Francesca Biondi Dal Monte, Simone Frega (a cura di)
Contrastare la dispersione scolastica
DOI: 10.1401/9788815413369/c9
Su questo processo di normalizzazione del confine educativo si baserà successivamente il trattamento di chi si trova dall’altro lato nella classe multiculturale.
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Non è un caso che nei contesti scolastici ad alta presenza di studenti con background migratorio fioriscano progetti tesi a favorire l’inclusione degli stranieri, che in teoria dovrebbero permettere loro di raggiungere le competenze per colmare il gap con la componente nativa [23]
.
In buona parte di questi progetti si segue lo stesso approccio che caratterizza il modello di educazione depositaria summenzionato; solo che lo si fa dall’altro lato del confine. Lo studente straniero diventa quindi anche lui un vaso da riempire; ma va riempito in modo speciale in modo tale da poter essere considerato al livello dei nativi.
L’antropologia dell’educazione mostra chiaramente come questa forma di inquadramento si basi su un approccio che considera le condizioni incarnate del soggetto subalterno come strutturalmente deficitarie. Questo modello è stato definito da John Ogbu come difettologico. Ragionando sulle minoranze nel contesto educativo degli Stati Uniti scrive:
le minoranze e le persone di classe sociale bassa, mancando di certi tratti considerati tipici della classe media bianca, venivano considerate come culturalmente «deprivate». Lo sproporzionato insuccesso scolastico di questi gruppi veniva così attribuito alla deprivazione culturale del contesto familiare e comunitario [24]
.
In una sorta di capovolgimento del senso, la scuola, che letteralmente produce differenza (e, a sua volta, insuccesso scolastico) tra i soggetti che non incarnano il modello normativo su cui si fonda, tende a ricondurne le cause a una condizione incarnata: al contesto familiare, di classe o addirittura di razza.
Questi processi di essenzializzazione del confine educativo trovano la loro epitome in un’esagerazione e una {p. 171}sovrainterpretazione dei modelli culturali dei discenti con background migratorio, nel cosiddetto culturalismo. Comportamenti percepiti come «devianti», modi di partecipare allo spazio scolastico, addirittura la dispersione scolastica viene ricondotta ai modelli culturali del contesto d’origine. Culture di cui ovviamente non si ha alcun tipo di conoscenza analitica, i cui tratti vengono reificati e ipostatizzati al fine di fornire una spiegazione coerente a questa devianza immaginata come costitutiva della condizione sociale dei discenti con background migratorio.
Ho potuto testare direttamente gli effetti di questo modello di insegnamento sui discenti durante la mia attività di ricerca-azione in una scuola di Monfalcone ad alta presenza di studenti con background migratorio.
Monfalcone è il comune italiano con uno dei tassi più alti di migranti sulla popolazione d’Italia (28,6% della popolazione residente) [25]
. La motivazione è strettamente connessa alla sua configurazione economica e sociale: ospita infatti il cantiere navale più grande del gruppo Fincantieri, l’azienda a partecipazione statale di costruzione navi più importante d’Europa.
Ho svolto la ricerca in un istituto che ospita in maniera preponderante figli di operai del cantiere navale. Un contesto contrassegnato da un elevatissimo tasso di iscrizioni di NAI (studenti neoarrivati in Italia) [26]
e da un forte grado di abbandono scolastico. Molti dei giovani – in particolar modo quelli provenienti dall’area balcanica e soprattutto dal Bangladesh – non completano il ciclo di studi. Si inseriscono invece, attraverso le dozzine di ditte che subappaltano i lavori della Fincantieri, come operai non specializzati.{p. 172}
In una situazione di frontiera come questa appare palese quanto siano necessarie metodologie e modelli di insegnamento che provino a mettere in crisi questa sorta di profezia che si autoavvera in cui i figli dei migranti riproducono la condizione sociale dei genitori.
Invece la scuola continua a riprodurre strategie, metodi e modelli di insegnamento che paiono piuttosto aumentare quel confine noi-loro e costruire piuttosto per i figli dei migranti dei percorsi di inclusione differenziale [27]
in cui compito della scuola sembra diventare piuttosto quello di accompagnare gli studenti verso il loro destino.
A scuola, ad esempio, rispetto al fenomeno dell’abbandono scolastico della componente bengalese si era creata una narrativa piuttosto radicata.
Come ha voluto sottolineare una docente sin dai primi giorni della mia presenza, dovevo abituarmi al fatto che molti dei ragazzi di origine bengalese presenti in classe si sarebbero allontanati dalla scuola prima della fine dell’anno. Secondo lei la scuola serviva a questi studenti per imparare un po’ di italiano. Poi la sua utilità si differenziava a seconda del genere e dell’indirizzo. Per le femmine, iscritte perlopiù all’indirizzo sociopedagogico, la scuola serviva a imparare qualche abilità nel campo della cura familiare; abilità che sarebbero servite loro per sposarsi. I maschi invece, concentrati all’indirizzo meccanico, apprendevano basi del lavoro in cantiere e non vedevano l’ora di andare a lavorare per guadagnare e rendersi indipendenti [28]
.
È chiaro che questa visione di un ipotetico modello di educazione bengalese [29]
trasuda culturalismo e disinteresse a prendere in considerazione tanto i problemi strutturali della comunità di discenti quanto i modelli educativi proposti. Questa visione, tuttavia, non era assolutamente isolata, non {p. 173}era l’opinione di una docente poco attenta alle dinamiche culturali che attraversano spazi complessi come la scuola di Monfalcone. Era invece condivisa con toni più o meno simili da buona parte del corpo docente. Questa forma di culturalismo ha chiaramente una funzione performativa. Oltre a spiegare ciò che è complesso, assolve da ogni responsabilità la scuola e il modello educativo proposto rispetto all’enorme grado di abbandono scolastico dell’istituto.
Eppure la scuola in questione teneva fortemente in considerazione la questione dei NAI. Durante la mia permanenza a scuola sono rimasto abbastanza colpito dall’interesse che la dirigenza mostrava nell’attrarre una popolazione scolastica di così difficile inserimento. Ho capito nel corso del tempo che questo interesse era messo in campo per due motivi. In primis per aumentare il numero degli iscritti: oggi la scuola di Monfalcone in cui si è svolta la ricerca è una delle più popolate della regione. In secondo luogo perché i NAI permettono l’ottenimento di fondi e di progetti speciali volti a integrarli. Che poi la cosiddetta integrazione avvenga attraverso un modello di inclusione differenziale poco conta.
Ho assistito alla rappresentazione plastica di questo modello di inclusione differenziale durante i test linguistici di ingresso per la componente con background migratorio della scuola iscrittasi al primo anno.
I test erano stati approntati dal responsabile intercultura dell’istituto che li aveva progettati per pianificare dei corsi di lingua specifici in base al livello di competenza registrato. È stato chiesto a tutti gli studenti con cittadinanza non italiana di svolgere il test – un elenco di domande a risposta multipla a cui rispondere nella sala computer della scuola – indipendentemente dal loro arrivo in Italia o dal fatto che avessero o meno già frequentato scuole italiane in precedenza. L’obiettivo era ottenere dati standardizzati e oggettivi per valutare il livello linguistico della popolazione migrante nella scuola.
Ho osservato lo svolgimento di questi test ponendomi come ricercatore ma anche come facilitatore – ossia cercando di ricondurre il più possibile i test all’esperienza dei discenti – e ho potuto notare quanto palesemente questo test {p. 174}fosse legato a una certa visione di cos’è lo spazio educativo e soprattutto cos’è un discente con background migratorio.
In primis le domande del test erano distanti dalla realtà quotidiana dei giovani studenti. Il test era stato preso da un libro di Italiano L2 (insegnamento dell’Italiano come seconda lingua) e conteneva domande riguardanti situazioni specifiche della vita dei migranti (ad es. come rinnovare il permesso di soggiorno o quali funzioni assolve la questura). Domande che per giovani quattordicenni si configurano come distanti dalla realtà ma che servono a riprodurre il confine educativo, ponendoli immediatamente al di là dei limiti dell’italianità [30]
.
Era obbligatorio che questo test venisse svolto nel tempo che il docente aveva messo a disposizione. Il fatto che tra i partecipanti ci fossero anche giovani che avevano difficoltà a leggere l’alfabeto latino non era dirimente. Erano comunque tenuti a rispondere a tutte le domande o attendere la fine del tempo a disposizione (1 ora e 30 minuti). Alcuni tra i discenti non avevano mai usato un computer e dunque non sapevano come utilizzare il mouse per svolgere il test. In un caso specifico, ho trascorso il mio tempo durante il test a insegnare ad Amira e Tisha, due ragazze di origine bengalese, come utilizzare il mouse: ovviamente le loro risposte erano del tutto casuali, dato che non avevano familiarità con l’alfabeto latino [31]
.
Nel caso riportato, emerge così quanto uno strumento come quello del test, potenzialmente utile per costruire un’azione educativa volta ad agire sulla differenziazione che vivono i discenti con background migratorio, si rivelasse anche in questo caso una pratica performativa che non faceva altro che mostrare agli studenti il lato del confine in cui si trovavano.
Questi processi di produzione del confine educativo non si limitano all’accoglienza degli studenti con background migratorio: si riproducono potentemente nel contesto della classe dove, a parte rare eccezioni, il modello di lezione
{p. 175}frontale e la didattica depositaria costituiscono la norma. Lo spazio educativo in questo caso si scinde letteralmente in due tra chi può decidere di accedere ai contenuti delle lezioni e chi no. Nelle classi prime dell’indirizzo meccanico in cui ho trascorso il mio tempo durante la ricerca c’era un gruppo di NAI che era totalmente tagliato fuori dalle lezioni. I ragazzi trascorrevano il loro tempo a giocare con il cellulare, unica forma di intrattenimento che avevano a disposizione per trascorrere il tempo in classe. Risulta quindi abbastanza paradossale leggere le motivazioni della circolare ministeriale che vieta l’utilizzo del cellulare in classe: «L’uso di dispositivi digitali causa distrazione e rappresenta una mancanza di rispetto verso i docenti» [32]
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Note
[23] La stessa ricerca su cui si basa questo contributo è figlia di un progetto ministeriale basato su fondi europei volto a contrastare la dispersione scolastica di alunne/i con background migratorio. Cfr. https://www.regione.fvg.it/rafvg/cms/RAFVG/cultura-sport/immigrazione/FOGLIA8/.
[24] J. Ogbu (a cura di), Minority Status, Oppositional Culture, & Schooling, London, Routledge, 2008, p. 4.
[26] Con l’acronimo NAI si intende una categoria recentemente istituita all’interno del mondo della scuola con cui vengono identificati i «nuovi arrivati in Italia» presenti sul territorio nazionale da meno di tre anni. Cfr. R. Altin e M.C. Cesaro (a cura di), Linee-guida per una scuola inclusiva in contesti con presenza di alunne e alunni con background migratorio, Trieste, EUT, 2021, p. 65.
[27] S. Mezzadra e B. Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Durham, Duke University Press, 2013.
[28] Note di campo, 28 settembre 2021.
[29] Sugli stereotipi relativi alla presenza bengalese in Italia si veda tra gli altri F. Della Puppa, Uomini in movimento. Il lavoro della maschilità fra Bangladesh e Italia, Torino, Rosenberg & Sellier, 2014.
[30] Grimaldi, Fuorigioco, cit., p. 12.
[31] Note di campo, 9 settembre 2021.
[32] Circolare ministeriale, 19 dicembre 2022.