Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c10
Questa duplice caratteristica trova la propria pietra angolare nell’idea che è la stessa inabilità al lavoro a essere in sé perturbativa dell’ordine sociale: l’ordine sociale assume un cittadino capace di provvedere ai propri bisogni vendendo la propria abilità sul mercato del lavoro. Da questo peccato originale nasce l’idea, che segna profondamente la genesi dello Stato sociale, che l’inabilità al lavoro è una deminutio, uno stato sociale inferiore, e che i diritti sociali che compensano la deminutio sono in qualche modo stigmatizzanti uno stato di inferiorità di chi non può essere, per usare l’espressione statunitense, un self made man. Questa, come ha raccontato Marshall, è stata la linea di sviluppo del percorso che ha portato allo Stato sociale, o come dicono i francesi, rendendo più evidente il nesso con le garanzie che nell’epoca premoderna offriva il piano
{p. 244}provvidenziale, all’État providence. L’essere deserving poors conferisce il diritto all’assistenza, ma, potremmo dire «calvinisticamente», segnala una inferiorità dell’individuo rispetto al modello su cui si è articolato l’ordine sociale: l’insuccesso terreno è dimostrazione del fatto che gli individui non sono pre-destinati alla salvezza eterna [8]
.
Nello Stato moderno, per rendere «governabili» gli individui, si sviluppano due diversi tipi di discorso «oggettivante» i soggetti: da una parte il discorso che forgia il modello antropologico dell’individuo capace di perseguire i propri interessi razionalmente, programmando autonomamente la propria vita; dall’altra quello che dà vita al modello antropologico dell’individuo incapace di far fronte da solo a problemi come la salute, l’igiene, la sessualità, l’educazione, la sofferenza e la morte. Il primo discorso affida la sicurezza degli individui all’attribuzione dei diritti soggettivi. Nel secondo, invece, la sicurezza è garantita da quella che Foucault nelle sue ricerche della fine degli anni Settanta ha definito «biopolitica», e cioè dalla «razionalizzazione» da parte delle agenzie amministrative dei principali problemi che riguardano la popolazione di uno Stato. Questo tipo di discorso «costruisce» tutta una serie di soggetti che non riescono a garantirsi la sicurezza attraverso i diritti civili e hanno bisogno dell’intervento di agenzie statali. Queste ultime costruiscono l’identità dei soggetti come in-abili (e vulner-abili), definendo i bisogni e gli interessi di cui si fanno carico: l’assunzione implicita è che esse intervengono perché quei soggetti non sanno da soli ovviare alla loro in-abilità. In base a questo secondo discorso gli Stati conferiscono la protezione non su una base unitaria, ma seguendo criteri divergenti che differenziano i gradi di in-abilità dei diversi soggetti. L’attribuzione di diritti sociali, contrariamente alle speranze/previsioni di Marshall, non ha subito dato vita a uno status di cittadinanza unitario. Essa ha segnato piuttosto il risorgere di status differenti all’interno dell’ordinamento dello Stato moderno. Si è attribuito un ruolo centrale non alla «dignità umana» ma allo specifico status dei singoli cittadini bisognosi, considerati proprio in quanto bisognosi inferiori all’«individuo» perno della società liberale.
La creazione di diversi status basati su diversi gradi di in-abilità, e quindi di bisogno, si intreccia con le dicotomie create dal modello «normativo» di cittadino-soggetto: le compensazioni delle in-abilità specifiche si accompagnano alla stigmatizzazione di chi ha necessità dei diritti sociali perché non può far fronte ai suoi bisogni, non sa garantire la propria sicurezza economica attraverso quella libertà di contrarre che Locke aveva fatto assurgere a diritto naturale. Il riconoscimento delle protezioni da parte dello Stato a chi non è capace di contrarre (ma anche ai contraenti {p. 245}«oggettivamente» deboli) limita i margini di manovra che normalmente hanno i soggetti che si servono del contratto per perseguire i propri interessi e soddisfare i propri bisogni. In questa costruzione la solidarietà che si esprime attraverso l’elemosina, perno della cultura cattolica, e l’idea che il successo mondano sia segno della grazia divina, perno della cultura calvinista, trovano il loro equilibrio.
Come riconosce Marshall stesso, i diritti sociali nascono in Inghilterra non come diritti di cittadinanza universali attribuiti a un soggetto padrone di se stesso, com’è il caso dei diritti civili, ma come diritti destinati a compensare gli esclusi dalla cittadinanza, a proteggere i membri della comunità che non godono pienamente dello status di cittadini. La Poor Law del 1834 prevedeva benefici soltanto per i lavoratori che a causa dell’età avanzata o di malattie, vulnerabilità particolari, si ritiravano dal mercato del lavoro. Questa legge «considerò le pretese del povero non come parte integrante dei diritti del cittadino, ma come un’alternativa a essi: come una pretesa cui si poteva venire incontro solo se i postulanti cessavano di essere cittadini in un significato autentico della parola» [Marshall 1963; trad. it. 1976, 20]. La stessa logica ispira in quel periodo i Factory Acts, relativi alle condizioni e agli orari di lavoro:
Queste disposizioni si astenevano meticolosamente dall’offrire protezione direttamente al maschio adulto: il cittadino per eccellenza. E ciò proprio per rispettare il suo status di cittadino, perché provvedimenti protettivi obbligatori lo avrebbero privato del diritto civile di concludere un libero contratto di lavoro. La protezione veniva limitata alle donne e ai bambini, e i campioni dei diritti delle donne capirono immediatamente l’offesa implicita: le donne erano protette perché non erano considerate cittadini [ibidem].
Questo quadro welfaristico attenua la marcata connotazione svalutativa del concetto di incapacitazione e tratteggia, spesso, le discipline incapacitanti che segnano vari ambiti dell’ordinamento come concepite a difesa e protezione del soggetto. Questo connotato paternalistico [Buchanan 1978] ha da sempre accompagnato gli schemi di neutralizzazione di un qualche rischio sotteso all’accesso del singolo alla complessità delle relazioni sociali. Nel modello della cultura liberale, non solo giuridica, ma anche medica, economica (ricomprendendo nella sfera economica quella lavorativa), la protezione del soggetto fragile attraverso l’incapacitazione si congiunge con l’esplicita difesa, fisica ed economica, dei terzi.
Come ha sottolineato Marta Nussbaum [1998; trad. it. 1999, 15-16, corsivo mio] le teorie contrattualiste presuppongono una tipologia specifica di soggetto: «i teorici del contratto sociale [...] immaginano gli agenti contraenti che progettano la struttura di base della società come liberi, uguali e indipendenti e i cittadini, di cui rappresentano gli interessi, come
membri normali e pienamente cooperativi della società
per tutta la vita; essi, inoltre, sono spesso immaginati come persone caratterizzate da una razionalità alquanto idealizzata». Fin dalle sue origini, il contrattualismo scinde gli esseri umani dai soggetti politico-morali, includendo tra questi ultimi solo gli esseri capaci di prendere in mano la propria vita e gestirla con piena indipendenza e autonomia.
Questa costruzione si appoggia su una specifica declinazione, quella kantiana, del binomio dignità-autonomia. Il principio kantiano per il quale ogni essere umano non deve mai essere trattato come un mezzo per un fine ma, in ogni caso, come un fine in sé in quanto la dignità dell’uomo consiste in un «valore intrinseco assoluto», è assurto a fondamento, per usare l’espressione di Hannah Arendt, ripresa con grande successo ma con declinazioni diverse, da Stefano Rodotà, del «diritto ad avere diritti».
Com’è noto però per il filosofo tedesco l’autonomia che rappresenta il fondamento della dignità consiste nella capacità di seguire la legge morale, di comportarsi moralmente. Il rispetto della dignità impone a tutti gli esseri ragionevoli (ossia umani) il rispetto, sia della propria persona che della persona altrui: quindi ciascuno come è tenuto a rispettare la dignità degli altri è vincolato a rispettare la propria, cioè a comportarsi moralmente.
Nussbaum [2006; trad. it. 2007, 149-150] mostra come la dottrina kantiana dell’autonomia faccia del possesso delle facoltà mentali e morali il perno sia dell’eguaglianza sia dell’idea chiave di reciprocità. L’avversione all’eudaimonismo porta Kant a sostenere che l’umanità presuppone il superamento dell’animalità, che la razionalità debba essere indipendente dai bisogni vitali essenziali che caratterizzano la sfera dell’animalità, un essere umano che si fa guidare da questi e non consente alla sua «intelligenza» di controllarli si ascrive alla categoria degli animali e non delle persone. Come scrive la Nussbaum: «la concezione di Kant della persona [...] risale agli stoici greci e romani – per i quali – il concetto di persona si identifica con la ragione», in essa «la ragione, [...] è considerata una caratteristica degli esseri umani che li distingue nettamente dagli animali non umani e dalla loro stessa animalità».
Il filosofo tedesco, come è noto, pensa che la vita degli esseri umani si articoli in due sfere: «la sfera della necessità naturale e la sfera della libertà razionale/morale. Concepisce tutti gli animali non umani, e il lato animale della vita umana, come appartenenti alla sfera deterministica della natura. È in virtù delle nostre capacità di razionalità morale, e solo per queste, che ci innalziamo oltre questa sfera ed esistiamo, quindi, nella sfera dei fini». Non si pone il problema dei diritti sociali per i deserving poors, ma si pone il problema dei diritti politici e sostiene che lo status di cittadino, caratterizzato rousseauianamente dal diritto di voto, non spetta a tutti i membri di una determinata comunità: ne devono essere esclusi {p. 247}non solo i nullatenenti ma anche chi vive del proprio lavoro. Il diritto di voto spetta a suo parere solo a chi «abbia una qualche proprietà [...] che gli procuri i mezzi di vivere»; solo a chi sia in grado di procurarsi i mezzi di sussistenza «mediante alienazione di ciò che è suo e non per concessione che egli faccia ad altri dell’uso delle sue forze» [Kant 1793; trad. it. 1956, 260-261].
I soggetti «veri», pleno iure, sono quelli che dimostrano di avere una struttura della personalità gerarchico dualistica: cioè di controllare i propri desideri materiali, il desiderio di soddisfazione delle proprie esigenze e di sottometterli alla volontà di essere morali. Questa impostazione porta alla conseguenza che se le persone, che hanno bisogni inusuali, fanno rivendicazioni basate sulla loro parte animale, non possono far parte del rapporto morale su cui la teoria contrattualista costruisce l’ordine politico, economico e sociale.
L’eccessiva valorizzazione di un concetto etero-definito di dignità, l’adozione di un’impostazione rigorosamente kantiana, che fa divieto anche al singolo individuo di abdicare la dignità che è in lui, crea però una tensione con il principio di libertà [Santoro 1999, 38-44]. Il perno della concezione liberale appare un concetto ontologico di dignità umana, che finisce per sottrarre agli individui la decisione su quale sia, nelle diverse specifiche condizioni concrete di ciascuno, la vita degna di essere vissuta.
La storia del pensiero e delle istituzioni liberali ci ha insegnato che la concezione kantiana (ma anche lockeana) si è prestata a giustificare l’adozione di dispositivi incapacitanti che ha rappresentato uno dei fondamenti del trattamento normativo della disabilità. Questo è il lascito della matrice storica ereditata dall’impostazione liberale classica, che rispondeva alla disabilità con i dispositivi incapacitanti. Il ricordato saggio di Berlin sui due concetti di libertà ha il grande merito di aver mostrato come l’idea della libertà positiva, che per il filosofo nato a Riga coincide con la concezione kantiana di autonomia, è seducente ma insidiosa: nel momento in cui sembra annunciare il trionfo della libertà, essa in realtà introduce elementi che ne minano la solidità e l’integrità. La libertà positiva presuppone infatti una visione sdoppiata della soggettività, implica l’esistenza di un «vero» e di un «falso» se stesso, impone la distinzione fra un io profondo e un io superficiale e apre quindi la strada del controllo e della manipolazione della soggettività. Per Berlin la nozione di libertà positiva è storicamente legata a quello che ho proposto di definire il modello antropologico «gerarchico-dualistico» [Santoro 1999], il modello cioè di un soggetto che non solo è qualcosa di diverso dai suoi sentimenti, dalle sue passioni, dalle sue credenze, ecc., ma si identifica con la sua capacità di distaccarsi da essi, di fare un passo indietro per valutarli e per scegliere infine quelli che ritiene corrispondenti al suo «vero sé». {p. 248}
Questa parte dell’analisi di Berlin è spesso stata dimenticata dai molti autori che hanno considerato la libertà positiva come la «sorella gemella» della nozione di autonomia e come il substrato teorico dei diritti sociali. Queste tesi appaiono paradossali dato che Berlin sostiene che l’autonomia individuale, intesa come capacità di libera autodeterminazione della propria identità, finisce per essere compromessa da ogni tentativo di perseguire a livello politico-istituzionale la libertà positiva, cioè l’autonomia kantianamente intesa. A suo parere l’autonomia come autodeterminazione dei soggetti può essere protetta solo difendendo la loro libertà negativa, la quale però di per sé non garantisce l’autonomia individuale. L’acutezza con cui Berlin mette a fuoco questo problema, e la lucidità con cui ne mostra le implicazioni concettuali per il pensiero liberal-democratico, fanno ancora oggi della sua analisi uno strumento teorico importante per individuare i valori e le concezioni (del mondo, dell’individuo, della democrazia, ecc.) in gioco quando si discute di autonomia individuale.
La concezione kantiana considera la dignità, da un lato, la base dell’attribuzione dei diritti e un patrimonio che sorge con la nascita di ciascun individuo, in qualche modo fattore distintivo della specificità originaria e intangibile dell’essere umano. Dall’altro il binomio che Kant tratteggia tra autonomia-dignità come qualcosa di oggettivo, aprioristicamente definito e assoluto, rende il pieno riconoscimento delle specifiche soggettività dovuto salvo che gli individui stessi dimostrino di non meritarselo, mostrando di non essere degni dei diritti, di non saperli utilizzare. La nozione di dignità ha una ineliminabile idea normativa di soggettività e implica che se non ti comporti in modo autonomo, cioè morale, se non trascendi i tuoi bisogni materiali, abdichi la dignità che è in te e non meriti i diritti.
Fin dalle sue prime formulazioni il contrattualismo liberale ha dato per scontato che la tutela dei diritti fondamentali coincide con l’affermazione della soggettività individuale. Esso ha in questo modo nascosto la differenza tra la titolarità giuridicamente garantita di una serie di libertà e la possibilità di espressione autonoma della propria «individualità» da parte dei soggetti, schiacciando la seconda sulla prima. La «preminenza» dell’individuo nella teoria liberale, e cioè il grado in cui esso viene concettualizzato come dotato di un’identità propria e non come parte organica della comunità, deve essere misurata, sostengono i contrattualisti, sulla base dei diritti che sono attribuiti al soggetto. La distinzione tra sfera di libertà garantita dai diritti soggettivi e il «diritto alla libertà soggettiva» non trova spazio nella dottrina liberale: per Kant, come già per Locke, il diritto non deve fare altro che dare veste giuridica ai diritti soggettivi già esistenti nello stato di natura, i diritti sono il perno di un ordine «giusto».
L’antropologia kantiana, che domina la tradizione liberale, fissa le coordinate lungo le quali si consolida l’equazione tra dominio delle passioni
{p. 249}e libertà, e questa equazione maschera l’assoggettamento dell’individuo a uno specifico modello antropologico, di «cittadino-attore sul mercato». La paradossale identificazione della libertà con l’auto-repressione, richiesta dal dominio di sé, anticipa e rende superflua la limitazione politica della possibilità di esprimere la propria specifica individualità: l’individuo «libero» è già assoggettato al modello dell’individuo razionale, capace di un calcolo utilitaristico di lungo periodo (e quindi compatibile con l’interesse generale), «abile» a soddisfare i propri bisogni sul mercato.
Note
[8] Queste considerazioni rinviano naturalmente alle celeberrime tesi di Max Weber [1922] sull’affinità tra il modello antropologico liberale e la dottrina calvinista [cfr. Hennis 1988].