rientrato». Un giorno, quando ha 75 anni, per il troppo calore emanato da una stufa, A. ha un serio malore; viene curata ma il medico, che era anche parente, ritiene che sia opportuno avere una compagnia in casa. Le viene presentata una giovane di nazionalità albanese e A. si affeziona immediatamente a lei, instaurando un rapporto di tenerezza materna. La ragazza si occupava della casa e A. comincia a stare sempre più spesso seduta, perché si affatica. I nipoti andavano a trovarla, il loro affetto non era mutato, la invitavano a trascorrere con loro i momenti di festa e i momenti in cui erano più liberi dai loro impegni. La vita con la ragazza andava bene e così è durata per sei anni: anche se a un certo punto A. si accorge di una tendenza della giovane a rubare chiude un occhio, anzi, le offre sempre l’opportunità di inviare alimenti o quanto possa servire alla sua famiglia d’origine. La loro quotidianità era fatta di brevi uscite per commissioni, realizzazione di ricette di cucina, preparazione di dolci; dopo sei anni la ragazza volle ritornare in paese per il parto di una parente e non tornò mai più.
Questo produsse una destabilizzazione e la perdita di un punto di riferimento; le fu poi difficile accettare le persone che successivamente le vennero presentate dalla sua rete di conoscenze. Non ritenendole compagnie adeguate per via di atteggiamenti scorretti, per incompatibilità, queste persone vennero di volta in volta allontanate.
Nel frattempo si trovò anche in difficoltà economica: «molti soldi se li erano mangiati le badanti», una parte del suo denaro era vincolato e fu costretta a chiederne in prestito, tutti furono solidali con lei, ma A. soffrì molto, giacché in vita sua non era mai stata costretta a chiedere.
Un nipote prospetta come soluzione ai vari disagi e all’inopportunità di restare sola quella di trasferirsi in una residenza; «mi disse che la casa l’avrei mantenuta, così se non mi fossi trovata bene, avrei potuto fare ritorno». Lei avrebbe privilegiato come soluzione quella di intestare ogni cosa alla prediletta A. e vivere con lei, tuttavia accetta il trasferimento in residenza. {p. 124}
Ben accolta, sceglie di stare in una stanza con un’altra persona, per avere maggiore compagnia, pur avendo la possibilità di pagare per una singola. La sua quotidianità ora è sempre da seduta, «non faccio mai la fisioterapia per muovere un po’ le gambe», le giornate trascorrono senza niente da fare: «vorrei uscire un poco»; la comunicazione con la compagna di stanza è inesistente, giacché la persona ha problemi di udito che rendono difficile il dialogo; pranzano e cenano insieme in stanza, perché A. non ama ritrovarsi con altre persone in sala mensa: «non mi piace la confusione».
Oggi A. vorrebbe la possibilità di tornare a casa. Quando le chiedo perché non ne parla in famiglia, domanda: «adesso che cosa devo rispondere?». A. non vuole scatenare conflitti in famiglia, ma continua docilmente a sperare:
Vorrei morire a casa mia, nel mio letto. Se mi dessero la pensione di accompagnamento ce la farei a tornare, potrei riprovare con una badante. Senza l’accompagnamento non ce la faccio.

3. Ma mi sembra più un manicomio (A.N. 1959 e M.N. 1965)

A. è un uomo dal volto ancora giovane, ordinato nell’aspetto, sbarbato di fresco e profumatissimo, un fazzoletto gli copre la gola. Mi presenta sua moglie, una donna piccola, sorridente e minuta.
Un fiume in piena, A. si lancia subito nel racconto: «Con la mia storia si può scrivere un romanzo», ma ho talvolta difficoltà a comprendere le sue parole. Gli esiti di un intervento chirurgico hanno modificato la fonazione.
Più volte interrompo e ripeto per essere certa di seguire bene il discorso.
Il racconto parte dal problema di salute che ha stravolto la sua vita quando aveva 41 anni. A causa di un tumore alla laringe viene tracheostomizzato. «Mi volevo suicidare perché mi prendevano tutti in giro. Poi ho capito che l’importante è essere vivi». Mi mostra la postepay: «Ora per questo fatto mi danno 320 euro al mese».
R.: «Adesso lei sta bene, ma esegue i controlli medici?»
I.: «Sì, sì. Da un otorino».
Accanto a lui, M., che ha difficoltà cognitive, appare attenta a quanto dice il marito.
Il marito mi racconta che è stata venduta da sua madre insieme a sua sorella gemella, una sorella che non ha mai conosciuto, e lei conferma: «sì gemella, sì venduta». Attualmente, della sua famiglia adottiva, di cui è stata unica figlia, non c’è più nessuno.{p. 125}
Lui vorrebbe raccontare anche per lei, ma devo interromperlo e, per lasciarle prendere la parola [6]
, le parlo in dialetto.
M. ha frequentato la scuola fino alla quinta elementare, i genitori non hanno voluto poi che proseguisse. La chiudevano dentro, dice A., «il vecchio, il padre adottivo, approfittava di lei, a 14 anni la cominciò a violentare». La donna conferma: «sì, me lo faceva».
Una storia difficile, di segregazione e violenza da cui M. è indubitabilmente segnata. La mamma sapeva degli abusi sessuali e non la difendeva, del fatto vennero a conoscenza anche altre persone, ma nessuno la aiutò.
A. la conosce quando lei ha 17 anni e lui 24, in capo a pochi mesi si sposano: «volevo salvare l’anima innocente».
A. proviene da una famiglia numerosa, ci sono 13 figli da sfamare di cui oggi ne restano solo 4 viventi, 2 femmine e due maschi. Mi mostra la foto di un fratello, morto lo scorso anno per un attacco di cuore.
Suo padre era un commerciante di ortofrutta: vendeva da ambulante, caricando il somaro. Da bambino va a scuola, ma anche lui interrompe gli studi alla quinta elementare.
R.: «Perché?»
I.: «Perché sono caduto da una scala di legno e ho battuto la testa, mi hanno ricoverato in un ospedale».
R.: «Per quanto tempo?»
I.: «Per un mese».
R.: «E quando si è ristabilito non ha proseguito?»
I.: «Ci andavo, ma non capivo più niente».
R.: «E la maestra non si dedicava con pazienza a rispiegare le cose?»
I.: «Non capivo niente. Le scuole elementari poi le ho finite serali, a quindici anni».
Racconta anche lui di violenze e abusi subìti in famiglia:
Quando ero piccolo me ne sono andato a lavorare in segheria. Mio fratello mi picchiava, mio padre beveva e mi picchiava, mi cacciava fuori. Io in segheria costruivo sgabelli per far passare il tempo. Con la storia mia si può scrivere un romanzo. Adesso l’importante è che abbiamo un tetto sulla testa.
Al secondo incontro trovo la coppia giù, nel cortile, ad aspettarmi. Già dalle scale A. è ansioso di riprendere il discorso, desideroso di sfogarsi:
I miei fratelli non vengono mai a trovarmi. Prima di stare qui nessuno di loro mi prendeva, solo un fratello mi voleva, disse: «Mi dai quello che guadagni e stai qua», ma la moglie non mi volle. Quando non possiedi nulla, nessuno ti pensa e ti schiacciano. Mi rifugiavo nei casolari delle campagne di [omissis], ma erano sporchi, c’erano animali, topi, una volta sono stato pure morso qui [indica
{p. 126}il collo]. Per la strada c’erano litigi e aggressioni, mi difendevo; anche alla stazione mi picchiarono e io me ne fuggii.
Note
[6] Sulla presa di parola, cfr. «Minority Reports. Cultural Disability Studies» [2015].