Ciro Tarantino (a cura di)
Il soggiorno obbligato
DOI: 10.1401/9788815412584/c12
D’altra parte, è lo stesso testo dell’articolo 4 a suggerire una diversa lettura. La lett. a), richiamata dalla Corte di giustizia, ad esempio, fa riferimento all’obbligo delle Parti Contraenti di adottare, unitamente alle «appropriate misure legislative [e] amministrative», anche «altre misure» – un’espressione sufficientemente ampia da poter includere interventi dell’autorità giurisdizionale. Analogamente, la lett. b) impone di «prendere tutte le misure appropriate, compresa la legislazione, per modificare o abrogare qualsiasi legge esistente, regolamento, uso e pratica che costituisca discriminazione nei confronti di persone con disabilità» (corsivo aggiunto). L’adozione di atti legislativi, dunque, è solo una delle possibili misure che possono essere intraprese per rimuovere norme e prassi di carattere discriminatorio, potendosi ottenere lo stesso risultato
{p. 290}con una pronuncia di incostituzionalità della legge discriminatoria (nonché, nel caso in cui la discriminazione sia operata per via regolamentare o di fatto, con l’accertamento della sua illegittimità da parte dei giudici comuni).
Il tenore letterale di questa disposizione, inoltre, sconfessa l’idea – propugnata dalla Consulta – secondo cui la Convenzione si limiterebbe a imporre «obblighi di risultato». La lett. d), infatti, vincola le Parti Contraenti «[a]d astenersi dall’intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione» – un obbligo negativo e di condotta, dunque, il cui rispetto può pacificamente essere assicurato in sede giurisdizionale. Tanto varrebbe anche a escludere il carattere meramente «programmatico» o «promozionale» degli obblighi sanciti dalla Convenzione, come invece apoditticamente ritenuto da Corte di giustizia e Corte costituzionale. E ciò a voler tacere del fatto che la giurisprudenza costituzionale ha da sempre negato rilevanza alla distinzione tra norme precettive e programmatiche nei giudizi di legittimità costituzionale [25]
.
In ogni caso, il fatto che alcune disposizioni della Convenzione prevedano obblighi di risultato o abbiano un contenuto non sufficientemente determinato, pur potendo metterne in discussione la natura self-executing, non fa necessariamente venir meno gli ulteriori effetti normativi che esse possono produrre sul piano interno. In particolare, e avendo specifico riguardo a quanto statuito dalla Consulta nella sentenza n. 2/2016, anche i vincoli internazionali qualificabili come obblighi di risultato sono idonei a integrare il parametro interposto di costituzionalità di cui all’articolo 117 Cost. Invero, la stessa Corte ha affermato questo principio con riferimento alle direttive dell’Unione europea di natura non self-executing, vale a dire fonti che per definizione impongono obblighi di risultato [26]
. Del resto, non si comprende quale ostacolo, di natura logica o giuridica, impedisca di accertare la violazione di un obbligo internazionale (e dunque dell’art. 117 Cost.) quando una disposizione di legge sia inconciliabile con il raggiungimento di un risultato prescritto da un trattato.
Quanto detto vale anche per le disposizioni della Convenzione la cui attuazione implica scelte discrezionali costituzionalmente demandate al Parlamento «sul piano della individuazione delle relative risorse finanziarie». È indubbio che disposizioni di questo tenore non hanno carattere self-executing ed è altrettanto vero che la Corte costituzionale non può sostituirsi al Parlamento nell’esercizio delle sue prerogative in materia di bilancio. Una volta però che tali prerogative siano state esercitate, non può escludersi un controllo giurisdizionale volto a verificare che il legislatore ne abbia fatto buon uso, sotto il profilo della compatibilità con gli obblighi {p. 291}derivanti dalla Convenzione. La Corte potrebbe, ad esempio, accertare l’incompatibilità con l’articolo 117 Cost. di una legge che riduca in modo consistente e irragionevole le risorse finanziarie destinate alla realizzazione di uno o più diritti garantiti dalla Convenzione (c.d. principio di non regressione, sancito dall’art. 4, comma 4).

4. La Convenzione nella giurisprudenza dei giudici comuni. In particolare: il potere-dovere di interpretazione conforme

L’approccio restrittivo adottato dalla Consulta in merito alla natura non autoapplicativa della Convenzione è in parte controbilanciato dalla giurisprudenza dei giudici ordinari e amministrativi, la quale si caratterizza al contrario per un utilizzo largo e multiforme delle disposizioni convenzionali.
Anzitutto, e piuttosto significativamente, il Consiglio di Stato ha fatto leva sulla Convenzione, unitamente ad altri parametri interni, per sindacare la legittimità di provvedimenti adottati dalle amministrazioni locali in un ambito sostanzialmente coincidente con quello su cui verteva la sentenza n. 2/2016 della Corte costituzionale: le modalità di determinazione della compartecipazione dei beneficiari dei servizi socio-sanitari ai relativi costi. Senza entrare nel merito di tale questione, tecnicamente piuttosto complessa, si può rilevare come i giudici amministrativi abbiano qualificato come illegittimo ogni tentativo da parte dei Comuni di individuare criteri di compartecipazione «disancorati dall’accertamento della capacità contributiva del singolo» (ad es. attraverso la previsione di un onere contributivo fisso) per violazione, oltreché delle pertinenti norme di legge e costituzionali, dell’articolo 3 della Convenzione, a nulla rilevando il presunto carattere non autoapplicativo della stessa [27]
.
La rilevanza interna della Convenzione è senz’altro più tangibile, tuttavia, ove si consideri il suo impiego a fini ermeneutici. I giudici italiani, infatti, hanno evidenziato una marcata predisposizione a invocare la Convenzione nell’esercizio del proprio potere-dovere di interpretare il diritto interno in modo conforme al diritto internazionale [Ferri 2018].
Alcune pronunce, in particolare, fanno ricorso a tale tecnica interpretativa nella tradizionale accezione di «presunzione di conformità». Come chiarito dalla sezione lavoro della Cassazione, in caso di «dubbio» {p. 292}sul significato da attribuire alla legislazione interna occorre privilegiare «una interpretazione conforme alla Convenzione» [28]
, mediante uno sforzo ermeneutico volto a individuare l’«unica [soluzione] coerente con il diritto internazionale» [29]
. Su tali premesse, ad esempio, nella sentenza n. 2210/2016 la Corte di Cassazione ha risolto un dubbio interpretativo in tema di calcolo della c.d. «quota di riserva» in modo da assicurare maggiore protezione al lavoratore disabile, decretando l’illegittimità del suo licenziamento.
È agevole osservare come il canone ermeneutico della presunzione di conformità, se inteso in senso stretto, abbia margini di applicazione piuttosto limitati. Ad esso, infatti, può farsi ricorso solo quando la normativa interna si presti a più interpretazioni, di cui almeno una conforme (o... maggiormente conforme) al dettato convenzionale. Sennonché, i giudici italiani ne hanno talora dilatato l’ambito di applicazione, ravvisando ambiguità normative in modo forzato al solo scopo di giustificare l’utilizzo della Convenzione a fini ermeneutici.
Molto indicativa, in proposito, è la sentenza del Consiglio di Stato n. 8798, del 17 ottobre 2022, avente ad oggetto l’interpretazione dell’articolo 53, comma 3, del d.lgs. n. 151, del 26 marzo 2001. Tale disposizione esonera dall’obbligo di prestare turni notturni «la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104». La legge n. 104/1992, come si è detto, non parla di «soggetto disabile», quanto piuttosto di «persona handicappata», che è definita all’articolo 3 secondo il c.d. «modello medico» di disabilità. Una lettura piana di questa disposizione suggerirebbe che l’articolo 53, indipendentemente dalla terminologia utilizzata, si riferisca ai soggetti protetti dalla legge n. 104, così come definiti dal suo articolo 3 [30]
. Il Consiglio di Stato, invece, basandosi sulla circostanza che nella legge in questione la «definizione di disabile» non «figura affatto», ha ricostruito il significato di tale nozione a partire dalla Convenzione, giungendo così ad adottare un «modello sociale» di disabilità (par. 20.1) [31]
.{p. 293}
Del resto, la Corte di Cassazione ha fatto ampio uso delle definizioni della Convenzione senza dover ricorrere all’espediente del dubbio interpretativo. Il riferimento è alla giurisprudenza relativa al dovere del datore di lavoro di adottare «accomodamenti ragionevoli [...] nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori», di cui al comma 3-bis dell’articolo 3 del d.lgs. n. 216/2003 [32]
. Come si ricorderà, è proprio il comma 3-bis a richiamare l’attenzione dell’interprete sulla necessità di attribuire all’espressione «accomodamento ragionevole» il significato definito dalla Convenzione. Ma la Corte ha fatto lo stesso, anche in assenza di un’esplicita indicazione in tal senso, con la nozione di «persona con disabilità» [33]
. Va osservato, peraltro, che, vertendosi in una materia rientrante tra le competenze dell’Unione (parità di trattamento dei lavoratori), la Convenzione è stata applicata non già quale trattato internazionale, bensì in quanto «parte integrante del diritto dell’Unione europea» [34]
. In questo caso, pertanto, nell’impiegare il modello di «disabilità» previsto dalla Convenzione, i giudici di legittimità si sono semplicemente adeguati alla giurisprudenza della Corte di giustizia, la quale ha fatto propria tale definizione a partire dal caso HK Danmark [35]
, peraltro puntualmente richiamato dalla Cassazione [36]
.
L’ambito in cui la giurisprudenza italiana ha inteso in senso più ampio il proprio potere-dovere di interpretare la normativa interna in modo conforme alla Convenzione, però, esula dalle competenze dell’Unione europea. Si tratta delle materie di interesse dell’articolo 12 della Convenzione («Uguale riconoscimento di fronte alla legge»), il quale affronta il complesso problema della capacità giuridica/capacità di agire della persona disabile. Non potendo, in questa sede, procedere a un esame dettagliato dell’articolo 12, ci si limiterà a constatare che esso riconosce alla persona disabile sia il {p. 294}diritto al riconoscimento della capacità giuridica (comma 2) sia il diritto a ottenere «supporto» nell’esercizio della propria capacità (comma 3). La nozione di «supporto» ai sensi della Convenzione è particolarmente ampia, potendovi rientrare – con gli opportuni distinguo – quelle misure che, nell’ordinamento italiano, mirano a proteggere le persone prive, in tutto o in parte, di autonomia nella gestione della vita quotidiana e nel compimento di atti giuridici (interdizione, inabilitazione e, soprattutto, amministrazione di sostegno). Nel riconoscere tale «diritto al supporto», la Convenzione rifugge qualsiasi forma di paternalismo, imponendo invece il rispetto della «volontà» e delle «preferenze» della persona disabile, nonché la «proporzionalità» delle interferenze nell’autodeterminazione di quest’ultima (comma 4).
In una recente pronuncia, la Corte di Cassazione non ha esitato a definire questa disposizione il «cuore pulsante» della Convenzione [37]
, facendone il perno argomentativo di una decisione con cui si riconosce il diritto del maggiorenne, che si trovi in stato di interdizione, di esprimere il proprio consenso all’adozione per il tramite del suo rappresentante legale, a nulla ostando la qualificazione di tale atto come «personalissimo» [38]
. La Corte perviene a questo risultato interpretativo in conclusione di un articolato ragionamento sulla necessità di ripensare, in chiave evolutiva e «solidaristica», l’istituto dell’adozione del maggiorenne, nel quale l’articolo 12 occupa una posizione di primo piano. Tale disposizione, invero, renderebbe
doveroso [...] un ripensamento della disciplina della interdizione, anche solo per rafforzare taluni principi che ivi già sono espressi, ma che sono fortemente indeboliti da alcune prassi, per un verso, stancamente ancorate ai vecchi modelli della interdizione e della inabilitazione e, per altro verso, basate sulla semplicità di soluzioni che offrono il formale conforto della ripetitività. In primo luogo, occorre affermare, di modo che risulti quanto mai chiaro e che costituisca il principio ispiratore nella interpretazione e applicazione di tutta la disciplina, che il sostegno deve sempre assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti e le libertà fondamentali della persona con disabilità, per l’affermazione della sua dignità [39]
.
Alla luce di queste riflessioni, non sorprende che l’ambito privilegiato di applicazione dell’articolo 12 sia il diverso istituto dell’amministrazione di sostegno ex articolo 404 ss. c.c. A differenza di quanto avviene per l’interdizione, i cui effetti sono predeterminati per legge, l’amministrazione di sostegno è connotata da una sostanziale flessibilità: è infatti il giudice tutelare a perimetrare, sulla base di una valutazione «individua
{p. 295}lizzata», la portata della limitazione della capacità di agire e dei poteri dell’amministratore. Coerentemente con questa impostazione «flessibile», la disciplina codicistica non offre indicazioni dettagliate su come tale ampia discrezionalità debba essere esercitata dal giudice, né tantomeno sulle modalità di svolgimento dell’ufficio dell’amministratore, limitandosi a sottolineare l’importante principio secondo cui occorre «tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario».
Note
[25] Tale affermazione di principio è rinvenibile nella prima sentenza resa dalla Corte (C. cost., sent. n. 1, del 5 giugno 1956).
[26] C. cost., sent. n. 28, del 25 gennaio 2010.
[27] Consiglio di Stato, sez. III, sent. n. 6708, del 27 novembre 2018, par. 11. Cfr. anche ex multis Consiglio di Stato, sez. III, sent. n. 264 del 10 gennaio 2020, par. 9.1. Nella sent. n. 3640, del 23 luglio 2015, la stessa sezione del Consiglio di Stato ha espressamente qualificato i provvedimenti impugnati come «illegittimi» per «contrasto [...] con la Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità» (par. 6).
[28] Cass. civ., sez. lav., sent. n. 2210, del 4 febbraio 2016.
[29] Cass. civ., sez. lav., sent. n. 17867, del 9 settembre 2016.
[30] «È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione».
[31] Articolo 1, comma 2, della Convenzione «Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri». Con riferimento ai «modelli» di disabilità, occorre dar conto del fatto che il Comitato sui diritti delle persone con disabilità sembrerebbe aver fatto proprio un ulteriore modello, che è quello basato sui diritti umani (c.d. «human rights model of disability»; per i riferimenti, v. Lawson e Beckett [2021, 357-359]). L’adozione di questo modello, il quale farebbe leva primariamente sulla dignità intrinseca di ogni essere umano e, solo ove necessario, sulle condizioni cliniche della persona, è stata invocata da una parte della dottrina, la quale ne ha evidenziato l’idoneità a rafforzare la tutela delle persone con disabilità (v., ad esempio, l’articolata posizione di Degener [2016], la quale enuncia in «6 Proposizioni» le migliorie apportate da tale modello a quello sociale). Non è certo questa la sede per assumere una posizione meditata sull’argomento. A noi pare, tuttavia, ragionevole la posizione di chi afferma la sostanziale complementarità tra i due modelli, contrapponendo la natura «descrittiva» del modello sociale a quella «prescrittiva» del modello basato sui diritti umani [Lawson e Beckett 2021, 363-365].
[32] Cfr. ex plurimis Cass. civ., sez. lav., sent. n. 6497, del 9 marzo 2021, par. 3.2; Cass. civ., sez. lav., sent. n. 4896, del 23 febbraio 2021, par. 4; Cass. civ., sez. lav., sent. n. 29009, del 17 dicembre 2020, par. 6.5; Cass. civ., sez. lav., sent. n. 14790, del 10 luglio 2020, par. 16.4.
[33] V. da ultimo Cass. civ., sez. lav., sent. n. 9095, del 31 marzo 2023, par. 12.
[34] Cass. civ., sez. lav., sent. n. 284, del 10 gennaio 2017, par. 12.
[35] Corte di giustizia, sentenza dell’11 aprile 2013, cause riunite 335/11 e 337/11, punti 37-39.
[36] V., ad esempio, Cass. civ., sez. lav., sent. n. 9095, del 31 marzo 2023, par. 10.
[37] Cass. civ., sez. I, sent. n. 3462, del 3 febbraio 2022, par. 3.7.
[38] Significativamente, la Convenzione è espressamente menzionata nel «principio di diritto» formulato dalla Cassazione (ibidem, par. 4).
[39] Ibidem, par. 3.7.5 (corsivo aggiunto).