Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c10

Emilio Santoro Riannodare i fili: libertà, dignità e autonomia

Notizie Autori
Emilio Santoro insegna Filosofia del diritto e Difesa dei diritti attraverso il diritto presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Firenze. Ha fondato e dirige L’altro diritto - Centro interuniversitario di ricerca su carcere, devianza, marginalità e governo delle migrazioni e la rivista «L’altro diritto».
Abstract
La scelta personalistica ha rappresentato una rottura che solo ora e lentamente sta mostrando il suo impatto su approcci consolidati ai problemi sociali e che la configurazione dello status delle persone con disabilità e dei loro diritti rappresenta un problema di frontiera nella nuova configurazione del welfare. La loro concezione mette in luce il confine tra vecchio modello liberale e il nuovo modello personalistico. Il punto di partenza, in quanto rappresentativo della concezione antropologica liberale classica, è certamente la disposizione costituzionale sull’«inabilità». Nello Stato moderno, per rendere «governabili» gli individui, si sviluppano due diversi tipi di discorso «oggettivante» i soggetti: da una parte il discorso che forgia il modello antropologico dell’individuo capace di perseguire i propri interessi razionalmente, programmando autonomamente la propria vita; dall’altra quello che dà vita al modello antropologico dell’individuo incapace di far fronte da solo a problemi come la salute, l’igiene, la sessualità, l’educazione, la sofferenza e la morte. L’eccessiva valorizzazione di un concetto etero-definito di dignità, l’adozione di un’impostazione rigorosamente kantiana, che fa divieto anche al singolo individuo di abdicare la dignità che è in lui, crea una tensione con il principio di libertà. Oggi la concezione liberale dell’individuo e quella kantiana del binomio dignità-autonomia, con la normatività che presuppongono, appaiono ancora molto forti ma sempre più insoddisfacenti e in via di superamento, senza però che emerga un chiaro paradigma che le sostituisca. Il piano di vita si configuri, una volta elaborato, non come una camicia di forza che ingabbia la persona, ma come uno strumento in continua evoluzione, continuamente modificabile a seconda del variare delle condizioni sociali e personali del soggetto la cui vita traccia.
Gli esseri umani non sono come le pecore: e persino le pecore non sono tutte identiche. Un uomo non può comprarsi un cappotto o delle scarpe che gli vadano bene se non gli vengono fatti su misura o non ha a sua disposizione un intero magazzino per sceglierli; è forse più facile trovargli una vita che un cappotto su misura, oppure gli uomini sono più simili nella loro intera conformazione fisica e spirituale che nella forma dei loro piedi? [...] Gli uomini sono così diversi nei loro motivi di gioia, nelle sensibilità al dolore, nel modo e nei mezzi, fisici e morali, in cui li esplicano, che se non esiste una corrispondente diversità nei loro modi di vivere non ottengono la felicità che spetta loro né sviluppano la statura intellettuale, morale e estetica di cui la loro natura è capace.
[Mill 1859; trad. it. 1981, 98]
Le considerazioni che seguono muovono dall’idea che il dibattito sui diritti delle persone con disabilità sia un caso specifico del problema dell’individuo e della sua libertà. Ritengo quindi euristicamente interessante collocare lo sviluppo di questo dibattito all’interno di quella precisa teoria politica, o meglio costellazione di teorie, che ha configurato il problema così come oggi si pone: il liberalismo con la sua antropologia, il suo modello normativo di soggetto. In particolare, mi soffermerò su continuità e rottura che ha rappresentato rispetto a questo modello la concezione personalistica scelta dal nostro costituente. La tesi che sosterrò è che la scelta personalistica ha rappresentato una rottura che solo ora e lentamente sta mostrando il suo impatto su approcci consolidati ai problemi sociali e che la configurazione dello status delle persone con disabilità e dei loro diritti rappresenta un problema di frontiera nella nuova configurazione del welfare. La loro concezione mette in luce il confine tra il vecchio modello liberale e il nuovo modello personalistico. Per questo motivo credo euristicamente utile inquadrare la loro definizione nella discussione {p. 240}su temi centrali della teoria liberale degli ultimi tre secoli: autonomia, dignità e libertà.

1. L’inabile al lavoro: l’individuo liberale e il welfare compensativo

Il punto di partenza, in quanto rappresentativo della concezione antropologica liberale classica, è certamente la disposizione costituzionale sull’«inabilità», l’articolo 38, che, nei suoi primi tre commi recita:
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.
Per vedere le implicazioni di questa previsione propongo di leggere questi commi alla luce della definizione di libertà data da Thomas Hobbes. Scrive Hobbes [1654; trad. it. 1969, 123-124]:
la libertà è l’assenza di tutti gli impedimenti all’azione, che non siano contenuti nella natura e nella qualità intrinseca dell’agente. Così, ad esempio, si dice che l’acqua discende liberamente, o che ha la libertà di scendere per il letto del fiume, poiché non c’è impedimento lungo quella direzione, ma non di traverso, poiché gli argini sono impedimenti. E benché l’acqua non possa risalire, pure non si dice mai che le manchi la libertà di salire, bensì la facoltà o potere, poiché l’impedimento è nella natura dell’acqua, e intrinseco.
Da questa definizione, deriva che individuare cosa deve essere considerato limitazione della libertà dipende da quella che, con ambiguo linguaggio aristotelico, Hobbes definisce come «la natura e la qualità intrinseca» del soggetto agente [1]
. Il paragone con il fiume porta a considerare come limiti della libertà di azione solo i vincoli non dipendenti da «la natura e la qualità intrinseca» dell’attore. Nel dibattito che si sviluppò negli anni Sessanta del secolo scorso, a partire dal celeberrimo saggio di Isaiah Berlin Two Concepts of Liberty, si è identificata la «libertà negativa» con quella corrispondente alla definizione di Hobbes, di conseguenza si è ritenuto che essa potesse essere limitata solo da vincoli esterni alla natura {p. 241}del soggetto, mentre i vincoli interni, si è assunto, potevano rappresentare al più un problema di limitazione della «libertà positiva».
Per «vincoli esterni alla natura dell’attore» si è inteso i vincoli prodotti dall’azione umana. I teorici liberali [2]
sono stati concordi nel sostenere che la semplice incapacità di raggiungere un obiettivo non può essere definita come mancanza di libertà: si può parlare di lesione della libertà soltanto quando la limitazione della possibilità di agire è il risultato, «intenzionale o no» [3]
, dell’operato di esseri umani, quando l’impedimento o l’ostacolo è qualcosa che può essere creato e/o rimosso dall’attività umana. Questa concezione della libertà è espressa chiaramente da Helvétius che scrive:
l’uomo libero è l’uomo che non è in catene, né rinchiuso in una prigione, né terrorizzato come uno schiavo dal timore di essere punito [...] non è mancanza di libertà non volare come un’aquila o non nuotare come una balena.
Riporto questa affermazione di Helvétius, citata da Berlin [1958; trad. it. 1989, 237, nt. 3], perché essa rende evidente che la definizione di libertà, e di cosa conta come sua limitazione, viene a dipendere dal modello antropologico di individuo che si assume, da «la natura e la qualità intrinseca» assunte come caratterizzanti il soggetto agente. Aggiornando gli esempi di Helvétius su cosa non può essere considerato limitazione della libertà, e interpretando Hobbes, sembra logico dire che l’incapacità di un individuo di raggiungere altre galassie non è un limite della sua libertà politica e sociale, ma semmai del suo potere, così come la capacità di Superman di farlo non gli conferisce una libertà maggiore, ma un potere maggiore.{p. 242}
Queste considerazioni ci devono far riflettere sulla «natura» e la «qualità intrinseca» di quello che l’articolo 38 della Costituzione chiama «inabile al lavoro». La definizione sembra implicare, da un lato, che l’«inabilità al lavoro» non sia un vincolo esterno, non limiti la libertà, dall’altra, per contrasto, che i soggetti non «inabili», quelli «normali», siano capaci di lavorare, siano «abili» al lavoro. Parto da questo corollario perché esso fa parte della storia dell’Occidente dall’avvento del mercato e del liberalismo in poi.
Il vocabolario dell’articolo 38 della Costituzione sembra derivare direttamente dalla gestione che nasce dal «grande internamento». Come ha mostrato Michel Foucault [1961] analizzando le vicende francesi, seguito da Andrew Scull [1979] per quelle inglesi, a una fase in cui si tende a internare qualsiasi disturbatore delle aspettative sociali segue una fase in cui si cerca di distinguere, tra gli internati, gli abili e gli inabili al lavoro [Dörner 1975]. Questa distinzione diventa la guida tra deserving e undeserving poor, dicotomia che fuoriesce rapidamente dalla galassia dell’internamento per diventare la stella polare dei primi interventi sociali dello Stato: solo gli inabili sono deserving poor che meritano il sostegno sociale. Tutti gli altri sono undeserving poor: per loro il sostegno sociale diventa un incitamento ad astenersi dal diritto/dovere del lavoro.
Come hanno mostrato le analisi di Foucault [2004a; 2004b], emerge, insieme ai diritti fondamentali da garantire, un modello normativo di «cittadino», che in effetti viene a configurarsi come un modello di «soggetto» [4]
: il modello è quello di un individuo che sa (o viene disciplinato a) usare i diritti che lo Stato gli conferisce, capace di adeguare la propria soggettività, o almeno le proprie azioni, alle esigenze del mercato (a partire da quello del lavoro) e all’ordine politico liberale. Il soggetto ha veramente il controllo di se stesso e dei suoi beni se è capace di gestire entrambi in modo «razionale». L’identificazione tra status di cittadino e soggetto svolge il ruolo di «architetto della diseguaglianza sociale legittima» (per usare una celebre espressione di T.H. Marshall [1963; trad. it. 1976, 8], in primo luogo, creando i presupposti, a un tempo epistemico/cognitivi, morali e politici, per lo sviluppo di una serie di dualismi escludenti e/o inferiorizzanti, che si articolano a partire da quelli di responsabili/irresponsabili, capaci/incapaci [Santoro 1999].
Tutti gli inabili a norma del primo comma dell’articolo 38 Cost. sono deserving poors, quindi hanno diritto all’assistenza che garantisca loro la sopravvivenza quando sono privi di mezzi di sostentamento. Questa assistenza però si articola in modo diverso a seconda che siano inabili e {p. 243}minorati per cause fisiche o per cause psichiche. La «diversità» dei primi produce debolezza che li rende inadatti al lavoro e allo stesso tempo non pericolosi, solo un problema sociale: la necessità del loro internamento può essere dovuta solo, paternalisticamente, alle necessità di farsi carico dei bisogni a cui non riescono a provvedere da soli. Diverso è il caso degli inabili e minorati per cause psichiche [5]
: essi rappresentano un caso difficile. La loro inabilità li rende deserving poors, ma è anche considerata fonte di pericolosità (in Italia per gli autori di un fatto di reato la connessione tra incapacità mentale e pericolosità è stata presunta fino al 1986) [6]
: per cui il loro trattamento oltre che provvedere ai loro bisogni materiali deve neutralizzare la pericolosità sociale. Per loro l’internamento diventa una regola, qualcosa da cui è estremamente difficile uscire.
La lettera dell’articolo 38, comma 3, Cost. delinea una seconda differenza: ci sono gli «inabili» e i «minorati» le cui capacità produttive possono essere recuperate, o quantomeno il costo della cui presa in carico può essere ridotto, stimolando le loro capacità, attraverso l’educazione [7]
e l’avviamento professionale.
Gli spazi dell’istituzionalizzazione emergono immediatamente con le sembianze di Giano bifronte: combinano la presa in carico sociale degli inabili alla neutralizzazione del disordine potenziale causato dal loro agire.
Questa duplice caratteristica trova la propria pietra angolare nell’idea che è la stessa inabilità al lavoro a essere in sé perturbativa dell’ordine sociale: l’ordine sociale assume un cittadino capace di provvedere ai propri bisogni vendendo la propria abilità sul mercato del lavoro. Da questo peccato originale nasce l’idea, che segna profondamente la genesi dello Stato sociale, che l’inabilità al lavoro è una deminutio, uno stato sociale inferiore, e che i diritti sociali che compensano la deminutio sono in qualche modo stigmatizzanti uno stato di inferiorità di chi non può essere, per usare l’espressione statunitense, un self made man. Questa, come ha raccontato Marshall, è stata la linea di sviluppo del percorso che ha portato allo Stato sociale, o come dicono i francesi, rendendo più evidente il nesso con le garanzie che nell’epoca premoderna offriva il piano
{p. 244}provvidenziale, all’État providence. L’essere deserving poors conferisce il diritto all’assistenza, ma, potremmo dire «calvinisticamente», segnala una inferiorità dell’individuo rispetto al modello su cui si è articolato l’ordine sociale: l’insuccesso terreno è dimostrazione del fatto che gli individui non sono pre-destinati alla salvezza eterna [8]
.
Note
[1] Il fatto che l’acqua scenda a valle non dipende secondo le nostre spiegazioni dalla «sua natura», ma dalla legge di gravità. È a un tempo strano e sintomatico che Hobbes, entusiasta ammiratore di Galileo, adoperi un linguaggio aristotelico.
[2] Nel ricordato dibattito sviluppatosi a partire dal saggio di Berlin ho presenti due sole eccezioni. La prima è rappresentata da MacCallum [1967, 314] che, quando propone la sua famosa definizione triadica della libertà, non specifica questo punto e scrive: «nella formula “x è (non è) libero da y di fare (non fare, diventare, non diventare) z”, x varia sugli agenti, y varia su “condizioni impeditive” come vincoli, restrizioni, interferenze e barriere, e z varia sulle azioni o sulle condizioni o sul carattere o sulle circostanze». La seconda è rappresentata da A.S. Kaufman [1962] che, criticando Berlin, sostiene che anche gli ostacoli non provocati dagli esseri umani costituiscono forme di privazione della libertà sociale e politica. La prima eccezione mi sembra sia attribuibile a una mancata precisazione nella definizione, perché poi l’intero articolo di MacCallum dà per scontato che le interferenze rilevanti sono quelle attribuibili ad altri individui, mentre la posizione di Kaufman mi sembra sia rimasta nel corso di quel dibattito del tutto isolata.
[3] Quella dell’intenzionalità è una questione più controversa. Berlin [1958; trad. it. 1989, 189] in Two Concepts of Liberty prima sostiene che la coartazione implica un’interferenza «deliberata» all’interno dell’area in cui un soggetto potrebbe altrimenti agire poi, alla pagina successiva, afferma che si ha oppressione quando un individuo frustra, «con o senza intenzione», i desideri di un altro individuo. Nella replica alle critiche rivolte a quel saggio usa la dizione riportata nel testo, ma aggiunge che solo nel caso che le interferenze con la libertà di un altro «siano volute intenzionalmente o, forse, siano accompagnate dalla consapevolezza che possono costituire un ostacolo, le si potrà definire oppressione» [Berlin 1969; trad. it. 1989, 39].
[4] Mi limito solo a ricordare (e rinviare incidentalmente a) le celeberrime considerazioni di Foucault [1976] sul fatto che il termine «soggetto» contiene nella sua radice semantica quella di «assoggettamento».
[5] Il rinvio non può essere che alle celeberrime analisi di Foucault [1961] sull’origine della psichiatria del manicomio.
[6] Robert Castel [1976; trad. it. 1980, 15] evidenzia come la Terza Repubblica francese dia vita a una delle prime leggi sociali, la legge del 30 giugno 1838, che inventa «uno spazio nuovo, il manicomio, la creazione di un corpo di medici funzionari, la costituzione di un sapere specializzato» e con essi la categoria degli «inabili» per ragioni psichiche ontologicamente pericolosi.
[7] In effetti in Assemblea Costituente, in linea con una corrente di pensiero a dir poco ottocentesca che considerava l’infermità psichica prodotta da problemi morali, si discusse se utilizzare il termine «rieducazione», esattamente come per gli autori di reato. Posizione alla fine superata in base al ragionamento che l’educazione ricomprende la rieducazione [cfr. Falzone et al. 1976, 133].
[8] Queste considerazioni rinviano naturalmente alle celeberrime tesi di Max Weber [1922] sull’affinità tra il modello antropologico liberale e la dottrina calvinista [cfr. Hennis 1988].