Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c12
Daniele Amoroso
La posizione della Convenzione delle Nazioni Unite sui
diritti delle persone con disabilità nell’ordinamento italianoL’autore desidera ringraziare gli amici e colleghi dei «giovedì del CIDE» (Francesca Ippolito, Francesco Seatzu, Giacomo Biagioni, Paolo Vargiu, Luca Pantaleo, Giulia Ciliberto, Federica Velli ed Eleonora Pintus) per i preziosi suggerimenti e le utili osservazioni critiche. Eventuali errori o omissioni rimangono ovviamente nella responsabilità dell’autore
Notizie Autori
Daniele Amoroso
insegna Diritto internazionale e dell’Unione Europea e International environmental law and policy all’Università degli Studi di Cagliari. È associate editor dell’Italian Yearbook of International Law e country coordinator (con R. Pavoni) del team italiano di reporter dell’Oxford Reports on International Law in Domestic Courts. È componente del Comitato di redazione del Manuale di diritto internazionale applicabile alle operazioni militari, istituito nel 2023 dal Ministero della difesa.
Abstract
L’Italia ha giocato un ruolo tutt’altro che marginale nel processo che ha portato all’adozione, nel 2006, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, in quanto trattato, spiega naturalmente i suoi effetti nell’ordinamento di origine, vale a dire quello internazionale. Benché il diritto internazionale non pretenda, se non in casi specifici, di essere recepito nel diritto statale, quasi tutti gli ordinamenti nazionali – incluso quello italiano – prevedono meccanismi di adattamento. La circostanza che tanto l’Unione europea, quanto l’Italia (che ne è membro) siano parti del medesimo trattato non deve stupire. Nonostante i numerosi rinvii alla Convenzione che popolano l’ordinamento italiano, il fondamento della sua efficacia interna va rinvenuto nell’ordine di esecuzione di cui alla legge n.18/2009. Per la Corte, in altri termini, l’entrata in vigore della Convenzione, e dunque la sua introduzione nell’ordinamento italiano mediante ordine di esecuzione, avrebbe innovato il quadro giuridico nazionale arricchendolo di principi e norme senz’altro suscettibili di avere un impatto sulla disciplina interna. L’approccio restrittivo adottato dalla Consulta in merito alla natura non autoapplicativa della Convenzione è in parte controbilanciato dalla giurisprudenza dei giudici ordinari e amministrativi. A differenza di quanto avviene per le disposizioni della Convenzione, che sono oggetto di numerosi richiami e (talora) di analisi abbastanza approfondite, non è dato rinvenire nella giurisprudenza italiana alcun riferimento alla prassi del Comitato sui diritti delle persone con disabilità. Questa proficua interazione con la Convenzione potrebbe essere ulteriormente rafforzata se i giudici italiani «tenessero conto», nel senso indicato nel par. 5, della ricca prassi interpretativa del Comitato sui diritti delle persone con disabilità.
1. Considerazioni introduttive
L’Italia ha giocato un ruolo
tutt’altro che marginale nel processo che ha portato all’adozione, nel 2006, della
Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (d’ora in poi,
la Convenzione). È sufficiente ricordare, al riguardo, che il primo draft
di convenzione in materia fu proposto proprio dal Governo italiano nel 1987,
in occasione della 42a sessione dell’Assemblea generale delle
Nazioni Unite
[1]
. Non sorprende, pertanto, che l’Italia risulti tra i primi firmatari della
Convenzione e che l’abbia ratificata in tempi relativamente brevi
[2]
.
Del resto, la sollecita assunzione
di questo impegno internazionale, accompagnata dalla decisione di sottoporsi da subito
al meccanismo di controllo istituito dal Protocollo Opzionale alla Convenzione, è stata
in qualche misura agevolata dalla sostanziale conformità dell’ordinamento italiano «agli
obiettivi, ai principi e alle norme della Convenzione», così come evidenziato in uno
studio condotto nel 2008 dall’Istituto di Studi Giuridici Internazionali del Consiglio
Nazionale delle Ricerche [ISGI 2008]. Tale stato di cose è stato il frutto di una
virtuosa sinergia tra legislatore e organi giudiziari. Risale al 1992, infatti, la prima
disciplina organica dei diritti delle persone con disabilità
[3]
, aggiornata e ampliata da numerosi interventi legislativi, nonché dalla
meritoria attività interpretativa operata ¶{p. 276}dalla Consulta a
partire dagli articoli 3 e 38 della Costituzione [Piccione 2023; Colapietro e Girelli
2020].
Sarebbe tuttavia un errore ritenere
che la disciplina convenzionale dei diritti delle persone con disabilità sia interamente
sovrapponibile a quella italiana e, dunque, che la ratifica della Convenzione non abbia
prodotto alcun impatto sull’ordinamento italiano. Per un verso, infatti, come
evidenziato nel citato studio dell’ISGI, l’entrata in vigore della Convenzione per lo
Stato italiano ha comportato il sorgere di alcuni obblighi di adeguamento del diritto
interno alla disciplina convenzionale [ISGI 2008; cfr. anche ISGI 2018]
[4]
. Per altro verso, la Convenzione è stata oggetto di un certo interesse da
parte dei giudici italiani, che hanno fatto – come si vedrà – un uso ampio e variegato
delle sue disposizioni.
Su tali premesse, questo scritto si
propone di esaminare la rilevanza della Convenzione sui diritti delle persone con
disabilità nell’ordinamento italiano, prestando particolare attenzione alla sua
applicazione in sede giudiziaria.
Segnatamente, nel par. 2 verranno
introdotte alcune nozioni di base, la cui comprensione appare necessaria per l’analisi
dei problemi posti dall’attuazione in Italia della Convenzione. Da un lato, verranno
discussi i profili generali dell’adattamento del diritto italiano ai trattati
internazionali, con un approfondimento sulla nozione di norma non
self-executing e sul rango dei trattati nell’ordinamento
italiano. Dall’altro lato, ci si soffermerà sulla natura giuridica e l’efficacia interna
dei c.d. accordi misti, vale a dire dei trattati internazionali cui l’Unione europea
aderisce congiuntamente ai suoi Stati membri, essendo coinvolti ambiti rispetto ai quali
né la prima né i secondi godono di competenza esclusiva.
Il par. 3 avrà invece ad oggetto la
posizione della Convenzione nel sistema delle fonti del diritto italiano. Anzitutto,
verranno esaminate le modalità attraverso cui si è proceduto all’adattamento
dell’ordinamento italiano alla Convenzione. A questo riguardo, si darà conto della
tendenza del legislatore italiano a inserire rinvii alla Convenzione in atti normativi
ulteriori rispetto all’ordine di esecuzione. Verrà poi analizzato criticamente
l’orientamento giurisprudenziale, seguito tanto dalla Corte costituzionale quanto dalla
Corte di giustizia dell’UE, secondo cui la Convenzione nel suo complesso
sarebbe priva di efficacia self-executing (par. 3.1).
Il par. 4 si concentrerà sull’uso
della Convenzione da parte dei giudici ordinari e amministrativi. Questa analisi metterà
in evidenza come, indipendentemente dal riconoscimento della sua efficacia
self-executing, la Convenzione esercita un’importante influenza
sulla giurisprudenza ita¶{p. 277}liana, orientando – con le sue
definizioni e i suoi principi – la soluzione in ambito giudiziario delle complesse
problematiche poste dalla tutela delle persone con disabilità.
Il par. 5 riguarderà la potenziale
efficacia interna della prassi interpretativa del Comitato delle Nazioni Unite sui
diritti delle persone con disabilità. Benché la giurisprudenza italiana non si sia
ancora occupata di questo aspetto, si proverà a dimostrare l’esistenza di un obbligo da
parte dei giudici nazionali di prendere in considerazione le
opinioni espresse dal Comitato in merito all’interpretazione della Convenzione.
Nel paragrafo conclusivo, verranno
evidenziate in forma sintetica le principali criticità emerse dall’indagine e si
proporranno alcune possibili soluzioni.
2. Inquadramento generale del problema: l’efficacia dei trattati nell’ordinamento italiano
La Convenzione sui diritti delle
persone con disabilità, in quanto trattato, spiega naturalmente i
suoi effetti nell’ordinamento di origine, vale a dire quello internazionale. La sua
ratifica da parte dello Stato italiano, pertanto, fa sorgere per quest’ultimo l’obbligo
di «promuovere, proteggere e assicurare»
[5]
i diritti garantiti dalla Convenzione (art. 1). Data la natura collettiva (o
erga omnes partes) dei doveri discendenti
dai trattati in materia di diritti umani, tale obbligo sussiste anzitutto nei confronti
delle altre Parti Contraenti. In questa prospettiva, pertanto, la Convenzione crea
rapporti giuridici, di natura orizzontale, regolati dal diritto
internazionale. È poi possibile sostenere che la Convenzione sia produttiva di obblighi
internazionali anche, e direttamente, nelle relazioni verticali tra
Parti Contraenti e individui. Sul punto, e senza che sia necessario affrontare la
delicata (e dogmaticamente «scivolosa») questione della soggettività internazionale
dell’individuo, può osservarsi che coloro che si ritengano vittime di violazioni della
Convenzione possono attivare, contro la Parte che si consideri responsabile, il
meccanismo internazionale di controllo istituito dal Protocollo Opzionale alla
Convenzione e facente capo al Comitato sui diritti delle persone con disabilità
[6]
.
Queste considerazioni, tuttavia,
sono di limitata rilevanza ai fini del presente scritto, il quale ha ad oggetto
l’efficacia della Convenzione nell’or
¶
dinamento
italiano. Quel che ci proponiamo di chiarire, in altri termini, è
se, a quali condizioni e in che
misura la Convenzione sia suscettibile di produrre effetti sul piano
interno. Tale indagine si inserisce nella più ampia problematica riguardante le modalità
con cui l’ordinamento italiano recepisce i trattati internazionali e ne rende possibile
l’applicazione anche nei rapporti giuridici di diritto interno (c.d. «adattamento ai
trattati»). Non sarà dunque inutile, prima di analizzare le specificità dell’adattamento
dell’ordinamento italiano alla Convenzione, qualche breve riflessione introduttiva su
questo tema. Benché il diritto internazionale
non pretenda, se non in casi specifici, di essere recepito nel diritto statale, quasi
tutti gli ordinamenti nazionali – incluso quello italiano – prevedono meccanismi di
adattamento. Ciò è dovuto principalmente a considerazioni di ordine pratico. I
meccanismi di adattamento, infatti, mirano in ultima analisi a ridurre il rischio che lo
Stato violi i propri impegni internazionali, obbligando tutte le
sue articolazioni interne ad assicurarne l’osservanza
[7]
.
In assenza di una disposizione
costituzionale che sancisca in via generale l’adattamento ai
trattati, il recepimento di questi ultimi nell’ordinamento italiano avviene in virtù di
un atto normativo ad hoc. La prassi seguita in Italia, in
particolare, è quella di procedere all’adattamento mediante «ordine d’esecuzione», vale
a dire mediante una previsione normativa che opera un rinvio al
trattato con la formula «piena ed intera esecuzione sia data al [nome del trattato]».
Tale rinvio, di regola contenuto in una legge ordinaria
[8]
, fa sì che le disposizioni del trattato, nella misura in cui sono in vigore
sul piano internazionale, lo siano anche all’interno dello Stato.
In linea di principio, questo significa che, in virtù dell’ordine di esecuzione, le
norme pattizie diventano idonee a incidere su rapporti giuridici di diritto interno,
determinando – al pari delle norme nazionali – il sorgere di diritti e obblighi
azionabili, se necessario, in sede giudiziaria.
Quanto appena detto vale in linea
di principio perché i giudici italiani, non diversamente da quanto avviene in altri
ordinamenti, hanno condizionato la piena efficacia interna delle norme pattizie al
possesso di una specifica qualità, consistente nella loro natura
self-executing (o autoapplicativa). Con questa espressione si è
soliti descrivere l’idoneità della norma a produrre effetti sul piano interno sulla sola
base del rinvio operato dall’ordine di esecuzione, vale a dire senza che sia necessario
un ¶{p. 279}intervento integrativo da parte del legislatore
[9]
. Al riguardo, è stato da tempo denunciato un uso eccessivamente ampio di
questa nozione, volto a circoscrivere notevolmente gli ambiti di operatività interna del
diritto internazionale (soprattutto di origine pattizia), vuoi per una certa diffidenza
verso le fonti internazionalistiche, vuoi per una sorta di self-restraint
in favore degli organi politici, cui si intende riservare un esteso margine
di manovra nel perseguimento dell’interesse pubblico, al riparo dai vincoli derivanti
dal diritto internazionale [Conforti e Iovane 2023, 361-364].
Questa tendenza si esprime nel
ricorso ad argomenti speciosi, che fanno leva sull’asserito carattere vago o
programmatico delle previsioni convenzionali, sulla natura esclusivamente interstatale
degli obblighi derivanti dagli accordi internazionali, sulla presenza nel trattato della
c.d. «clausola di esecuzione», vale a dire di una disposizione che imponga alle Parti
Contraenti di adottare tutte le misure – legislative o di altra natura – necessarie per
darvi effetto. Come si vedrà, alcuni di questi argomenti sono stati impiegati in
giurisprudenza per negare carattere self-executing alla Convenzione
delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. Ce ne occuperemo,
pertanto, nel paragrafo dedicato all’adattamento dell’ordinamento italiano alla
Convenzione (par. 3.1).
Appare opportuno evidenziare da
subito, invece, che vi sono alcune ipotesi in cui l’assenza di carattere
self-executing della norma internazionale è pressoché pacifica.
Si tratta dei casi in cui la sua attuazione interna richiede un intervento integrativo
degli organi legislativi, in ragione del contenuto degli obblighi scaturenti dalla
norma, dei caratteri costituzionali dell’ordinamento che la recepisce, o di una
combinazione di entrambi i fattori. In questa prospettiva, le norme qualificabili come
non self-executing sarebbero riconducibili a tre categorie, vale a
dire: i) le norme la cui esecuzione è subordinata, in tutto o in
parte, all’esplicazione di una facoltà da parte del legislatore (o
comunque degli organi politici) della Parte Contraente; ii) le
norme che impongono – o comunque presuppongono – la creazione, sul piano interno, di
organi o procedure; iii) le norme che sanciscono obblighi la cui
implementazione richiede, per volere della Costituzione,
l’esercizio di un potere discrezionale da parte degli organi titolari della funzione
legislativa, com’è ad esempio il caso di norme internazionali che prevedano l’assunzione
di oneri non preventivati a carico delle finanze dello Stato (art. 81, comma 3, Cost.)
[Conforti e Iovane 2023, 358].
In queste ipotesi, pertanto, il
rinvio operato dall’ordine di esecuzione non sarà sufficiente ad assicurare piena
efficacia interna alle disposizioni pattizie, ma dovrà essere accompagnato dall’adozione
da parte del legi
¶{p. 280}slatore di ulteriori – e più articolate –
norme di attuazione. In assenza di tale intervento integrativo, tuttavia, la norma
pattizia non self-executing è comunque idonea a spiegare alcuni
importanti effetti normativi.
Note
[1] Cfr. Standard Rules on the Equalization of Opportunities for Persons with Disabilities, 4 marzo 1994, UN Doc. A/RES/48/96, Introduction, par. 9.
[2] Firma e ratifica hanno avuto luogo, rispettivamente, il 30 marzo 2007 e il 15 maggio 2009.
[3] Il riferimento è, ovviamente, alla legge 5 febbraio 1992, n. 104 («Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate»).
[4] Un contributo fondamentale a tale opera di adeguamento è stato offerto dai decreti legislativi di attuazione della legge n. 227, del 22 dicembre 2021 («Delega al Governo in materia di disabilità»).
[5] Il linguaggio utilizzato dalla Convenzione per definire la portata degli obblighi da essa derivanti costituisce un unicum nel panorama del diritto internazionale dei diritti umani, ma può senz’altro ritenersi equivalente alla formula «rispettare, proteggere e realizzare», generalmente impiegata nella prassi in materia [Kakoullis e Ikehara 2018, 49].
[6] Ciò, ovviamente, a condizione che la Parte abbia ratificato il Protocollo Opzionale. Sul Comitato, v. infra par. 5.
[7] Per un esame degli ulteriori fattori che concorrono a determinare l’apertura degli ordinamenti interni al diritto internazionale, cfr. Palombino [2021, 177].
[8] Solitamente, si tratta della stessa legge con cui il Parlamento autorizza la ratifica del trattato da parte del Presidente della Repubblica.
[9] Tale discorso vale, mutatis mutandis, anche per le norme del diritto internazionale generale (consuetudini, principi generali), cui l’ordinamento italiano «si conforma» (ovvero: si adatta) in virtù del rinvio operato dall’articolo 10 Cost.