Note
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Il fatto che l’acqua scenda a valle non dipende secondo le nostre spiegazioni dalla «sua natura», ma dalla legge di gravità. È a un tempo strano e sintomatico che Hobbes, entusiasta ammiratore di Galileo, adoperi un linguaggio aristotelico.
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Nel ricordato dibattito sviluppatosi a partire dal saggio di Berlin ho presenti due sole eccezioni. La prima è rappresentata da MacCallum [1967, 314] che, quando propone la sua famosa definizione triadica della libertà, non specifica questo punto e scrive: «nella formula “x è (non è) libero da y di fare (non fare, diventare, non diventare) z”, x varia sugli agenti, y varia su “condizioni impeditive” come vincoli, restrizioni, interferenze e barriere, e z varia sulle azioni o sulle condizioni o sul carattere o sulle circostanze». La seconda è rappresentata da A.S. Kaufman [1962] che, criticando Berlin, sostiene che anche gli ostacoli non provocati dagli esseri umani costituiscono forme di privazione della libertà sociale e politica. La prima eccezione mi sembra sia attribuibile a una mancata precisazione nella definizione, perché poi l’intero articolo di MacCallum dà per scontato che le interferenze rilevanti sono quelle attribuibili ad altri individui, mentre la posizione di Kaufman mi sembra sia rimasta nel corso di quel dibattito del tutto isolata.
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Quella dell’intenzionalità è una questione più controversa. Berlin [1958; trad. it. 1989, 189] in Two Concepts of Liberty prima sostiene che la coartazione implica un’interferenza «deliberata» all’interno dell’area in cui un soggetto potrebbe altrimenti agire poi, alla pagina successiva, afferma che si ha oppressione quando un individuo frustra, «con o senza intenzione», i desideri di un altro individuo. Nella replica alle critiche rivolte a quel saggio usa la dizione riportata nel testo, ma aggiunge che solo nel caso che le interferenze con la libertà di un altro «siano volute intenzionalmente o, forse, siano accompagnate dalla consapevolezza che possono costituire un ostacolo, le si potrà definire oppressione» [Berlin 1969; trad. it. 1989, 39].
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Mi limito solo a ricordare (e rinviare incidentalmente a) le celeberrime considerazioni di Foucault [1976] sul fatto che il termine «soggetto» contiene nella sua radice semantica quella di «assoggettamento».
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Il rinvio non può essere che alle celeberrime analisi di Foucault [1961] sull’origine della psichiatria del manicomio.
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Robert Castel [1976; trad. it. 1980, 15] evidenzia come la Terza Repubblica francese dia vita a una delle prime leggi sociali, la legge del 30 giugno 1838, che inventa «uno spazio nuovo, il manicomio, la creazione di un corpo di medici funzionari, la costituzione di un sapere specializzato» e con essi la categoria degli «inabili» per ragioni psichiche ontologicamente pericolosi.
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In effetti in Assemblea Costituente, in linea con una corrente di pensiero a dir poco ottocentesca che considerava l’infermità psichica prodotta da problemi morali, si discusse se utilizzare il termine «rieducazione», esattamente come per gli autori di reato. Posizione alla fine superata in base al ragionamento che l’educazione ricomprende la rieducazione [cfr. Falzone et al. 1976, 133].
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Queste considerazioni rinviano naturalmente alle celeberrime tesi di Max Weber [1922] sull’affinità tra il modello antropologico liberale e la dottrina calvinista [cfr. Hennis 1988].
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Questa era la logica che stava dietro l’uso del termine «handicap» su cui si è imperniato il discorso sui diritti delle persone disabili nel secondo Novecento [cfr. Hanau 1993].
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La Carta sociale europea garantisce al disabile «l’effettivo esercizio del diritto all’autonomia, all’integrazione sociale ed alla partecipazione alla vita della comunità» (art. 15), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), tutela «il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità» (art. 26).
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Ratificata in Italia con la legge 3 marzo 2009, n. 18.
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La rappresentazione più evidente della fallacia di questa assunzione è rappresentata dal detto popolare, a dire il vero odioso, ma molto in voga tra i darwinisti sociali, secondo cui «dietro ogni grande uomo, c’è una grande donna». Niente come questo detto chiarisce che le supposte «capacità» personali sono il prodotto di specifiche relazioni sociali.
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L’articolo 19 della Convenzione prevede che gli Stati assicurino che: «(a) le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione; (b) le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione; (c) i servizi e le strutture sociali destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adattate ai loro bisogni».