Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c10
L’antropologia kantiana, che domina
la tradizione liberale, fissa le coordinate lungo le quali si consolida l’equazione tra
dominio delle passioni
¶{p. 249}e libertà, e questa equazione maschera
l’assoggettamento dell’individuo a uno specifico modello antropologico, di
«cittadino-attore sul mercato». La paradossale identificazione della libertà con
l’auto-repressione, richiesta dal dominio di sé, anticipa e rende superflua la
limitazione politica della possibilità di esprimere la propria specifica individualità:
l’individuo «libero» è già assoggettato al modello dell’individuo razionale, capace di
un calcolo utilitaristico di lungo periodo (e quindi compatibile con l’interesse
generale), «abile» a soddisfare i propri bisogni sul mercato.
La concezione kantiana della
dignità ha dunque potuto fare da perno all’idea di un ordine che si articola a partire
dall’idea che la deminutio fisica e mentale del singolo viene
considerata come una causa di alterazione della sua autonomia e quindi influisce sul
regime legale degli atti giuridicamente rilevanti e legittima, nei casi più gravi, più
disfunzionali, l’istituzionalizzazione. Nel quadro che si costruisce a partire dall’idea
che la dignità è strettamente connessa alla capacità di essere autonomo non appare
lesivo della dignità degli individui privare, in maniera apparentemente paternalistica,
di efficacia giuridica, perché espressione di una personalità «viziata», le espressioni
di volontà dei soggetti «inabili» mentalmente e considerare, in modo altrettanto
apparentemente paternalistico, quegli stessi soggetti per lo più da ricondurre a
un’istituzione che assolve a plurime competenze trattamentali. Non a caso Foucault, alla
luce del paradigma kantiano che lega autonomia e capacità di essere morali, considera
l’internamento parte di un progetto di «ortopedia morale», che vuol dire ortopedia
dell’autonomia personale.
2. Dall’inabile al lavoro alla persona con disabilità
Oggi la concezione liberale
dell’individuo e quella kantiana del binomio dignità-autonomia, con la normatività che
presuppongono, appaiono ancora molto forti ma sempre più insoddisfacenti e in via di
superamento, senza però che emerga un chiaro paradigma che le sostituisca. Ci troviamo
di fronte a un panorama frastagliato, con sviluppi diversi nelle diverse culture
costituzionali. Siamo nel corso di una transizione che non ha ancora portato ad approdi
«paradigmatici». Questa transizione in Italia sta trovando un punto saldo a cui
ancorarsi: la concezione personalistica su cui (pur con alcune indubbie sopravvivenze
del modello antropologico liberale come quella dell’art. 38) si impernia la nostra
Costituzione.
Il Preambolo
della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948 risente ancora nel suo lessico della
matrice kantiana, ma lo sviluppo di alcune suggestioni contenute nelle formulazioni dei
testi costituzionali, prima da parte della Corte tedesca e, successivamente, di quella
italiana, ¶{p. 250}e il ruolo attribuito alla dignità dalla
giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo stanno valorizzando una nozione
della dignità non come innato presupposto dell’attribuzione dei diritti, ma uno spazio
in cui le persone devono poter svolgere la loro vita costruendo la propria identità e
realizzarla socialmente. Il riconoscimento e il rispetto della dignità vengono a
delinearsi quindi non come un a priori, ma come il rispetto per
l’esito dei processi di autorealizzazione e di costruzione della specificità individuale
della persona. A una nozione di dignità astratta, riassumibile nel riconoscimento dei
diritti a fronte dell’assunto che ogni essere umano sa scegliere in modo «morale», cioè
funzionale al mercato e all’ordine liberale, si va sostituendo un’idea di dignità che
implica, come ha scritto il giudice costituzionale italiano, per «ognuno il diritto a
che la sua individualità sia preservata» (Corte costituzionale, sent. 3 febbraio 1994,
n. 13): una nozione per cui la dignità implica concretamente il rispetto degli specifici
individui con tutte le loro «vulnerabilità» – termine che sta assumendo un’importanza
sempre maggiore, sostituendo la «cittadinanza» come «architetto della diseguaglianza
legittima».
Sicuramente il modello welfaristico
ha dato una spinta importante facendo emergere un paradigma inclusivo, fondato sulla
necessità di fornire assistenza al soggetto con i suoi concreti bisogni. È lo stesso
Marshall [1963; trad. it. 1976, 17], che, per legittimare lo Stato sociale appena
istituito in Gran Bretagna dal governo laburista, costruisce un
narrative «progressista», secondo cui con il riconoscimento dei
diritti civili si modificano progressivamente i presupposti della considerazione sociale
dei soggetti, spostandola «dalla ricchezza economica allo status
personale». Secondo il sociologo inglese, diffondendo la convinzione della sostanziale
uguaglianza degli individui, la cittadinanza, che definisce «parziale», non comprensiva
cioè dei diritti sociali, prepara il terreno per il superamento di molte delle
differenze derivanti dalle distinzioni di classe. In una prima fase l’attribuzione di
diritti sociali, contrariamente alle speranze/previsioni di Marshall, non ha dato vita a
uno status di cittadinanza unitario, ma ha moltiplicato gli
status dei cittadini, i loro diritti in base ai bisogni
riconosciuti legittimi, i bisogni dei deserving poor, quelli che si
ritiene che «oggettivamente» il mercato non può soddisfare [Donzelot 1984]. Ma Marshall
tratteggia anche un passaggio successivo, sostenendo che il cambiamento che sta
avvenendo spinge, più in generale, verso una concezione dell’uguaglianza meno formale,
verso «una uguaglianza di dignità sociale e non verso la semplice uguaglianza di diritti
naturali» [1963; trad. it. 1976, 33]. È grazie al successo di questa nuova concezione,
sostiene Marshall, che comincia a entrare in crisi la logica secondo cui il
riconoscimento dei diritti civili, conferendo a ogni individuo «il potere di impegnarsi
come unità indipendente nella lotta economica», rende perfettamente coerente
¶{p. 251}«negargli la protezione sociale sulla base dell’argomento che
egli disponeva dei mezzi per proteggersi da solo» [ibidem, 28]. Si
arriva così alla seconda metà del Novecento in cui, particolarmente in Europa, emerge
l’esigenza «di adattare il reddito reale ai bisogni sociali e allo status del cittadino
e non solamente al valore di mercato del suo lavoro» [ibidem, 19].
In altre parole, il percorso ricostruito da Marshall, senza trarne pienamente le
conseguenze, rende concettualmente obsoleta, e quindi di difficile legittimazione, la
deminutio di rango sociale dovuta all’incapacità di adattarsi
all’ordine del mercato e liberale.
Negli ultimi decenni i diritti
sociali hanno cominciato a dismettere il loro carattere compensativo che presume e
segnala la non piena capacità di essere autonomo del soggetto, per ammantarsi lentamente
della veste di manifestazioni di rispetto della dignità, di strumenti indispensabili per
la promozione e protezione della concreta facoltà di autodeterminarsi nelle specifiche
relazioni sociali che disegnano la vita di ogni persona. La dignità
passa da base del diritto ad avere diritti a base del diritto di usare i
diritti per esprimere la propria individualità. Questo slittamento
semantico non è di poco conto perché il diritto ad avere diritti è ancora lessicalmente
kantiano, del resto profondamente kantiane sono molte delle teorizzazioni di Arendt, e
fa riferimento al presupposto del riconoscimento dei diritti (problema spesso ancora
attuale). Mettere l’accento sull’uso che si fa dei diritti sposta il fuoco dalla loro
titolarità astratta alla concreta possibilità del singolo di poterli usare per condurre
la propria vita secondo un piano personale senza che questo
comporti la marginalizzazione o addirittura l’esclusione dalla dimensione sociale, senza
che sia confinato nei coni d’ombra del paternalismo, dell’assistenzialismo e dello
stigma di minorità. Questa impostazione a sua volta «apre» le elencazioni costituzionali
dei diritti all’esigenza di riconoscere tutti quei «nuovi» diritti, a partire da quelli
«identitari», che servono per garantire alla pluralità delle personalità di esprimersi.
Nella nostra Costituzione questa
nuova concezione della persona(lità) è delineata dall’articolo 3 che inizia sancendo che
«tutti i cittadini hanno pari dignità sociale», affermazione che da sola dovrebbe
sgomberare il campo dall’idea dei diritti sociali come compensazione di un qualche
deficit personale che ostacola il proporsi a pieno titolo sul mercato e nell’arena
sociale. Ma se non bastasse questa affermazione, a essa segue il celeberrimo secondo
comma, che affida alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti
i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questa
disposizione, non a caso definita da Pietro Calamandrei [1955] «polemica contro il
presente in cui ¶{p. 252}viviamo», chiarisce in modo netto che
l’intervento sociale non è destinato soltanto a chi non è capace di stare sul mercato e
quindi non è in grado di dispiegare pienamente la sua personalità ma a tutti, e in
particolare a «tutti i lavoratori» che, pur stando nel mercato (del lavoro), possono
comunque essere intrappolati, a prescindere dalla loro volontà, in relazioni sociali che
impediscono loro la piena partecipazione alla vita politica, sociale ed economica del
Paese.
Nel nostro Paese per lungo tempo
l’idea costituzionale dello «svolgimento della persona – della dignità, della libertà,
della responsabilità individuale – anche, per non dire soprattutto, fuori dal chiuso
isolamento del suo io», per usare le parole di Rescigno [1966, 5], è stata neutralizzata
dall’involucro kantiano, che ha impedito alla concezione personalistica di dispiegare il
proprio impatto: il discorso dei diritti si è imperniato sull’individualità intesa come
qualcosa di diverso dalla concreta soggettività di ogni persona, sull’individualità
liberale astratta, funzionale all’ordine politico ed economico. Nella concezione
personalistica della dignità questa nozione emerge come limite ordinamentale al
travolgimento dell’uomo inteso come prodotto di una specifica esperienza di vita e di
una particolare evoluzione. La dignità si staglia come qualcosa di intangibile che deve
garantire, creando le condizioni sociali appropriate, a ciascuno l’autodeterminazione e
facoltà di scegliere e non, kantianamente, come un presupposto normativo del
riconoscimento dei diritti: non come un fine «personale» che deve essere raggiunto dal
singolo per meritare dei diritti, per esserne «degno», ma come un concetto relazionale a
cui la convivenza sociale deve mirare.
Il superamento dell’impostazione
kantiana è lento e faticoso perché impone un radicale mutamento del paradigma del
rapporto tra società e individuo. Superare la nozione di dignità intesa come presupposto
per l’attribuzione dei diritti per approdare al suo abbinamento con il riconoscimento
dell’autodeterminazione, delle specificità personali, impone di rimettere le relazioni
sociali alle scelte storiche e contingenti dei soggetti. Impone, per usare il linguaggio
dei sociologi, di pensare a una società in cui le aspettative normative sul
comportamento dei consociati diminuiscono fortemente a favore delle aspettative
cognitive, di quelle aspettative cioè che non richiedono agli altri di adattarsi e non
ammettono di essere deluse, ma che sono pronte a modificarsi imparando dalle delusioni.
Richiede una società disponibile a imparare a conoscere, e a rispettare, le soggettività
molteplici dei suoi componenti.
I diritti delle persone con
disabilità sono in questo percorso una sorta di experimentum
crucis. Infatti, quella della disabilità si è caratterizzata come una nozione
che mal si è prestata a essere eretta a caratteristica personologica utile a creare una
platea di legittimati a prestazione sociale in quanto disabili. Per quanto si cerchi di
ricondurre questa categoria ¶{p. 253}alle modalità di gestione di tutti
i diritti sociali e si tenti di subordinare l’erogazione delle prestazioni sociali
all’accertamento della condizione di disabilità e di determinarne il contenuto in base a
esse, la disabilità mostra di avere un contenuto insopprimibilmente personalistico.
Nel solco del percorso tracciato
dall’articolo 38 Cost. l’impianto di risposte dell’ordinamento italiano alle differenti
condizioni di disabilità è stato disegnato sulla base del «classico» sistema di
neutralizzazione della disabilità, intesa come un elemento perturbante la fisiologia del
rapporto tra l’individuo e l’attività giuridica e pratica che le relazioni di mercato
richiedono. Gli sviluppi della conoscenza medica non hanno però favorito l’affermarsi di
una categoria unidimensionale della disabilità capace di dispiegare tutte le protezioni.
Il campo dei diritti delle persone disabili si è dimostrato, in altre parole, riottoso
all’impostazione tradizionale che prevede di individuare il contenuto dei diritti che le
norme devono tendere a garantire a partire dalla qualifica di disabile, fondata sulla
compromissione o riduzione di una o più delle funzioni motorie, sensoriali e psichiche
della persona, erigendo quest’ultima a elemento di distinzione e graduando poi, secondo
un impianto funzionalista, l’accesso ai diritti sulla base del maggiore o minore
distacco dalla norma
[9]
. Le operazioni ermeneutiche e classificatorie messe in moto dai dispositivi
pur creati non rivolgendosi alla persona ma alle sue funzioni, hanno reso un’immagine
difficilmente riconducibile a un modello unitario delle persone con disabilità,
evidenziando la centralità del soggetto e della sua specifica condizione sociale. Questo
dato ha finito per giocare un ruolo rilevante nell’indebolimento dell’idea di costruire
uno status delle persone con disabilità per
contrapposizione/compensazione a un fantomatico concetto di «normalità».
I disabili si sono dimostrati
riottosi a essere ricondotti a un gruppo omogeneo e le loro differenziazioni hanno
resistito alla riduzione a idiosincrasie soggettive, alla variazione della psiche. Per
quanto gli standard della disabilità giustificativi dell’assistenza siano ricondotti a
caratteristiche personali considerate appunto disabilitanti (la minore età, la
maternità, a volte lo stesso essere donna, la vecchiaia, la malattia, le menomazioni
fisiche, quelle mentali, ecc.), il diverso combinarsi di queste comporta che il tipo di
ostacolo che ogni persona sperimenta nell’interazione con l’ambiente cambia da persona a
persona. Abbiamo una differenziazione individuale dei bisogni davanti agli stessi tipi
di ostacoli. Quella della disabilità si è costruita, quindi, come una nozione che rende
difficile obliterare la centralità della componente individualistica dell’esperienza di
vita della persona. Nel contesto materiale dei rapporti sociali, la distanza tra la
condizione della persona con disabilità e l’autonomia del fantomatico soggetto «normale»
¶{p. 254}invece di essere tipizzata dal contatto con i dispositivi
amministrativi (di polizia, di incapacitazione civile, delle prassi mediche), che hanno
il compito di trattare la disabilità, si frantuma in un caleidoscopio di situazioni.
Note
[9] Questa era la logica che stava dietro l’uso del termine «handicap» su cui si è imperniato il discorso sui diritti delle persone disabili nel secondo Novecento [cfr. Hanau 1993].