Contrastare la dispersione scolastica
DOI: 10.1401/9788815413369/c9
Capitolo nono
La scuola multiculturale. Dal confine alla frontiera educativa
di Giuseppe Grimaldi, assegnista di ricerca in Antropologia presso l’Università di Trieste
Abstract
Il capitolo affronta le modalità didattiche che, di fronte a popolazioni
scolastiche multiculturali, possono essere fortemente penalizzanti e persino
generatrici di disuguaglianze, citando un’esperienza di campo in una scuola di
Monfalcone (Gorizia) ad alta presenza di studenti migranti. Vengono citati diversi
studi e concetti antropologici, come la “pedagogia degli oppressi” di Paulo Freire,
i percorsi di inclusione differenziale destinati a studenti stranieri, l’accoglienza
di minori con background migratorio. Si pone enfasi sull’importanza di co-costruire
frontiere educative, ovvero avamposti per una democratizzazione della società, ma
anche spazi di messa in discussione per la produzione di nuove
configurazioni.
1. Introduzione: confini e frontiere educative nella scuola multiculturale
La scuola italiana oggi è davanti a un bivio. Da un lato essendo intrinsecamente multiculturale
[1]
rappresenta un laboratorio sociale tra i più rappresentativi della società del futuro. Dall’altro lato sembra essere prigioniera di strutture sociali e modi di intendere la relazione educativa
[2]
che fanno fatica a rendere conto della complessità del presente
[3]
. Benché le normative sull’educazione multiculturale propongano modelli educativi e relazionali basati su un ripensamento delle modalità e degli stessi obiettivi didattici, nella prassi si assiste nelle scuole di ogni ordine e grado a un costante ripiegamento in un determinato modello di insegnamento volto a valorizzare tradizioni educative di tipo gerarchico e unidirezionale
[4]
.
Le innovazioni che proliferano nella scuola di oggi d’altra parte si radicano spesso in un’episteme ben connotata, in cui la relazione educativa è concepita in modo univoco, dove i discenti vengono inquadrati come vasi vuoti che i docenti dovrebbero riempire con il loro sapere
[5]
.¶{p. 166}
Questa modalità didattica, che oggi viene valorizzata nelle istituzioni educative di ogni ordine e grado risulta essere fortemente penalizzante per la popolazione scolastica che non aderisce a un modello normativo di educazione da un punto di vista di classe, di visioni del mondo, di lingua e di provenienza geografica
[6]
.
Eppure le criticità connesse a questo metodo educativo non sono certo un fenomeno nuovo.
È Paulo Freire che nella sua pedagogia degli oppressi descrive con cura questo modello di insegnamento tuttora egemonico nei contesti scolastici. Lo definisce come un modello bancario di educazione, in cui la relazione tra docente e discente diventa di tipo depositario:
– l’educatore educa, gli educandi sono educati;
– l’educatore sa, gli educandi non sanno;
– l’educatore pensa, gli educandi sono pensati;
– l’educatore parla, gli educandi ascoltano docilmente;
– l’educatore crea la disciplina, gli educanti sono disciplinati;
– l’educatore sceglie e prescrive la sua scelta; gli educandi seguono la sua prescrizione;
– l’educatore agisce, gli educandi hanno l’illusione di agire, nell’azione dell’educatore;
– l’educatore sceglie il contenuto programmatico; gli educandi mai ascoltati in questa scelta si adattano;
– l’educatore identifica l’autorità del sapere con la sua autorità funzionale, che oppone in forma di antagonismo alla libertà degli educandi; questi devono adattarsi alle sue determinazioni;
– l’educatore infine è il soggetto del processo; gli educandi puri oggetti
[7]
.
Paulo Freire ha teorizzato questo modello bancario dell’educazione a partire dalla sua esperienza con le po¶{p. 167}polazioni indigene amazzoniche in Brasile, costantemente marginalizzate dal governo centrale che applicava modelli educativi atti a far sentire questi soggetti subalterni come non persone
[8]
. Oggi questo stesso modello impatta in Italia sui soggetti subalterni che compongono lo spazio scolastico. E dunque in primis sulle vite e sulle soggettività dei figli dei migranti
[9]
: l’educazione scolastica si configura sovente come un dispositivo atto a rimarcare una sorta di differenza costitutiva tra una popolazione scolastica capace di aderire a un modello egemonico di educazione e un altro gruppo che viene posto dall’altro lato dello spazio educativo, messo, come sostengo altrove, fuorigioco
[10]
.
Se si prendono in considerazione le caratteristiche di questo modello attraverso le categorie antropologiche, difatti, appare palese quanto si fondi sulla linea di differenziazione che nella nostra società costruisce la dicotomia noi-altri
[11]
. Una divisione che assume una funzione performativa nella scuola di oggi contribuendo a produrre, sostanziare, essenzializzare questa forma di differenziazione su cui si basano i processi di costruzione identitaria nell’attuale scenario nazionale.
Nella prassi scolastica, nella normalità
[12]
si produce così quello che si potrebbe definire come un confine educativo; uno spazio che, iscritto su un confine tra docente e discente, riproduce in realtà all’interno dell’aula scolastica una frattura tra chi aderisce a questo modello educativo e chi ne è costitutivamente escluso.
Come intendo mostrare in questo contributo, questa frattura, e la sua riproduzione, costituisce sovente la base del modello educativo nei contesti multiculturali a dispetto dell’evidente insuccesso del metodo di insegnamento che lo sostiene. L’alto numero di abbandoni scolastici, la di
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spersione che colpisce in maniera specifica la componente più fragile della popolazione scolastica, tuttavia chiama a riflettere e ad agire specificamente sul confine educativo che la scuola produce. La pedagogia del Novecento, in questo senso offre dei modelli di costruzione della relazione tra docente e discente che si propongono di superare questo confine educativo. Nel pensare l’educazione come pratica di liberazione di soggetti oppressi
[13]
, nella costruzione di un gruppo di discenti capace di superare individualismi
[14]
e nella produzione di una relazionalità non egemonica tra docente e discente
[15]
si materializza ciò che Dewey definisce come frontiera educativa
[16]
: la base per pensare a un processo di democratizzazione dell’istituzione scolastica
[17]
. In questo contributo, partendo da un’esperienza di campo in una scuola di Monfalcone (Gorizia) ad alta presenza di soggetti con background migratorio
[18]
, se da un lato ragiono sui meccanismi attraverso cui si produce questo confine educativo, dall’altro offro delle pratiche attraverso cui diventa possibile superare questa frattura e letteralmente fare frontiera
[19]
. I dati di questo lavoro si basano su un’attività di osservazione partecipante in varie classi dell’istituto e nell’ambiente scolastico durata tutto l’anno 2021-2022 e su un laboratorio costruito con un gruppo ristretto di giovani tanto autoctoni quanto con background migratorio svoltosi da novembre 2021 a maggio 2022 (per un totale di ventuno alunni che hanno frequentato almeno in un’occasione il laboratorio). Mentre si è scelto di costruire il laboratorio includendo il più possibile diverse nazionalità e background ¶{p. 169}familiari, l’attività di osservazione partecipante ha riguardato soprattutto giovani di origine bengalese (alcuni nati in Italia, altri arrivati dal Bangladesh in età diverse).
2. Il confine educativo. Dalla città cantiere
Le caratteristiche di ciò che ho definito come confine educativo sono state storicamente oggetto dell’analisi antropologica.
Ad esempio il modello di educazione normativa ha una predominanza assoluta del verbale, figlia di un’episteme moderna basata su una netta distinzione tra mente e corpo
[20]
.
Questa impostazione è in primis deficitaria da un punto di vista educativo, mancando di tenere conto di una consolidata prospettiva d’analisi che mostra la pregnanza dei processi corporei nella dinamica di apprendimento
[21]
. In secondo luogo penalizza costitutivamente una parte della componente scolastica, nello specifico i soggetti che essendo cresciuti e socializzati fuori dall’Italia hanno una competenza linguistica diversa rispetto ai nativi. Le stesse basi epistemiche del modello di insegnamento egemonico in Italia (dove è tuttora presente l’ombra lunga gentiliana)
[22]
mostrano quanto la struttura educativa possa essere generatrice di disuguaglianze: un approccio che non consideri la varietà linguistica dei discenti finirà per forza di cose per costruire un divario sempre più insanabile tra gli autoctoni e gli stranieri fino al punto di essenzializzare ciò che è un prodotto culturale frutto di dinamiche educative ben precise.
Su questo processo di normalizzazione del confine educativo si baserà successivamente il trattamento di chi si trova dall’altro lato nella classe multiculturale.
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Note
[1] F. Dei, La scuola multiculturale: una critica antropologica, Milano, Edizioni MCE, 2021.
[2] M. Benadusi, La scuola in pratica: prospettive antropologiche sull’educazione, Firenze, Editpress, 2017.
[3] R. Bonetti, Etnografie in bottiglia: Apprendere per relazioni nei contesti educativi, Milano, Mimesis, 2019.
[4] R. Bonetti, La trappola della normalità. Antropologia ed etnografia nei mondi della scuola, Firenze, SEID, 2014.
[5] M. Tassan, Antropologia per insegnare. Diversità culturale e processi educativi, Bologna, Zanichelli, 2020.
[6] R. Altin, Dispersi fuori classe: il background migratorio come inclusione differenziale a scuola, in Id. (a cura di), Fuoriclasse. Migranti e figli di migranti (dis)persi nel sistema scolastico di un’area di frontiere, Trieste, EUT, 2022.
[7] P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA, 2004 (1971), p. 59.
[8] A. Dal Lago, Non-persone: l’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 2006.
[10] G. Grimaldi, Fuorigioco: figli di migranti e italianità: un’etnografia tra Milano, Addis Abeba e Londra, Verona, Ombre corte, 2022.
[11] U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Roma, Carocci, 1995.
[12] Bonetti, La trappola della normalità, cit., p. 6.
[13] Freire, La pedagogia degli oppressi, cit.
[14] bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Milano, Meltemi, 2020.
[15] D. Dolci, Palpitare di nessi, Roma, Armando, 1985.
[16] J. Dewey e L. Childs, La frontiera educativa, Firenze, La Nuova Italia, 1981.
[17] P. Sorzio, Dewey e l’educazione progressiva, Roma, Carocci, 2009.
[18] G. Grimaldi, La ricerca-azione scuola come frontiera: la relazione tra educazione e progresso oltre l’inclusione differenziale, in Altin (a cura di), Fuoriclasse, cit.
[19] A. Langer, La scelta della convivenza, Roma, E/O Edizioni, 2022.
[20] T. Ingold, Antropologia come educazione, Bologna, La linea, 2019.
[21] P. Bourdieu, Per una teoria della pratica: con tre studi di etnologia cabila, Milano, Raffaello Cortina, 2003.
[22] G. Pastori, Quel che resta della riforma Gentile. A cento anni la matrice gentiliana nella scuola italiana è ancora viva?, in «Scuola democratica», 15, 3, 2023, pp. 567-578.